.
Campi di battaglia di Jessy Simonini è una raccolta di versi pubblicata da poche settimane per Sensibili alle foglie, che si presenta, con gioia e nitore, come l’affermazione da parte della voce “che dice io” di un voto d’amore per una trasformazione radicale della società. È divisa in tre sezioni: la prima tratteggia i lineamenti della voce poetica, la seconda è dedicata all’eredità familiare ricevuta da parte di “chi non va oltre la terza media” – la rivendicazione di un legame con la generazione che ha vissuto la guerra, quella dei nonni contadini; nella terza prevale il tema amoroso che connette empaticamente lotta e desiderio. Pur correndo il rischio di non rendere merito a una scrittura in grado di muoversi tra i diversi temi con grande abilità di rimandi interni e grazie a un’intertestualità sommessa che è fonte di vero piacere (espandendosi da Anna Oxa a Audre Lorde), vorrei concentrarmi in queste righe sulla funzione che nella raccolta ha il richiamo a fatti e persone del ’900 italiano e in particolare dell’esperienza della lotta armata.
La tradizione politica è esattamente come la tradizione letteraria: chi si trova a fare consapevolmente politica, o letteratura, è in qualche modo forzatə a riconoscere il proprio linguaggio come proveniente dal passato. In entrambi i campi il confronto con esperienze precedenti può portare alla paralisi, alla nostalgia, a sentimenti di reverenza o di disgusto perché sia la sfera politica che quella dell’espressione poetica si sono costruite attorno a un principio di autorità – l’autorità della guida politica o ideologica, l’autorità dell’autore. Alla base di queste rappresentazioni c’è la stessa idea di competizione per il potere. Forse è proprio per queste analogie che affrontare il tema dell’eredità politica in forma poetica può servire a dare espressione a necessità che la riflessione storica di per sé potrebbe non cogliere.
Il libro ha il merito di riuscire in maniera nitida – quella possibile attraverso la scelta meditata e rigorosa dei versi poetici – a intrecciare diversi percorsi di scoperta, con uno scopo dichiaratamente politico. Lo fa abbracciando diversi linguaggi, tra i quali il pensiero femminista, ma anche attraverso una relazione dinamica con il tempo storico. Figlio del sabato al centro commerciale, / dell’Eurospin, dei discount / sul margine della provinciale, come il suo autore nato nel 1994, il libro si colloca nel nostro presente globalizzato e sempre provinciale, consumista ed “estetico”. Non nasconde i luoghi del tutto ordinari dove si svolge oggi l’apprendistato politico e sentimentale di ognunə di noi, e in questo sta un primo carattere anti-elitario e un indizio di una particolare relazione con il passato: la voce poetica non è né la nobile erede di un tempo glorioso, né si commisera per il proprio presente: si può essere allo stesso tempo belle signore con lo smalto e tracciare legami con il passato senza il bisogno di una devozione idealizzante.
Campi di battaglia è ricco di riferimenti all’epopea comunista del ’900 italiano. Scorrendo le citazioni che aprono le prime due sezioni vi troviamo in quest’ordine Furio Jesi, Margherita Cagol, Rossana Rossanda. Nei testi ci sono numerose menzioni di fatti e persone della lotta armata. Tuttavia, credo che in questa “presenza della storia” che attraversa il libro non si debba ravvisare il rapporto con delle autorità – le fonti storiche, i libri e i documenti – che ci dicono quanto sia stata eccezionale quell’epoca a confronto del nostro misero presente, in una riproposizione del mito dell’età dell’oro, anche se su un’“orda d’oro”. Apprendere dalla storia non significa scegliersi dei padri come autorità da rispettare; al contrario il rapporto con la storia che si può ritrovare in queste pagine è un rapporto affettivo. Esso è più simile a ciò che Stefano Harney e Fred Moten descrivono quando provano a immaginare un tipo di relazione libero e non gerarchico tra un testo e tutti gli altri testi (in cui riconosciamo di nuovo un’assonanza tra storia e scrittura):
“Riconoscere che il testo è intertesto è una cosa. Vedere che un testo è uno spazio sociale è un’altra, è un modo più profondo di considerarlo. Dire che è uno spazio sociale significa che qualcosa sta succedendo: lì dentro, le persone e le cose si incontrano e interagiscono, si sfregano e si strofinano le une con le altre”. Di questa intertestualità storica si nutre la forza gioiosa e liberatrice delle poesie che articolano la raccolta, definendo un particolare rapporto con il tempo e soprattutto con la consistente eredità comunista che grava sull’immaginario politico radicale di oggi, in modo consapevole e inconsapevole: Lo studente non conosce ancora / le deboli strategie del partito armato / ma sa porsi le domande giuste, vuole capire in cosa è esemplare la vita / di un uomo che ha collaborato deliberato / scritto una legge che porta il suo nome // ora lo studente progetta nuove lapidi / portano i nomi delle vittime / di chi detiene il monopolio: a lui paiono più esemplari / Ethel Rosenberg o le migliaia di etiopi / trucidati dagli àscari a Dogali.
L’approccio alla storia e al sapere storico che troviamo in queste pagine non fa dell’autore un erudito, non lo trasforma nella controfigura di un severo militante rivoluzionario – l’immagine coltivata in certi luoghi di elaborazione politica ancora oggi. Nella scrittura di Simonini emerge, con una chiarezza rara in rapporto a questo tema, il motivo per cui è possibile, per chi è nato negli anni’80, ’90 e chissà anche più tardi, spogliare la stagione della lotta armata in Italia dal suo carattere muscolare, militare, prettamente maschile, per vedervi un oggetto da riconoscere come utile a schierarsi contro gli oppressori. Allora se quarant’anni sono un tempo conveniente / per capire cosa è inacidito, cosa non si butta, degli anni di grande propulsione dei movimenti di conquista dei diritti sociali e civili, che sono gli stessi della guerra armata tra gruppi rivoluzionari e stato, quello che non si butta è la capacità di scegliere il proprio ruolo di opposizione allo stato di cose nella società, di esprimere il proprio disgusto per l’ordine vigente. È una lettura anti-filologica degli anni ’70, ed è per questo entusiasmante, generativa; proprio come la lettura del Lancillotto dei poemi francesi che – tra le pagine del libro – ci viene presentato mentre entra nelle stanze della regina paragonando questa scena d’amore all’evasione dal carcere delle prigioniere politiche. È una lettura, sì, anti-filologica, ma è anche l’unica in grado di servire alle generazioni che adesso si ritrovano nei movimenti femministi e antirazzisti in tutto il mondo, perché non abbiamo alcun bisogno di apprendere le esperienze politiche del passato per studiarne il copione o impararne i slami, né abbiamo forse bisogno per riconoscervi un impeto di trasformazione.
Proprio mentre rileggo questo scritto, i giornali annunciano l’arresto in Francia di sette ex appartenenti alle organizzazioni armate italiane degli anni ’70 e ’80. Si tratta di un atto che difficilmente può essere definito “di giustizia”, a meno che non siamo disposti a considerare giustizia e punizione come sinonimi, ed è certamente in questa direzione che si è mosso il linguaggio politico negli ultimi anni. Tornando ai versi di Simonini, che cosa ci sarebbe di esemplare nell’arresto di un gruppetto di anziani, a quasi cinquant’anni dai reati che avrebbero commesso?
Di fronte a un potere così vendicativo non cerchiamo nella storia del ’900 un’autorità, un padrone migliore da seguire, ma qualche principio di rivoluzione:
[…] Resistiamo con le pratiche scosceseche abbiamo lentamente appreso.
Non cedere mai al maschile,
rinunciare agli spazi di potere
sempre maschio e bianco pure
quando a esercitarlo è una femmina
o un frocio, alzare la voce fino all’acuto,
danzare sul palco prevedendo
di morire in scena, come Iolanda Gigliotti,
fare dei nostri corpi scavati strumenti
una cassa d’espansione per il dolore
degli altri dove risuonano le voci
nostre e di tutti i marginali.
Ma questo non è un catalogo o un elenco
dei gesti salvavita che ci siamo dati
per affrontare il mondo fuori, no
è piuttosto un canovaccio di ciò
che facciamo guidati dal disgusto
per il presente ordine sociale […].
Fabiano Mari è nato a Roma nel 1991. E’ co-fondatore delle edizioni e della libreria Tamu di Napoli, spazi di socialità e di riflessione intrecciati al sud globale.