Battete in piazza il calpestío delle rivolte!
/…/ Nostre armi sono le nostre canzoni. /…/
Vedete, il cielo s’annoia di stelle! /…/
Majakovskij, La nostra marcia
Bisogna / strappare / la gioia / ai giorni futuri.
Majakovskij, Esenin
Ḕ impossibile non sognare, come impossibile è non pensare e non agire criticamente (fosse pure solamente con il raggio d’azione delle parole, delle immagini, dell’arte e della poesia …; queste non sono azioni innocue se il potere costituito – da sempre – non ha mai disdegnato di far tacere, esiliare o ammazzare artisti e poeti antagonisti), se si vuole costruire un futuro che non perpetui gli errori e gli orrori del passato. Il sogno deve vivere sperimentandosi come un’utopia-ipotesi che spezzi il continuum della storia corporativa e classista.
Sogno, critica e speranze, per questo traguardo, così non possono però rimanere nel chiuso delle coscienze solo individuali e delle astrazioni disancorate dalle condizioni materiali della storia reale. Necessita l’azione dirompente e comune di quanti sfruttati, emarginati ed estromessi subiscono ingiurie e ingiustizie. Un’azione teorico-pratica critica che, tendendo ad un avvenire diverso intrecci individuale e collettivo, e che, assioma prioritario, non tracuri di vagliare tutte le contraddizioni (non solo le politiche e quelle economiche) che la storia e la realtà mettono a fuoco davanti a coloro che soffrono, pensano e mirano a rivoluzionare lo stato di cose presente oppressivo. Le contraddizioni che intersecano le condotte umane hanno anche il segno delle ideologie cristallizzate e delle varie forme socio-culturali geo-storiche.
Monito e riflessione che in questa circostanza – ci preme ricordare – riallacciamo a quanto, in tal senso, nel 1843 Karl Marx scriveva a Arnold Ruge, affrontando sulla rivista “Annali franco-tedeschi” la prospettiva delle trasformazioni liberali e rappresentative della Germania di allora, ma rimaste disattese dal sistema feudale ancora in funzione.
Solo un’azione socializzata e collettivo-plurale, consapevole delle contraddizioni da rimuovere, può lottare per spezzare le catene delle cause alienanti (feudale o borghese sia la natura) l’essenza umana (comune a tutti i soggetti) e rivoluzionare le forme di vita dominanti e oppressive in vista di una società alternativa.
Comunista, per chi scrive!
Non solo teoria dunque, ma anche prassi collettiva e confronto dialettico tra punti di vista che sintetizzino però una comune prassi diveniente; una prassi però – precisa ancora Marx della lettera del 1843 – che nello stesso momento, desiderando il passaggio dall’asservimento alla libertà e all’eguaglianza, fra potenzialità e limiti, non dimentichi l’alleanza fra lavoratori manuali, lavoratori intellettuali e sfruttati. Il sogno di una cosa non può abbandonare il confronto con la realtà e le condizioni contestuali che lo legano ai ritmi eterogenei del divenire stesso delle cose, così come i vari soggetti (che in atto sono parti senza parte) non possono fare a meno di prendere posizione pratica.
Così, sfidando gli appiattimenti e gli scetticismi del mondo presentificato, anche noi continuiamo a sognare un futuro balenante anticapitalistico, il sogno di un mondo comunista (una dimensione che nessuno riesce a bloccare, proibire o annullare) come un affrancarsi continuo e duraturo dal nero delle catastrofi del capitalismo permanente di fine della storia.
Diverse sono le date e le tappe che indicherebbero gli inizi e gli arresti, ma noi non partiremo dalla preistoria o dalle leggende (tra questi passaggi c’è stato anche l’arco di tempo che ha visto le ribellioni e le rivolte contestatrici-rivoluzionarie studentesche e operaie degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo).
Il nostro passo si apre con la lettura “tendenziosa” di una particolare espressione che si trova nella lettera di Marx a Ruge. La lettera che ha per oggetto la situazione della Germania di allora con le sue disattese trasformazioni liberaleggianti e la necessità di passare ad una iniziativa di massa. In questa lettera tra le altre il filosofo di Treviri scriveva infatti che i sogni e la coscienza di possederli non possono non correlarsi attivamente, se l’obiettivo è la realizzazione consapevole e progettuale di volere interrompere il continuum della storia dei dominatori di turno.
Nel 1843 Karl Marx così scriveva che il “sogno di una cosa” non poteva essere disgiunto dalla “coscienza per possederla realmente”. Era il sogno – crediamo – che aveva maturato l’idea di un mondo di sostanziale eguaglianza e libertà di tutti, il comunismo. Quell’idea sociale e politica che di lì a poco nella Comune di Parigi (1871) avrebbe visto un momento di reale pratica organizzativa, sebbene, poi, sotto i colpi della controrivoluzione borghese, chiudesse battenti. Ma non per sempre! I sogni non finiscono mai. L’altro momento augurale fu quello della Rivoluzione russa dei Soviet del 1917. Ma anche questa possibilità, nonostante il suo indubbio legame con le aspirazioni della vecchia “Comune di Parigi” e la convinta volontà dell’élite dei rivoluzionari russi (che stimolavano il coinvolgimento della lotta popolare), finì per smentire le attese.
La parola d’ordine del rivoluzionario Lev Trockij, come per il breve periodo della “Comune di Parigi”, che vide i cittadini al governo della comunità, fu infatti di dare tutto il potere ai Soviet, il potere diretto del popolo insorto e dei lavoratori (ma qui bisogna ricordare che fu lo stesso Trockij che poi, per ordine del “Pcr”, soffocò nel sangue l’esperienza dei Soviet di Kronstadt in quanto ritenuta contro-rivoluzionaria dai dirigenti del partito che si erano posti come l’unica guida degli sviluppi dell’evento rivoluzionario).
Liberamente riuniti e fuori ogni tacca gerarchica di ruolo e funzione sociale o d’altro genere discriminante, i lavoratori e cittadini avrebbero governato la comunità d’appartenenza seguendo la prassi assembleare. I soviet erano infatti i consigli dei contadini, degli operai, degli uomini in armi, degli intellettuali e dei cittadini che in assemblea comune e diretta avrebbero deliberato insieme e insieme amministrato tutti i settori della vita associata e pubblica.
Contro la dittatura del partito comunista, tutto il potere ai Soviet era infatti la bandiera della comunità di Kronstadt. In questa piccola comunità soldati, marinai, artigiani, etc. erano i veri soggetti di governo degli affari della comunità e nel pieno della consapevolezza di realizzare quel sogno di eguaglianza, libertà, giustizia sociale, tollerante e pacifica convivenza che erano a fondamento dell’idea originaria della democrazia comunista. In una risoluzione dell’assemblea generale (redatta in quindici punti) la Città di Kronstadt (giovedì 3 marzo 1921), rivolta all’intera popolazione della Città e facente seguito agli orientamenti e direttive di potere e di partito dei dirigenti bolscevichi (comando di Pietroburgo), infatti chiedeva ad alta voce che era necessario assicurare: “ […] totale libertà di propaganda agli operai e contadini; […] libertà di parola e di stampa per gli operai e i contadini, per gli anarchici e per i parti socialisti di sinistra; […] rilasciare tutti i prigionieri politici […]; abolire tutti i ‘Dipartimenti politici’ perché nessun partito deve godere di privilegi […]”[1]. In un altro documento, titolato “vincere o morire”, pubblicato su “IZVSTIJA” (n. 3, sabato 5 marzo 1921), e a firma di A. Lamanov (4 marzo 1921), il Comitato rivoluzionario dei comunisti di Kronstadt, giudicando inammissibile il terrore contro i partiti socialisti, scrive che “la parola d’ordine è sempre stata e sarà: il potere ai soviet e non ai partiti”[2].
La terza rivoluzione, come fu definita l’opposizione di Kronstadt, finì però nel sangue e nel silenzio della repressione del partito comunista (una dittatura in nome dei proletari, degli operai e contadini, ma senza operai e contadini). La dittatura finì poi nel totalitarismo staliniano e nella repressione ed eliminazione di ogni dissenso e opposizione (anche Trotckij, esule, ironia della sorte, finì assassinato), mentre l’economia di Stato ripercorreva le stesse vie del mercato, della competizione e dell’industrializzazione non lontane dall’andamento capitalistico (capitalismo di Stato).
Condannati, fatti sparire o ridotti al silenzio furono anche molti intellettuali come molta gente comune. Del movimento del “futurismo russo”, l’avanguardia che in quegli anni, insieme al futurismo italiano di Marinetti, propagandava la propria rivoluzione artistica e poetica, diversi poeti non ebbero sorte diversa. Fra i nomi, qui, ricordiamo Khlebnikov, Esenin, Majakovskij. Esenin e Majakovskij però si suicidarono. Majakovskij, colpito e deluso, finì i suoi giorni dicendo che la “passione era finita” e che “l’incidente era chiuso” (era il 1930).
Ma è anche vero che il sogno e l’utopia di una rivoluzione comunista e pluralista non ha mai abbandonato la speranza di trovare altre aperture o vie e voci per incrinare e sostituire il modello capitalistico. Di questa consapevolezza però è necessario averne pensiero in ogni istante, anche se questo istante, come è qualunque data nell’ordine del tempo, è il 2017 con il suo capitalismo neoliberista globalizzato ed eletto a pensiero unico. Come dire che non si può non imparare dalle lotte del passato e insieme tenerne vive le speranze, le esperienze e gli esempi delle migliori personalità poetiche del Futurismo russo, nonostante repressi e sconfitti,
In questa occasione è anche opportuno non dimenticare che il centenario è anche il bicentenario de Il Capitale di Karl Marx (1867), il vocabolario scientifico ancora oggi valida arma di conoscenza e critica del capitalismo, seppure molte cose sono cambiate rispetto all’origine come è il caso delle forze della produzione (ma niente è cambiato nei rapporti di produzione e della legge della valorizzazione capitalistica). Un richiamo (Il Capitale) obbligato, se è vero che nonostante i tempi diversi le leggi dello sfruttamento e dell’appropriazione capitalistici non hanno cambiato niente se non l’essere diventate più pervasive e oppressive.
Senza riprenderne il legame, non solo il presente neoliberistico rimarrebbe avvolto nelle nebbie, ma anche la rivoluzione comunista dell’Ottobre sovietico rimarrebbe una voce dimezzata, così come il futurismo russo rimarrebbe vedovo del “sogno di una cosa” senza ancorarsi alla complessità materiale della vita dei singoli e dei collettivi. Senza i legami di un certo tipo non è possibile né avere né possedere la coscienza; qualunque azione di trasformazione richiede consapevolezza e previsione progettuale.
Nel caso, il sogno è quello rivoluzionario politico e poetico che, per esempio, il poeta Vladimir Majakovskij seguirà a partire dalla stessa lettura dell’“Einleitung” – Introduzione alla critica dell’economia politica – di Karl Marx. L’Einleitung fu talmente apprezzata da Majakovskij da definirla una vera opera poetica. L’opera (per inciso) è quella che avvierà anche il dibattito sulla poesia come “produzione”, “circolazione” e “consumo” di comunicazioni particolari. La poesia non sarà più (classicamente) legata all’ispirazione o alla creazione divina e ai generi fissi, mentre artisti e poeti a loro volta saranno i nuovi operai del materiale verbale e non verbale. Operai non meno importanti degli altri e volti a discutere e dialogare con la mente altrui. Del resto, poi, lo stesso Marx per far osservare certi risvolti dell’economia e della finanza del mondo capitalistico ha incrociato anche i pensieri critici di poeti come Dante, Goethe, Shakespeare.
Se poi si considera che il mondo capitalistico contemporaneo ha trovato la sua forza rimodernizzante nell’immateriale della comunicazione e dei linguaggi simbolici come nelle stesse arti, la cosa non sorprende affatto se ancora si può discutere dei rapporti tra poesia, arti, economia e politica o delle relazioni tra le rispettive economie materiali e simboliche.
Anzi permette di cogliere un doppio versante della produzione e della produttività del capitalismo odierno che si rinnova nello sfruttamento di materie di tutt’altra natura rispetto alla vecchia industria materiale e pesante.
Così, globalmente, accanto al capitalismo del vecchio oro-moneta e delle strutture materiali, si è sviluppato il nuovo dell’“immateriale!” sia nella forma del capitale finanziario (D-enaro) speculativo sia e in quella semio-informazionale (I-nformazione) informatizzata. Un’economia che si muove cioè con i ritmi dei flussi degli automi elettronici della rete web (D-I-Dn), mentre i processi produttivi e gli stessi rapporti di lavoro, che hanno creato la figura del lavoratore prosumer e consumatore a vita (fuori ogni tutela collettiva) di cose e stili di vita decisi altrove, sono parcellizzati, precareizzati e in balia delle decisioni dei mercati privatizzati.
Così il 2017 ci spinge con maggiore vigore a pensare e a dire che il sogno comunista è una parola insepolta (poco ci interessa il giudizio del fuori tempo e gioco); anzi, la rivoluzione comunista è una voce e un’energia che va fatta riesplodere come la festa dei fuochi d’artificio e un colpo d’arresto rivolto al tempo lineare e circolare dell’orologio meccanico-informatizzato dello sviluppo capitalistico totalizzante.
Il colpo e la festa? Alludiamo alla festa francese che annualmente ricrea la memoria della Rivoluzione del Luglio 1789 (senza che per questo si disattivi la questione della violenza dei fatti della storia!). Peccato che gli stessi festeggiamenti non siano riservati ai giorni della rivoluzione della “Comune di Parigi”, la rivoluzione alternativa della democrazia popolare (democrazia dei soviet ante-litteram!), e su cui si abbatté egualmente però la violenza delle classi dominanti, il partito reazionario e conservatore dei vincitori.
La violenza dei fenomeni non è cosa su cui si può tacere, a meno che non giochi con i dadi truccati dell’oscuramento ipocrita, o con le favole della rimozione! Non c’è nascita di mondi che non abbia come arché o un incipit violento (trascendente o immanente sia la qualità)! Basterebbe un’occhiata pur distratta alle violenze costitutive delle ricapitalizzazioni degli stessi Stati delle democrazie capitalistiche euro-americane dei nostri giorni (e ciò per non andare molto indietro nei diversi scomparti dei racconti), alle loro guerre umanitarie e fondamentaliste, nonché alle guerre della fame e a quelle monetarie degli Stati del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) e ai muri simbolici e concreti che ogni giorno innalzano ai confini come guerra di esclusione ed eliminazione, a meno che non sia l’amico degli amici o la giustizia del “fuoco amico”.
Da qualche parte poi qualcuno (Pascal), fra felici pensieri, ha detto e scritto che la giustizia è il primo atto di violenza che ha avuto la forza di farsi ragione, così come di ogni azione umana individuale e sociale è assolutamente impossibile prevedere tutti gli esiti possibili. Nessuno prevedeva che dopo l’abbattimento del “muro” di Berlino (1989), il mondo democratico-liberale, come l’americano, erigesse quello ai confini col Messico, o che, pur nell’interminabile conflitto arabo-palestinese, Israele erigesse quello di Gaza, o l’Europa dell’Ue quello greco, bulgaro, ungherese e l’austriaco al Brennero per fermare i flussi del popolo migrante.
E tuttavia, in questi contesti di tristezza, più forte è il bisogno e la necessità di pensare a dei rivolgimenti e a delle feste che ribaltino il modello di vita capitalistico e i suoi mercati che, secondo i termini della valorizzazione e dei profitti privati, mercificano ogni cosa. Questa marcia che sembra inarrestabile, nonostante i buchi neri delle continue crisi e squilibri umani e sociali insopportabili, può invece essere bloccata dall’azione di un contro-modello. E’ il contro-modello possibile e praticabile che già ha avuto, seppure per poco tempo, una storia consistente. La sua prima forma fu quella della Comune di Parigi, la seconda fu dei Soviet. Un rinnovato risveglio che, tenendo presenti le complessive mutazioni tecno-materiali e storiche, non dimentichi che non c’è rivoluzione sociale e politica innovativa che non cammini forte della potenza e della bellezza della poesia e dei sogni; una sfera di vita di beni comuni da salvaguardare e perseguire. Un corpo reale di immagini che dell’essere-insieme visualizza la giustizia sociale, il benessere, le attività non alienate come il piacere di rapporti senza sfruttamenti o di ricerche ed esplorazioni varie, socializzandole in un coinvolgimento di con-divisione est-etico-politico generalizzato. Nessun progetto politico è privo di immaginario estetico e di immagini che concretizzino percettivamente le astrazioni più ardite.
Del resto il linguaggio economico, o politico, o teorico non usa categorie ed espressioni puramente astratte (se mai è possibile la pratica di un linguaggio solo astratto). Il pensare-agire per immagini è tutt’altro che incompatibile con i concetti di una teoria, qualunque sia il campo di ricerca! Basterebbe pensare (e solo per toccare un campo a noi vicino) alle teorie economico-finanziarie che supportano il serpente monetario dell’Europa, le guerre chirurgiche, le “sofferenze nervose” dei mercati e le attuali “bolle” del capitalismo finanziario.
Del resto la realtà immediata del pensiero è sempre il linguaggio verbale e non verbale. Il problema è poi ridiscendere dalle sue categorie logico-astratte e logico-retoriche nella realtà processuale e coglierne i concreti e vitali vincoli smarcandone le tautologie.
Fra le altre, scavare come una talpa in mezzo a una tautologia argomentativo-linguistica sulla produzione-appropriazione capitalistica della natura non è stata cosa estranea, per esempio, allo stesso Marx; ne dà chiaro esempio in Per la critica dell’economia politica, l’opera in cui è intento a smantellare il circolo vizioso della produzione-appropriazione dell’economia moderna capitalistica. Nei Manoscritti del 1844 si servirà del linguaggio iconizzante-ironizzante dei poeti per demistificare il potere della moneta e del denaro; il denaro che nel circolo del modello sociale e politico capitalistico è sempre una serie di orbite in espansione concentrica.
Inoltre, e solo per inciso, anche il linguaggio cinematografico-artistico di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (regista e scrittore), nel primo decennale dell’evento rivoluzionario russo, ha investito sulle immagini poetiche per girare il film sulla rivoluzione comunista dell’Ottobre’17.
Se, scrive Marx – analizzando la fallacia dell’argomentazione enunciativa del paradigma economico dominante –, la produzione presuppone l’appropriazione della natura da parte dell’individuo all’interno di una determinata forma di società, allora in «questo senso è una tautologia (sottolineatura nostra) dire che la proprietà (appropriazione) è una condizione della produzione»[3]. La “talpa” ha così fatto il suo buon lavoro di sterramento!
Così, ora, sulla scorta dell’importanza del linguaggio e della sua potenza, pensiamo (è il nostro punto di vista) che la parola comunismo e la parola rivoluzione incorporata (di cui la sovietica è il secondo tentativo dopo quello della Comune di Parigi del 1871, per non dimenticare la rivoluzione maoista e quella cubana con Castro e Ernesto Guevara) non sono solo sonorità. Anche i suoni hanno bisogno di un’onda (immagine) per propagarsi, l’onda sonora. Continuano infatti ad essere il “permanere d’essere” del reale ondulatorio-discontinuo dello Spettro che si aggira per l’Europa (il pericolo rosso del comunismo), quello che ancora fa paura al capitalismo finanziario contemporaneo. Il potere del capitale monetario di cui, non meno della precedente proprietà, il comunista Marx ne ha già smascherato la grottesca autoreferenzialità tautologica negli stessi Manoscritti economico-filosofici del 1844.
E lo fa mettendo a lavoro il linguaggio dei poeti (Goethe e Shakespeare). Nel licenziare sia Per la critica dell’economia politica, sia Il Capitale (prima edizione) non fa mancare i versi dello stesso Dante. A chiusura della prefazione (1859) dell’una infatti si legge: «Qui si convien lasciare ogni sospetto / Ogni viltà conviene che qui sia morta»; e a chiusura della prefazione (1867) dell’altro si legge: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti». Il richiamo ai poeti è, qui, un modo per dire ancora una volta che le conoscenze e i saperi si intrecciano e che ogni prassi, seppure non sempre per vie chiare, non può tranciarne le relazioni, se è vero che il patrimonio delle metafore e delle allegorie è lì pronto ad intervenire per visualizzare meglio quanto sfugge alle astrazioni.
Ora, lasciando ogni viltà, sospetto e il dir delle genti, la voce di Goethe/Marx e di Shakespeare/Marx sulla proprietà e le proprietà del potere del denaro come equivalente (in generale) e universale mediazione di cose e vita, non guasta riportare i versi dei due poeti direttamente utilizzati da Marx. Se il potere del denaro (come si legge nei Manoscritti economico-filosofici del 1844) è tale che può comprare e possedere tutto (si appropria di tutto), allora il denaro è un lenone fra i bisogni e gli oggetti e media le vite:
Che diamine! certamente mani e piedi e testa e di dietro, questi, sono tuoi! E pure tutto quel di cui frescamente godo è perciò meno mio? Se io posso comprarmi sei stalloni, le loro forze non sono mie? Io ci corro sopra e sono un uomo più in gamba, come se avessi ventiquattro piedi»[4] (Goethe, Faust-Mefistofele);
Oro? Prezioso, scintillante, rosso oro? No, dei, non è frivola la mia supplica. Tanto di questo fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile. Questo stacca… il prete dall’altare; strappa al semiguarito l’origliere; sì, questo rosso schiavo scioglie e annoda i legami sacri; benedice il maledetto; fa la lebbra amabile; onora il ladro e gli dà il rango, le genuflessioni e la influenza nel consiglio dei senatori; questo conduce dei pretendenti alla troppo stagionata vedova; questo ringiovanisce, balsamico, in una gioventù di maggio, colei che respinta con nausea, marcia come di ospedale e pestifere piaghe. Maledetto metallo, comune prostituta degli uomini, che sconvolgi i popoli […] Tu, dolce regicida, nobile strumento di discordia […] che strettamente congiungi gli impossibili*, e li costringi a baciarsi! tu parli in ogni lingua, […] si ribella il tuo schiavo, l’uomo! […] Consuma * la tua forza a confonderli tutti, che la bestialità diventi padrona di questo mondo!» [5] (Shakespeare, Timone d’Atene).
Ora, se questa lingua della discordia, non è stata messa a tacere dalle rivoluzioni comuniste del secolo scorso, non per questo tuttavia ogni possibilità è sepolta o inattuale. Anzi!
Tutti i movimenti antagonisti e minoritari contemporanei contro il pensiero unico e la fine della storia sono, crediamo, infatti una spia più eloquente che mai del contrario. Lo “Spettro del comunismo” è più vivo che mai e in azione movimentista incontenibile. Un movimento che sta cercando di rivitalizzare quello che era lo spirito, rimasto in archivio, della democrazia dei soviet, dei consigli (Gramsci) delle classi e delle minoranze (il popolo – scrive Gilles Deleuze – è sempre una minoranza, mentre la maggioranza è una questione di modello, numeri e alleanze).
Una democrazia (questa) diversa e all’altezza dei tempi dove i confini sono diventati più mobili e maggiore la coscienza di reagire all’insopportabilità del modello capitalistico strutturando un contesto alternativo. La democrazia dell’eguaglianza dei soggetti differenti e operanti come una comunità operativa che lascia la gerarchizzazione classista e razziale del modello borghese-capitalistico. La democrazia degli elementi e delle parti in azione come un soggetto collettivo che è insieme autore e attore del suo stesso farsi mondo comune e di eguali, così come succede, crediamo, nel mondo costruito della/dalla poesia stessa ancorata alla materialità concreta della storia e del suo divenire mai chiuso.
Così se la poesia col suo comporsi di elementi cooperanti ed eguale valore democratico in uso, cosa che è anche comune all’ipotesi-mondo comunista dell’indimenticabile rivoluzione dei soviet d’Ottobre/’17, al connubio allora non può che augurarsi l’urgenza del risveglio e dell’azione non più procrastinabile e congiungente.
Allora salut 2017-1917! Del resto perché sorprendersi se poi nei due mondi rivoluzionari l’azione degli elementi (nella loro aseità specifica) gode in corpore vivo una democrazia diretta ed egualitaria in azione diretta? In questi due mondi il valore di ogni elemento (nessuno escluso) è condizione e funzione reciproco-paritaria dell’esser-ci dell’altro. Nessuna appropriazione, nessun profitto o rendita privati gli appartengono. Qui nessun regno, divino o naturale, reclama il diritto di proprietà privata!
La stessa ipotesi comunista è stata pensata e posta come un movimento storico e temporale che non ha ricette da applicare per i diversi contesti della sua operatività (indicativi in tal senso, per esempio, sono il metodo delle negazioni determinate come le osservazioni sulle comuni agricole russe del tempo e la stessa corrispondenza con Vera Ivanovna Zasulič). Un’ipotesi, quella del comunismo e della rivoluzione comunista che (nonostante le oscillazioni, le crisi e le abiure dei tanti “credenti” di ieri e di oggi) non ha perso però vigore e voce, se il suo “spettro” ancora oggi si aggira, come ieri, per l’Europa del XXI secolo e, variamente connotato, nel mondo latino-americano.
Il suo è sicuramente un sapere, un’azione e una potenza che non ha perso verità per agire contro la forma del “capitale-denaro”, sebbene il capitalismo cognitivo-digitale dell’economia informazionale e relazionale dal capitale non demorda, così come la legge della gravitazione universale di Galilei e Newton non ha perso vigore quando è stata integrata dall’ipotesi e dalla verifica poste da Albert Einstein.
Vero è infatti che dopo le grandi bolle delle crisi del capitalismo digito-finanziario del XXI (come quella del 2008), la legge di gravità classica-quanto-relativistica del comune del comunismo attira i corpi presso quelli che sono i convegni sull’evento-avvento del comunismo rivoluzionario. Almeno due a nostra conoscenza. Quello all’Istituto Birkbeck di Londra (2008) sull’Idea di comunismo, organizzato da Alain Badiou e Slavoj Žižek, e quello di “C. 17” di Roma – La conferenza di Roma Sul Comunismo – (18-22, Gennaio 2017), di cui ricordiamo solo alcuni nomi: Riccardo Bellofiore, Franco Berardi “Bifo”, Christian Marazzi, Maria Luisa Boccia, Luciana Castellina, Augusto Illuminati, Saskia Sassen, Mario Tronti, Toni Negri, Slavoj Žižek, etc. Motivo per cui, per noi, qui, parlare/scrivere sul tema comunismo-rivoluzione ’17, visto lo spessore dei nomi, lo confessiamo, non è certo senza timore.
Tuttavia non rinunciamo!
E di sicuro non è il taglio commemorativo che ci piglia per dire qualcosa sulla rivoluzione comunista e dintorni. La commemorazione è fuori posto! Commemorare è rimuovere, o non voler affrontare le tante analisi e questioni storico-materiali ancora aperte che il materialismo critico e i soggetti di questa storia, ancorandosi anche al pensiero dei poeti, hanno visto e, quasi testamento, lasciato come linee da mantenere vive e azioni da completare e continuare senza farsi ottundere il senno dai pregiudizi, dai sospetti o dalla viltà. Quindi ancora salut alla rivoluzione (il dare inizio è sempre possibile…) con poesia e comunismo, un’accoppiata che non nuoce, sicuramente, al punto di vista della rivoluzione e al divenire delle sue potenzialità creative annunciate e ancora sospese fra contraddizioni e paradossi di un tempo che fa digerire come libertà il controllo politico, l’assoggettamento e il servilismo.
Un monito e un invito, il connubio comunismo e poesia, che Marx, nel caso, come si può leggere nei suoi lavori, ha scritto ricordandoci la verità contenuta nei versi dei poeti come Dante (Divina Commedia), o in quelli di Goethe e di Shakespeare, allorquando analizzano la funzione del denaro nella genesi dell’economia capitalistica e nelle sue modalità storico-evolutive alienanti. Del resto l’uomo del sottosuolo, il sognatore, è ancora con la lanterna in mano.
E ora, anche noi, lasciando ogni “sospetto”, in questi tempi fuori sesto, lasciamo queste righe e andiamo avanti. Ma lo facciamo pensando oltre l’ironia faustiana (l’uomo “più in gamba”, l’individuo del denaro capitalista che possiede “ventiquattro piedi”); per cui ricordiamo – come un dato sensibile – che dalla satira di Shakespeare e dalla sua eironea ci viene incontro e vive ancora l’universale respiro dell’interrogativo shakespiriano: Preferireste che Cesare fosse vivo, e morire tutti da schiavi, o che Cesare sia morto per vivere tutti da uomini liberi? E lo spirito di libertà rivoluzionario non manca certo agli artisti e poeti futuristi.
A questo punto, qui, occorre ricordare che l’ostilità dei poeti del futurismo italiano e russo – pur differenti per tante cose essenziali (il futurismo di Marinetti, l’italiano, ebbe sin dall’inizio un’anima individualistica; quello russo un’anima forza motrice collettiva) – contro poeti e scrittori del passato era soltanto la presa di coscienza che il nuovo tempo non poteva essere affrontato e costruito con le forme di un linguaggio non più adeguato alle metamorfosi dei tempi della modernità, così come oggi bisogna ri-attrezzare il risveglio di un sogno politico mai seppellito per sabotare il “macchinico” dell’immateriale postfordista capitalistico.
I poeti kom-futy
L’immaginario collettivo oggi è bloccato sull’istantaneità dei pacchetti binarizzati del cyber-tempo e del cyber-spazio reticolari, mentre l’immaginazione, surclassati i limiti dell’attenzione umana e la necessità della distanza (entrambi necessari per ricevere ed elaborare consapevolmente gli stimoli), è colonizzata dall’immediatezza elettro-informazionale di rete sempre più accelerata. Sì che il futuro del tempo reale capitalistico è un immiserimento della vita individuale e sociale concreta. Cose esecrabili anche in quegli anni del Novecento europeo (e non) in cui irrompeva il futurismo russo, la nuova avanguardia artistica e letteraria dei poeti che credevano nel sogno comunista della rivoluzione dei soviet intesa ad amalgamare la collettività (abolendone le discrasie sociali), mentre il futurismo italiano di Filippo Marinetti, dall’altra parte, vantava l’aggressività individualistica della nuova velocità tecnico-meccanizzata e incitava alla competizione conquistatrice come modello esportabile persino in terra russa. Cosa che non ha trovato consensi presso le punte dell’avanguardia dei futuristi russi.
Marinetti, però, costatando la differenza d’impostazione e posizione politica con i russi, risolverà il problema dicendo che «ogni paese deve trovare la sua diversa rivoluzione»[6], come non rinuncerà all’idea di una dinamica futurizzante contagiosa e trasfigurante ogni cosa secondo l’esasperazione delle pulsioni individuali e competitive di ciascuno (agglutinati come massa plasmabile).
E la dinamica marinettiana (ma solo agli inizi del movimento), come scrive Giuseppe Panella, era come votata all’azzeramento di «tutta la cultura letteraria (e non solo) di un’Italia ancora troppo tradizionalista e incapace di cogliere la natura violenta e trasfiguratrice della Modernità»[7].
La modernità, una vera passione della speranza! Non solo intelligenza e volontà. Insieme è la speranza, la passione come azione (attiva) temporalizzata sul/del futuro come tempo da coltivare per una vita che (in maniera adeguata) incorpori i valori prefigurati dall’arte e dalla poesia. Una passione, la speranza, che tuttavia non agisce senza il dubbio dell’indeterminazione e delle incertezze sempre in agguato e legate pure a causalità non adeguate.
Il futuro non era solo passione e meraviglia per le innovazioni tecniche; era soprattutto attesa di un mondo nuovo. Un’utopia che si muoveva però tra sogno e pensiero-azione in processo o, come scriverà Majakovskij, una vera «Rivoluzione dello Spirito». E questa tendenza, come precisa Luigi Magarotto, «era volta alla difesa della parte logica e razionale del futurismo, trovando poi la sua realizzazione nel rivolgimento dell’ottobre 1917»[8], l’Ottobre rosso della rivoluzione comunista. La forza che spazza via le vecchie storture e le diseguaglianze disciplinate. La forza che per Majakovskij doveva tenere costante la tensione poesia-rivoluzione-comunismo-poesia. Un trinomio (e lo dico per inciso) che, per dirla con il “Principio speranza” di Ernst Bloch (il testo, pubblicato negli anni cinquanta del secolo scorso), è la forza dell’utopia di tutti i movimenti di liberazione dei secoli scorsi) – continua a vivere come Eingedenken («l’essere immemori»).
Non un ricordo ma una potenzialità viva e presente, un fascio di possibilità che, sebbene frammentato, è rimasto sospeso nel flusso delle cose e nella coscienza ancora non pienamente cosciente. Ciò che non muore però deve essere redento, risvegliato e assegnato alla voce politico-critica della poesia rivoluzionaria per essere accolta e realizzata nei suoi intenti innovatori. E il futuro è nel tempo come il fuoco sotto la cenere o la luce infuocata che giace imprigionata nel cuore dei cristalli, dentro cui poeti e artisti di ogni tempo non hanno mai smesso di guardare per estrarre l’energia quantica delle esplosioni fotoniche che animano le rivoluzioni orbitali.
Così il poeta che parla e agisce come “Principio speranza” e nuova orbita rivoluzionaria, riprendendo l’immagine di Bloch, potrebbe ri-dire :
veniamo al mondo solo per accogliere o registrare ciò che era, così com’era quando ancora non eravamo, ma tutto ci attende […] le cose cercano il loro poeta e vogliono essere riferite a noi. […] il mai pienamente accaduto […] che (corsivo nostro) deve essere compiuto in nuovi attimi. […]. Nonostante la sua apparente cristallizzazione nel passato, nella sua transitorietà esso serba in se stesso ancora […] un elemento di futuro […] delle alternative, degli dèi sconosciuti che ci attendono[9].
Il nostro tempo, grazie alle vertiginose accelerazioni del capitalismo digitale, ha contratto però ogni dimensione entro i ritmi bit di luce dei computer e della rete web, abolendo quasi la differenza e le tensioni tra passato, presente e futuro e contraendo le tre dimensioni in un unico nodo (il presente come un adesso dilatato, sì che non c’è niente che aspetta redenzione e liberazione, mentre i ritmi naturali delle nostre percezioni sono stati surclassati e dichiarati sofferenti per deficit d’attenzione… la malattia psico-sociale della civiltà connessa e superveloce www!
Così, almeno per chi scrive, è tempo di risvegliare il futuro del futurismo russo. Una rivoluzione culturale, il futurismo russo, e un passaggio che sul piano delle forme artistiche, letterarie e poetiche ha anticipato infatti lo stesso vento della rivoluzione politica sovietica, la poesia dell’utopia comunista; quel comunismo che, come ieri contro il fascismo, anche oggi potrà rispondere contro il nuovo fascismo della “democrazia” neoliberista-capitalistica rinnovando la «politicizzazione dell’arte» (W.Benjamin) come contro-tendenza che mina e disgrega la virtualizzazione del reale e della storia ridotta a bit, nodi, grafi e diagrammi di automi in flussi video-telematici.
Quel passaggio futurista che allora unì le armi della critica, la critica delle armi e il principio di speranza non può più rimanere una semplice eco. Non a caso, crediamo, che la lingua russa tragga dal verbo ‘by’ (essere) la parola ‘budet’ (futuro), sì che gli uomini del futurismo russo si chiamarono budetljany, uomini dell’avvenire. Soggetti come il poeta Chlebnikov e il poeta Majakovskij (solo per citarne due), la cui operatività artistico-culturale fu portatrice di una linea estetica anticonformista tanto individuale quanto sociale, non possono rimanere inascoltati. La loro poesia fu anche la voce culturale e politica di una collettività che, pur vivendo in un contesto di sfasatura tra condizioni economico-sociali e culturali, non accettava più estetica e poesia separate da linee di confine. Non è insolito né nuovo (come già si sa dagli studi marxisti) incontrare società dove l’arte non ha sintonia con la loro struttura cosiddetta portante, quella economica. Istanze differenziali che al contempo avanzano programmi di trasformazione radicale in ogni settore, rovesciando le vecchie forme e realizzando modelli nuovi di vita materiale e storica in senso avanzato, democratico, sono già state viste altrove. C’è sempre un movimento che vuole abolire lo stato di cose presente. Un progetto del “dover essere” come negazione determinata e operatività in atto (nessuna astrazione celestiale o metafisica!). Una parola d’ordine di realismo operativo che – come hanno testimoniato, pur distanti l’uno dall’altro sia per geografia che per tempi e realtà politica, Majakovskij (russo) e Brecht (tedesco al tempo di Hitler) – sia combattiva, rispondente alle “istanze della lotta”; non orientata a dettare regole (il poeta sarebbe uno scoliaste!).
In Come far versi, infatti, Majakovskij scrive che in una situazione concreta e rivoluzionaria dettare regole non è né compito né fine della poesia, perché le «sono proposte dalla vita stessa. Modi e modelli della formulazione, il fine delle regole sono determinati dalla classe, dalle istanze della nostra lotta. […] per operare con la parola sulle folle della rivoluzione […] Il materiale delle parole e delle combinazioni verbali, in cui s’imbatte il poeta, deve essere rielaborato»[10]. E se è alla situazione reale che bisogna guardare per dare forma alla produzione poetica che, pur con linguaggio proprio, non si allontani dalla realtà in movimento, è pur necessario tuttavia che si tengano presente alcuni elementi indispensabili come: 1) «la presenza, nella società, di un problema la cui soluzione è concepibile soltanto come un’opera poetica. L’ordinazione sociale»; 2) «la conoscenza esatta o, meglio, la percezione delle aspirazioni della propria classe»; 3) «il materiale. Le parole. L’ininterrotto arricchimento dei depositi; dei magazzini del proprio cranio con parole necessarie, espressive, rare, inventate, rinnovate e di ogni altro genere»[11].
Anche per Brecht le forme della produzione artistica, letteraria, poetica vanno desunte dai bisogni della lotta in corso; e sebbene il realismo in arte non sia una questione di forma, ma di confronto con la realtà, non significa che la forma non abbia importanza. La forma, piuttosto, si deve confrontare con la realtà e dipende dai bisogni della nostra lotta (istanze della nostra lotta scrive, invece, Majakovskij). Perché – scrive Brecht (in sintonia con il poeta del futurismo russo e della rivoluzione sovietica) – solo nel confronto realismo e non realismo si possono distinguere. Non esistono codici/modelli specifici in tal senso. «La stessa realtà è ampia, varia, piena di contraddizioni; la storia crea e rifiuta modelli […] Per giudicare le forme letterarie occorre interrogare la realtà […] La verità può essere taciuta in molti modi e in molti modi dichiarata. Noi deriviamo la nostra estetica, così come la nostra moralità, dai bisogni della nostra lotta»[12].
Ora, l’istanza della lotta nella poesia di Majakovskij budetljane è già presente sin dai tempi del manifesto cubofuturista, “Schiaffo al gusto del pubblico”. Il manifesto che tra i nomi annoverava anche quello di Velimir Chlebnikov, il poeta e matematico cui si deve il neologismo budetljany. E il “Come far versi” di Majakovskij, come si può vedere dal confronto, risuona delle parole del manifesto cubofuturista. Qui, infatti, l’ordine è quello di « […] aumentare il volume del vocabolario con parole arbitrarie e derivate (neologismi); odiare in modo inesorabile il linguaggio esistito prima […] […] scostare […] le luride impronte del […] ‘buonsenso’ e ‘buongusto’; fare palpitare (corsivo nostro) per la prima “volta i baleni della nuova futura bellezza della parola autonoma ed autosufficiente»[13]. Il rifiuto e l’attacco scandalistico e provocatorio fu il volto di questi artisti e poeti che allora hanno scompaginato il gusto estetico del senso comune e i canoni tradizionali (simbolisti e romantici) che lo alimentavano come un vero supporto ideologico dato all’ordine costituito prerivoluzionario. Occorreva una nuova arte verbale e simbolica e gettare via «Puskin, Dostoevskij, Tolstoj ecc. ecc. dalla Nave del nostro Tempo»[14], ovvero scompigliare il tradizionale modo di far poesia (il linguaggio di ieri cioè non era più adatto alla realtà in corso!). Il gusto comune (che bisognava schiaffeggiare) era abituato ancora a gustare la poesia in salsa espressivo-emozionale, sovrarazionale. Così i primi poeti futuristi russi, come Vladimir Chlebnikov, simularono le procedure tecniche dei pittori del cubismo. Per i primi poeti futuristi il fare della poesia fu così «un intreccio non oggettivo di suoni e di immagini, una pura trama fonetica. Essi parlavano di “zvùkopis’,” cioè di pittura acustica e, sostenendo che il linguaggio è soltanto il materiale della poesia come i colori lo sono della pittura, consideravano la parola, non come espressione d’un pensiero logico, ma come fine a se stessa»[15]. L’operazione primaria dei futuristi fu una vera autonomizzazione della parola come oggetto verbale emotivo, evocativo, fonetico e anche grafico; e ciò per reagire all’usura del linguaggio descrittivo e simbolista e ricorrendo al frazionamento, all’assonanza, ai neologismi, all’anti-ortografismo.
Nel futurismo russo la parola diventava oggetto semiotico-verbale autonomo e tuttavia non si aliena in mondi iperuranici e atemporali. L’autonomia, unita all’ironia, era segno di sospensione critico-comunicativa. Un modo, la sospensione, per dire che il mondo in atto e le sue forme standardizzate, al servizio delle idee dominanti, era da rifiutare e rigenerare. La parola poetica del futurismo russo, infatti, volava sopra i recinti entro cui, nonostante le rotture paroliberiste, rimaneva quello italiano di Marinetti. Questi, infatti, sosteneva ideologicamente le guerre di conquista del fascismo e la superiorità dell’uomo sulla donna. E voleva altresì che la pubblicità fosse subordinata ai mercati del capitalismo coloniale in espansione. Cose che Majakovskij né altri dell’avanguardia russa rifiutavano senza mezzi termini.
E se Majakovskij scrisse poesie che sembrano una «composizione di réclames verseggiate»[16], ciò è in vista dell’organizzazione moscovita per l’industria agricola (Mosselprom). E questa industria non è certo, come pubblicizzava Marinetti, finalizzata né alla guerra («sola igiene del mondo») né a quella umanità imperfetta che «cammina verso l’individualismo anarchico […], il genio anarchico che (corsivo nostro) deride e spacca il carcere comunista»[17]. Marinetti – scrive Edoardo Sanguineti – aveva della natura una «visione […] imperfetta, che attende dall’uomo un complemento indispensabile […], e lo attende nella forma […] della guerra, e della guerra industriale»[18]. Il suo fu un grido costante che inneggiava alla bellezza estetica come conflagrazione, cannonate… il sibilo delle armi e del rombo dei nuovi mezzi di trasporto. Una vera e propria «apologia estetica della guerra»[19] o, per dirla nei termini di W. Benjamin, la pratica ideologica che prenderà il nome di estetizzazione della politica, lì dove il comunismo però risponderà «con la politicizzazione dell’arte»[20].
Altresì quando Majakovskij connette la parola poesia e industria – «poesia-industria» – è perché dal materiale verbale, oggetto privilegiato dai primi futuristi-budetljane, vuole ben altro che una poesia ridotta nella cornice di una pura forma estetica. Su Lef (1923, n.1), a firma di Majakovskij e Brik, infatti, appare l’articolo “Il nostro materiale verbale” in cui si legge che suoni e polifonia del ritmo debbono essere organizzati per semplificare le strutture verbali e piegarle a una comunicazione più vicina e propria al contesto. Un lavoro non finalizzato a «puro fine estetico, ma un laboratorio per poter esprimere nel migliore dei modi i fatti del nostro tempo. Noi non siano sacerdoti creatori, ma operai che eseguono un’ordinazione sociale»[21]. Per Majakovskij era la consapevolezza e la necessità di superare ogni estetismo e di contrastare ogni tentativo di ridurre la poesia a sedativo sociale o a elusivo ed evanescente gioco della vita. Il simbolismo e il soggettivismo vecchio stampo non servono per affrontare i fatti della vita e della società storica in atto. La comunicazione poetica doveva mediare perfettamente insieme l’immagine, i suoni, la parola, il ritmo… perché netta fosse la percezione del valore e della funzione dell’innovazione tecnica applicata al complesso lavoro poetico.
Per loro, budetljane (uomini dell’avvenire) di seconda tendenza, il futuro era altra cosa e neanche lineare. In campo c’erano forze di tendenze opposte. Piuttosto era la possibilità collettiva di costruire, fra utopia e divenire (e non certamente senza conflitti e distacco riflessivo), quel mondo nuovo che la stessa tecnologia concretamente favoriva e spingeva sempre più avanti con i progetti dell’intelligenza illuministica e dell’immaginazione produttiva all’opera. Per loro la parola pubblicità (com’è nell’essenza del termine) era valore d’uso e di scambio semiotico-semantico popolare in vista di un pubblico mondo in comune. E a questo dovevano essere subordinate le invenzioni e le innovazioni futuriste. Majakovskij, di questa posizione, ne dà testimonianza nell’articolo in commemorazione di Cechov (luglio 1914). Il contenuto non conta. Conta soprattutto l’espressione verbale. Il modo espressivo è sempre nuovo e specifico in ciascuna epoca. Le «associazioni verbali devono essere attuali. […] La parola è quindi il fine dello scrittore. […] Il vertiginoso ritmo dell’esistenza ha favorito il trapasso dal periodo principale a una sintassi scompigliata. […] Il vocabolario si è arricchito di voci nuove»[22].
Tuttavia, man mano che la prima guerra mondiale devastava ogni cosa e la rivoluzione dell’Ottobre rosso sbocciava, la posizione di Majakovskij rivedeva i rapporti fra contenuti, parole e regole. In questa direzione chiari sono, per esempio, i componimenti La nostra marcia (1917) [23] e A Sergèi Esénin (1926)[24]. Il primo a composizione grafica tradizionale. Il secondo con il procedimento tipico della costruzione “a scala”. La poesia di Majakovskij ora incontrava direttamente la rivoluzione sociale e politica bolscevica. Era arrivato il momento allora di rivedere il processo di produzione della poesia, la destinazione del pubblico e l’ingranaggio degli elementi in uso: il linguaggio, la distanza tra il soggetto e l’oggetto, la rivalutazione del materiale concreto, il ritmo, il riuso della similitudine, della metafora e dell’iperbole per dare immagine alla parola, alla sonorità e alla composizione ritmica stessa.
Nel primo, l’io del poeta, secondo noi, fa tutt’uno con il collettivo del noi «laveremo le città dei mondi»:
Battete in piazza il calpestio delle rivolte! / In alto, catena di teste superbe! / Con la piena d’un nuovo diluvio / laveremo le città dei mondi. // […] / Il carro degli anni è lento. / II nostro dio è la corsa. Il cuore è il nostro tamburo. // […] // Prato, distenditi verde, / copri il fondo dei giorni.
Arcobaleno, da’ un arco / ai cavalli veloci degli anni. // Vedete, il cielo s’annoia delle stelle! / […] / Ehi, Orsa Maggiore, esigi / che ci assumano in cielo da vivi! // Bevi le gioie! Canta! / […] / Cuore, batti la battaglia! / Il nostro petto è rame di timballi.
Nel secondo, senza denigrare l’atto dell’amico, l’io del poeta fa tutt’uno invece con l’energia e la lotta che non debbono essere abbandonate per cambiare il mondo e la vita. Non ci si può permettere di demotivarsi e desistere dalla lotta. Il conflitto politico rivoluzionario è come la vita e il futuro: e non ha nessuna fine. Perché – dice il poeta – difficile non è morire, difficile è vivere. La costruzione grafica della poesia inoltre, emblematicamente, è resa nel tipico procedimento «a scala» (un battere le parole e l’espressione come se la pagina fosse un pentagramma/scala dove lo scalare/scendere dei toni e del ritmo si dovesse sottolineare scalino per scalino e, passo dopo passo, scagliarlo al vento della rivoluzione come il pugno del partito-soviet che racchiude milioni di dita).
Lei se n’è andato,
come suol dirsi,
all’altro mondo.
Vuoto…
Volate
fendendo le stelle
Senza un racconto,
senza libagioni.
Sobrietà.
No, Esenin,
questo
non è dileggio, –
in gola
ho un groppo di pena,
non un ghigno.
I critici borbottano:
“Le cause
sono queste e quelle,
e in specie
lo scarso affratellamento
per effetto
della molta birra e del molto vino.”
Si dice
Se aveste sostituito
la bohème
con la classe,
la classe avrebbe influito su voi
e non vi sareste più accapigliato
Già, come se la classe
spegnesse la sete
col “kvs.”
[…]Finora
Il canagliume
S’è poco diradato.
Molto è il lavoro,
occorre fare in tempo.
Bisogna
Dapprima
trasformare la vita
e, trasformata,
si potrà esaltarla.
Quest’epoca
è difficiletta per la penna.
Ma ditemi
voi,
sciancati e sciancate,
dove,
quando,
quale grande si è scelto
una strada
più battuta
e più facile?
La parola
è un condottiero
della forza umana.
March!
Che il tempo
ci esploda dietro a noi
come una selva di proiettili.
[…]
Per l’allegria
il pianeta nostro
è poco attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni futuri.
In questa vita
non è difficile morire.
Vivere
è di gran lunga più difficile.
Ora, pur schematicamente, è possibile concludere che questo punto finale del lascito poetico di Majakovskij sia ancora il punto-istante nei confronti del quale ciascuno di noi non possa esimersi dall’esserne erede e debitore. Non si può stare a guardare. Anche il XXI secolo, come il suo pianeta, non è attrezzato per l’allegria, per la gioia, per l’eguaglianza, per l’amore. Il secolo cyber e www è ancora tempo d’oppressione e sfruttamenti più crudeli e più sofisticati. Il futuro del cognitivo-creativo capitalistico globalizzato è senza divenire alternativo; è comando e controllo dei signori della vita e della morte che totalizzano ogni dove. Un vero problema spinoso. Allora, se questo secolo è un problema, le indicazioni di lavoro di Majakovskij (in Come far versi) sono di una potenzialità attuale straordinaria. Qui ci vuole un nuovo soggetto di classe e un linguaggio-poesia che ne anticipi la soluzione (non bastano, come dirà F. B. Bifo, solo poeti e sapienti). Il vitale e utile che ci suggerisce ancora il futurismo di Majakovskij è, invece, una rivoluzione vera e un magazzino di parole «necessarie, espressive, rare, inventate, rinnovate e di ogni altro genere». Non c’è rivoluzione senza poesia! Majakovskij, come Esénin, è morto suicida, mentre la rivoluzione dell’Ottobre rosso avanzava tutt’altro che coerente. Ma non per questo le verità di quello “scompiglio” sovversivo sono morte e sepolte. Majakovskij “cantò” anche l’amore (basta ricordare il suo rapporto con Lilja, la moglie di Osip Brik); e poi, morendo, il suo saluto fu: «per favore, non spettegolate. Il defunto l’aveva in grande orrore». Il suo essere fu, crediamo, un tutt’uno con il suo “budet-byt”: essere-futuro.
Il futuro che non manca di smentire i ridicoli che ne hanno dichiarato/dichiarano la fine. E Franco Berardi Bifo nel suo “Manifesto del dopo-futuro”[25], punti 8 e10, stampiglia come appresso:
Siamo sul promontorio estremo dei secoli… Dobbiamo assolutamente guardare dietro di noi per ricordare l’abisso di violenza e di orrore […]. Viviamo da molto tempo nella religione del tempo uniforme. L’eterna velocità onnipresente è già dietro di noi, nell’Internet, perciò ora possiamo dimenticarla per trovare il nostro ritmo singolare.
Vorremmo fare dell’arte forza di cambiamento della vita, vorremmo abolire la separazione tra poesia e comunicazione di massa, vorremmo sottrarre il dominio sui media ai mercanti per consegnarlo ai sapienti e ai poeti.
Ma perché l’arte sia «forza di cambiamento della vita» non basta, secondo noi, consegnare comunicazione e media a sapienti e poeti. Il potere dei ridicoli e altra canaglia domina ancora. Crediamo sia più convincente e probante, invece, rimettere in gioco la lotta di classe in proiezione del divenire-comunista fuori i cardini del vecchio modello totalizzante (la legge di gravità di Newton non è stata messa fuori gioco dalla gravità relativistica di Einstein). La forza di gravità in questa nuova forma, come nella logica del futurismo russo, non scinde il suo schema-ritmo dal contenuto. E il ritmo, nel caso del divenire-comunista, è quello singolare del noi delle rivolte di classe (non postmoderne) in «piazza» che, rinnovate come collettivo plurale autonomo (come autonomo è il linguaggio della poesia, ma non indipendente dai fatti della storia temporale), invece può lavare ancora «le città dei mondi» (La nostra marcia), anche se «La classe / Anche lei / Non scherza nel bere» (A Sergèi Esénin). E per disperdere la marmaglia – ricorda ancora Majakovskij – occorre fare in tempo perché molto è il lavoro e vivere è sempre difficile. Ma se non si agisce non si vive a misura d’uomini.
Del resto lo stesso Berardi Bifo scrive che oggi il “comunismo” è possibile ipotizzarlo come un susseguirsi di congiunzioni (non connettività di automi e nodi spazio-tempo-cyber) di effetti co-concomitanti. Il sottrarsi-congiungersi di «singoli e comunità, […] l’effetto della creazione di un’economia dell’uso condiviso di oggetti e servizi, […] la liberazione di tempo per la cultura, il piacere e l’affetto […] il compito dell’intelletto collettivo è […] allontanarsi dalla paranoia, creare zone di resistenza umana, sperimentare forme autonome di produzione fondate sulla produzione ad alta tecnologia e a basso consumo di energia. […] Il capitalismo perderà […] il suo ruolo di paradigma onnipervasivo di semiotizzazione»[26] e il comunismo sarà il futuro di una unità rizomatica di singolarità e comunità che inizia e non finisce, ovvero, è possibile dire, un processo dell’“io noi” infinito come il tempus, il tempo del mescolamento. L’identità dell’“io noi”. È l’identità “temperata” in cui il “noi” (né io, né tu, né egli) è il transito che va dal singolare al comune e viceversa come è il luogo di una soglia o di un commutatore. E in questo luogo che, crediamo, la politica della poesia e l’immaginazione della politica possono esercitare ed enunciare una congiunta azione di ribellione del “noi” collettivo e sovversione comunista.
La poesia agisce
Gettiamo uno sguardo sull’economia e l’uso politico sia della pratica enunciativo-poetica significante da una parte, sia della semiologia enunciativa del semio-capitalismo-denaro-finanza dall’altra. Qui si satura l’attenzione bloccata sulla corrispondenza biunivoca dei significati di mercato e si denuncia la penuria di tempo nonostante le accelerazioni del mondo informatizzato; dall’altra parte c’è il “capitale” della poesia con il suo plusvalore semantico e la sua significanza non riducibile agli algoritmi del linguaggio codificato in bit. Il linguaggio della poesia è polifonico-polisemico e i suoi ritmi temporali, come scrisse Kolmogorov (scienziato sovietico delle turbolenze) sono esponenziali e non binarizzabili, perché “plastica” è la bellezza e l’est-etica della sua lingua e capace insieme di inoltrarci in ciò che è esterno alla lingua stessa (e ciò nonostante, come il linguaggio formale della matematica, capace di significarlo).
Il capitale postfordista cognitivo-linguistico usa la pratica enunciativa significante – interviste, sondaggi, discorsi, annunci, etc. – e quella a-significante (flussi di automi ritmo-algebrici-digitali subliminali – equazioni, diagrammi, previsioni rating, bilanci e spread, statistiche del rischio, default, etc. – come un dire-fare finalizzato all’assoggettamento e all’asservimento dei soggetti (né più popolo né massa, ma prosumer e solo consumatori). Nella sua strategia, l’a-significante automatismo informatizzato (e indipendente) richiede però la mediazione persuasiva delle enunciazioni significanti (discorsi, racconti, appelli, commenti mass-mediali, annunci, etc.). Così se la Banca centrale europea annuncia – visualizzando diagrammi, grafi e flussi – l’aumento del «tasso di sconto dell’1%, sono […] migliaia i progetti che finiscono in fumo per assenza di credito»[27].
Crolla il prezzo degli immobili (subprime)? Le famiglie che non rimborsano il debito perdono casa e risparmi!
Si decidono misure politiche di riduzione delle spese sociali (sanità e istruzione)? Nascono comportamenti generalizzati di paura e panico, mentre il Sistema Sanitario Mondiale derubrica nevrosi, psicosi e paranoie classiche e si dà da fare per inventare e categorizzare altre malattie legate ai disturbi mentali (ma funzionali solo alle multinazionali farmaceutiche che supportano il biopotere capitalistico).
Come dire che questi tipi di enunciazioni (“assiomi” o “enunciati operativi” guattari-deleuziani) costruiscono sia nuovi oggetti che conseguenziali comportamenti correlati. L’oggetto del desiderio e le condotte si attualizzano controllando continuamente i processi di soggettivazione, mescolando azioni strutturali e sovrastrutturali ma gerarchizzate dall’infrastrutturale del potere enunciazionale-pratico (azioni su azioni) sofisticato e opprimente.
Naturalmente, nonostante la cura capitalistica dei dispositivi elettronici e semiotici ibridati, non mancano le resistenze e i conflitti antagonisti contro la “biopolitica” e il “biopotere” che formattano sia la vita quanto le sue esperienze territorializzate sottoposte alle identificazione dei linguaggi della razionalizzazione elettro-informatizzata. Nell’evoluzione storica, e visibile in itinere, Marx (“Frammento sulle macchine”, Grundisse) già ne aveva anticipato l’avvento come stadio naturale, mentre indicava il furto di tempo di una volta come “base miserabile”, e “superfluo” l’operaio (oggi quello della parola). L’appropriazione e lo sfruttamento delle conoscenze (knowledge) informatizzate, la sussunzione intera del tempo di vita della popolazione, il sapere sociale (general intellect) e, in genere, il linguaggio-comunicazione sono diventati “capitale fisso”. Nasce una sorgente infinita di ricchezza, l’ordine simbolico della lingua e dei linguaggi come sorgente di ricchezza illimitata.
L’iniziativa e l’ascesa dell’impresa di Bill Gates e di Google, oggi, scrive F. Kaplan, ne sono inoppugnabile testimonianza. Tre algoritmi amministrano questo paradiso, esclusivo, per imprenditori e managers. Il primo trova le pagine che rispondono a determinate parole. Il secondo vi assegna un valore commerciale. Il terzo quantifica il guadagno (profitto-rendita) del capitale speculativo. La compra-vendita delle parole ha tre fasi: «Un’impresa sceglie un’espressione o una parola, come “vacanze”, e definisce il prezzo massimo che sarebbe pronta a pagare se un internauta arrivasse a lei per questo tramite. […] il calcolo del punteggio di qualità della pubblicità […] è (corsivo nostro) in funzione della pertinenza del testo con la richiesta dell’utente, della qualità della pagina […] numero medio di clic sulla pubblicità»[28]. Tra il 2010/2011, il gioco ha fruttato miliardi di dollari per il marchio “Mountain View”. Il capitalismo della crisi si ristruttura, così, su un territorio fin qui ignorato o pensato impossibile. Ma l’impossibile oggi viaggia virtualizzato nei codici che viaggiano prossimi alla velocità della luce.
L’altro fronte semiotico è il linguaggio della poesia che, analogicamente alla discorsività enunciativa non lineare (non formalizzata in codice binario e biunivoco lineare), ha possibilità reali di destrutturare/modificare pensieri e comportamenti per un “mondo” altro. Sono le possibilità cioè della parola poetica che – complesso di passioni e di azioni – si dinamicizza come multisensorialità temporalizzata oppositiva e resistenza, rotture, sottrazione e fughe. Un codice extraeconomico, per di più, non trattabile con le identificazioni semiotiche del neocapitalismo della comunicazione. Una forza agente che si costituisce in campo come una pratica significante non meno capace di soggettivazioni (e lotte conflittuali oppositive) alternative. Perché se è vero che certi “enunciati operativi” – quali «i mercati sono capaci di autoregolarsi, la riduzione della tassazione per le imprese e i ricchi aumentala la produzione, la disoccupazione è volontaria, la privatizzazione è un vantaggio per tutti, rimborsare i creditori, ridurre drasticamente i salari e i servizi sociali, privatizzare lo Stato sociale»[29] – convincono e innescano certi tipi di azioni politiche e di potere; che certi altri annunci (enunciati) dei mercati finanziari (politica dei crediti e dei debiti) non di rado determinano casi di morte per suicidio volontario per impossibilità di “onorare” i prestiti, o che relativi, in generale, alla sanità e alla salute (diffusione di virus incontrollabili e tagli alla spesa pubblica) generano situazioni di panico generalizzato e reazioni di paura, terrore, chiusure, etc., allora è anche vero che gli enunciati discorsivi-poetici non possono essere depennati dall’usabilità e cura del sé come “io noi” di ciascuno innescante iniziative diverse e conflittuali. Come pratica significante che interseca e testualizza intelletto, azioni e passioni la poesia media infatti riflessioni e modifiche nelle condotte individuali e collettive e ne orienta l’inter-azione. Basterebbe, forse, qui, ricordare il pensiero e l’azione riflessa di Puskin o Pessoa (senza dimenticare Majakovskij o altri…) allorquando, verseggiando, dicono che il poeta è un fingitore, o che la finzione del dolore o dell’amore o di altre passioni, di cui si dice in una poesia, inducono modifiche reali nell’esser-ci. Mutamenti di habithus che, a volte, spingono fino al punto tale da far-ci annegare nella morte o nella vita della politeia. La parola poetica, in quanto azione verbale e non verbale di inter-azione e correlazioni pubbliche, infatti è anche politica. Politica in quanto, appunto, – potenziali o attuali siano le presenze del dicitore e dell’ascoltatore, dello scrittore e del lettore plurali –, pragma e praxis che significano in presenza d’altri. Una pluralità e molteplicità di “io” che necessitano della relazione del/col pronome “noi” (mentre promettono un mondo altro).
Un pronome, il noi, che, oltre ad essere il segnale di una comune politicità, è un divenire-cura-identità non in competizione individualistica (moltiplicazione di tanti “io” prosumer e branding). Come scrive Émile Benveniste, questa identità in processo, è un uso di sé nella sfera pubblica che, in quanto situazione storica vivente, accomuna ogni singolo a una moltitudine di simili. Una “cura del sé” come un “me-tu” (voi), un “me-egli” (loro) o epimeleia heautou (cura/uso di sé) che, nel tempo degli istanti o degli intervalli temporali biforcanti, «indica il transito dal singolare al comune, nonché quello dal comune al singolare»[30]. Un transito che vuole più la dissolvenza non contraddittoria della logica temporale del tempuscolo che non quella della sussunzione escludente del capitale che oppone l’io proprietario al comune del noi; una congiunzione che intreccia i poli come tensione permanentemente in movimento e il futuro comunardo come un cronotopo politico “in cui valga simultaneamente a e Ø a” (io noi).
Qui, simultaneità di rivoluzione e creazione alternativa di parti e cose eterogenee, nessuno può accampare diritti di proprietà; e il tempo è quello dell’istante (senza durata e spessore) ritmato dal kairós delle singolarità sociali. È l’atto generale di un’iniziativa collettiva che decide dell’opposizione politico-poetica e che in questi anni, come la sperimentazione del soggetto collettivo anonimo – “Noi Rebeldía” – di alcuni poeti italiani, avrebbe voluto essere l’azione della “debole forza messianica” (W. Benjamin) o, più modernamente, l’“effetto farfalla” delle scienze delle turbolenze. Una forza-parola viva che, ibridata e antagonista, ha trovato il proprio humus di radiazione commutante nel ritmo del general intellect marxiano e della praxis di singolarità artistiche diversamente orientate per stile, ambiente e appartenenza. Ambienti eterogenei. Perché il ritmo, diversamente dalla misura astratta, situandosi – come precisano G. Deleuze- F. Guattari – nel passaggio dall’astratto al concreto dell’esperienza delle molte determinazioni, è l’azione dell’«Ineguale» e dell’Incommensurabile, sempre in transcodificazione. […] Non opera in uno spazio-tempo omogeneo, ma con blocchi eterogenei. Cambia direzione. Bachelard ha ragione quando dice che “il legame degli istanti veramente attivi (ritmo) si stabilisce sempre su un piano diverso su cui si esegue l’azione”. Il ritmo non ha mai lo stesso piano del ritmato»[31].
Per inciso, qui piace ricordare che le edizioni cartacee di questo soggetto plurale sono state costantemente accompagnate dalle immagini pittoriche o grafiche dell’artista siciliano Giacomo Cuttone.
La forza viva del lavoro e della parola del soggetto collettivo “Noi Rebeldía” ha voluto agire come “una macchina da guerra” poetica; una lingua minore (nel senso deleuziano) che vuole sottrarre la vita alla logica libero-scambista informatizzata del neoliberismo cyber-semiotico e ri-proporla come un insieme impegnato di attività di produzione e di uso sociale, intrecciando attività linguistiche o simboliche variamente connotate.
Nella sua prefazione a “L’ora zero” di “Noi Rebeldía 2014” (numerosi i poeti che hanno scritto sine nomine), Francesca Medaglia scrive che nella testualità poetica di quest’opera l’identità «poetica ibrida diviene strumento principe di lotta, in quanto, contrastando con la tradizione che vede (da Aristotele a Hanna Arendt) il pensiero come un’attività solitaria, la «nozione marxiana di general intellect contraddice questa tradizione. Parlare di “intelletto generale” significa, infatti, parlare di intelletto pubblico»[32] con-diviso. Perché comune e non proprietà privata è diventata la mente degli individui come sapere sociale e forza viva generale di produzione, si che (nel caso della produzione poetica) è «il linguaggio poetico a parlare ed essere valorizzato prima che come singola voce o la firma di qualcuno»[33]. Condivisa è, continua Francesca Medaglia, pure l’idea che i 14 testi che compongono il libro “L’ora zero”, il progetto “Noi Rebeldía 2013” e “Noi Rebeldía 2014”, siano pensati e vissuti come variazioni tematiche dello stesso testo poetico che porta il titolo di L’ora zero. In tutti i testi infatti si incontra il suo lievito antagonista, lo scontro e l’opposizione conflittuale contro il tempo capitalista che, all’interno della società contemporanea, tra azione e reazione, contamina le varie facce della vita individuale e collettiva locale e globale. Nella lirica “L’ora zero”, qui (in stralcio) infatti si legge:
[…] / oui clessidra ora è il tempo zero / […] Ignoriamo chi siamo, ma se lo pensiamo / Ecco che in fondo capiamo il senso / Di questa piccola-grande verità / È l’infinita varietà del senso del mondo / Che rivela il postremo nonsenso che siamo // Noi combattiamo il neoliberismo / quotidiano con i vestiti usati, / la verdura del contadino Omero / a chilometro zero e l’impegno nel volontariato, / votando sinistra a Camera e Senato. // Ma poco cambia nel nostro firmamento / dove 5 stelle di cartone bruciano insulti / e veleno nell’universo web. / Resistono le cupole. In quella più antica / crepita ancora la stufa a legna ed è fumata bianca[34].
E chiudendo la sua prefazione, la stessa Francesca Medaglia, scrive che in quest’opera l’autore è costituito da un gruppo di individui ed è posto, quindi, in stretta relazione con l’altro da sé; è il soggetto collettivo «che rifiuta l’omologazione e lotta per le coscienze, senza cessare di cambiare se stesso per non essere cristallizzato nel tempo capitalistico e cessare, di conseguenza, la sua vitalità ribelle»[35].
Fuori ogni velleità, qui, non pare che non aliti il “sogno di una cosa” e il vento “immemore” dei soviet dei kom-futy d’eredità majakovskijana!
Marsala, 31 Ottobre 2017
[1] Cfr. Risoluzione dell’Assemblea generale degli equipaggi della Prima e Seconda squadra navale tenuta il 1° marzo 1921, in Krostandt-una rivoluzione che fece tremare il Cremlino (marzo 1921), a cura di Federico Gattolin, Prospettiva Edizioni, Roma, 2005, pp. 19-20.
[2] Ivi, p. 26.
[3] Karl Marx, Per la critica dell’economia politica (traduzione di Bianca Spagnuolo Vigorita e introduzione di Giulio Pietranera), Newton Compton, Roma, 1972, p. 230.
[4] Karl Marx, Il denaro (Manoscritti), in Opere filosofiche giovanili (a cura di Galvano della Volpe), Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 253.
[5] Ivi.
[6] Francesco Muzzioli, L’internazionalismo delle avanguardie, in “Il GrandeVetro”, XL, n. 230, Inverno 2016, p. 8.
[7] Giuseppe Panella, Futurismo: utopia e avventura – Il futurismo italiano tra la fantascienza e Salgari, in Fermenti, XLVI, n. 245, p. 34.
[8] Luigi Magarotto, Patriottismo e pacifismo. Il 194 del futurista Vladimir Majakovskij, in L’anno iniquo. 1914: Guerra e letteratura europea (Atti del congresso di Venezia, 24-26 novembre 2014), Adi editore, 2017, p. 7.
[9] Ernst Bloch-Walter Benjamin, Per la teoria della conoscenza mototorio-fantastica di questa proclamazione, in Ricordare il futuro- Scritti sull’Eingedenken (a cura di Di Stefano Marchesoni), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 33-34.
[10] Mario Rossi, Majakovskij e Brecht, in Cultura e Rivoluzione, Editori Riuniti, Roma ,1974, p. 624.
[11] Ivi.
[12] Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi, Torino, 1973, pp. 218-219.
[13] Angelo Maria Ripellino, Poesia russa del ’900, Feltrinelli, Milano, 1960, p. 44.
[14] Ivi.
[15] Ivi.
[16] L. S. Vhgotskij, L’arte come procedimento, in Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, Roma, 1976, 93.
[17] Edoardo Sanguineti, La guerra futurista, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 35.
[18] Ivi, p. 38.
[19] Ivi, p. 39.
[20] Ibidem.
[21] Ignazio Ambrogio, La letteratura come funzione-sistema, in Formalismo e Avanguardia in Russia, Editori Riuniti, Roma, 1974, p.193.
[22] Mario Rossi, op. cit., p. 605.
[23] Angelo Maria Ripellino, op. cit., p. 274”.
[24] Ivi, pp. 286-291.
[25] Franco Berardi Bifo, Manifesto del dopo-futuro, in Dopo il futuro- Dal Futurismo al Cyberpunk. L’esaurimento della modernità, Derive/Approdi, Roma, 2013, p. 130.
[26] Franco Berardi Bifo, Interminabile processo della terapia, in L’anima al lavoro- Alienazione, estraneità, autonomia, DeriveApprodi, Roma, 2016, p. 280.
[27] Maurizio Lazzarato, Le tre semiotiche: a-significanti, significanti, simboliche (Semiotiche del debito), in Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma, 2013, p. 181.
[28] Frédéric Kaplan, Verso il capitalismo linguistico – Quando le parole valgono oro, in “Le monde diplomatique/il manifesto”, XVIII, n. 11, novembre, 2011.
[29] Maurizio Lazzarato, L’assiomatica e i suoi assiomi (Capitale e capitalismo), in Il governo dell’uomo indebitato, cit., pp. 124-125.
[30] Paolo Virno, L’idea di mondo- Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet, Macerata, 2015, p.169.
[31] Gilles Deleuze – Felix Guattari, Sul Ritornello, in Mille piani- Capitalismo e schizofrenia, Vol. II, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1987, p. 455.
[32] Francesca Medaglia, Prefazione, in Noi Rebeldía 2014, L’ora zero, CFR, Piateda (SO), 2014, p. 9.
[33] Antonino Contiliano, Il fare poesia del soggetto collettivo anonimo “Noi Rebeldía”, maggio 2014, disponibile su: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/il-fare-poesia-del-soggetto-collettivo-anonimo-noi-rebeldia/(06/14).
[34] Francesca Medaglia, Prefazione, in Noi Rebeldía 2014, L’ora zero, op. cit., pp. 9-10.
[35] Ivi, p. 12.
Antonino Contiliano vive a Marsala. E’ laureato in Pedagogia (Università di Palermo). è stato redattore della rivista “Impegno 80” e “Spiragli”. Ha fatto parte del movimento poetico che, tra gli anni 60 e 80 del secolo scorso, operò in Sicilia e si qualificò come Antigruppo Siciliano. Negli anni 80 ha fatto parte del comitato organizzatore degli “Incontri fra i popoli del Mediterraneo”: il convegno che, curato dal poeta Rolando Certa, ogni due anni si teneva a Mazara del Vallo. Nell’Antigruppo siciliano è stato redattore anche della sua rivista, “Impegno 80” (Mazara del Vallo) e poi del trimestrale “Spiragli” (Marsala). Fra le sue ultime poere di poesia si ricordano: ‘El Motell Blues (2007), Tempo spaginato. Chiasmo (2007), Il tempo del poeta (2009), Ero(S)diade. La binaria de la siento (2010), We are winning wing (2012), L’ora zero (2014) e la sua ultima opera Futuro Eretico (Fermenti 2016). Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, spagnolo, greco, macedone, romeno e croato.
L’immagine dell’autore è una foto del ritratto di Antonino Contiliano realizzato da Stefano Lanuzza.
Immagine in evidenza: Foto di Melina Piccolo.