“Nella fabbrica degli eroi,”, recensione di Heroe de culto e intervista al regista (Cerolini e Obiarinze)

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Recensione HEROE DE CULTO di Ernesto Sanchez Valdez

Siedo in un baretto, con Chukwemeka Obiarinze, per vedere l’anteprima del video Heroe de culto di Ernesto Sanchez Valdes. Non ho nessuna aspettativa, la mia mente si azzera quando vuol conoscere qualcosa. Partono delle immagini con documenti storici e una citazione che mi ricorda subito l’inizio del film di Nelson Pereira Dos Santo Como era gostoso o meo frances (1971), ad esse succedono filmini del primo del novecento che mostrano la guerre civile a Cuba, poi la modernità si frappone, repentina e calma, con la visione di una fabbrica di busti: i busti di José Martì. In meno di cinque minuti, la dichiarazione dell’intento registico mi è chiara ossia, come si produce un mito, ma ora quello che temo è che da un momento all’altro partano delle interviste capaci di indebolire l’eloquente impatto delle immagini.

Il documentario presenta un gusto vagamente démodé, da televisiva cronaca giornalistica italiana degli anni 60, eppure l’intento, in cui domina il giallo contrapposto ai colori vivi della città e chiaro-scuri della fabbrica di produzione, crea un effetto narrativo e pulp. Al decimo minuto realizzo che il silenzio sposa l’immagine lasciandole pieno spazio d’azione. La tecnica, di stratificazione di ritmi e repertorio audiovisivo è impattante. La domanda assente e implicitamenente presente, di tipo esistenzialista, può presentarsi in molte forme: 1) A cosa serve la produzione seriale di un mito? 2) Che relazione ha un busto con la contingenza della storia? 3)Chi conosce le statue di una città? Esiste un rapporto fra i miti creati e la vita? Tutte domande difficili, come le vere domande prive di un’unica assoluta risposta. E’ a questo punto che mi accorgo che il conciso lavoro di Sanchez Valdes, oltre la sua asciutta abilità narrativa ha la forza di rimanere negli occhi e nella mente, come una emanazione della storia.

 

 

 

  • Intervista:

NELLA FABBRICA DEGLI EROI DIMENTICATI: L’EREDITA’ DI JOSE’ MARTI’ RACCONTATA DAL GIOVANE REGISTA CUBANO ERNESTO SANCHEZ VALDES

L’appuntamento con il regista cubano Ernesto Sanchez Valdes è alle 11:00, presso la foresteria poco fuori da porta San Felice. Io e Reginaldo nella generosa e fresca aria autunnale ci dirigiamo al luogo. Bologna illuminata dal sole ha un volto ed un’atmosfera del tutto particolari. Ernesto e la sua fidanzata Nadja, per la prima volta in Italia, ci accolgono con un sorriso luminoso. Sembrano riposati. Ernesto ci confessa che, da cubano, deve ancora abituarsi al clima europeo. Ci spostiamo nel cortile del Cinema Lumière, dove il tempo pare essersi fermato. Qui incontriamo Liù Fornara, organizzatrice del GVC, che ha permesso ad Ernesto e ad altri registi di partecipare a questa nona edizione del Terra di Tutti Art Festival. <<Di solito parlo tanto, quindi tagliatemi>>. Ci avvisa Ernesto. Ridiamo. E il ghiaccio è sciolto.

Che cosa ti ha avvicinato al cinema?

Prima di tutto grazie molto per l’intervista, è un piacere avere la possibilità di conversare con voi. Mi sono interessato al mondo del cinema perché mio padre è un regista. A Cuba fin da piccolo sono stato in contatto con un cinema che non mi piaceva. A diciotto anni ho cominciato ad interessarmene professionalmente, così ho iniziato la carriera come assistente di regia all’Istituto di Cinema di Cuba. Per dodici anni infatti ho lavorato come assistente alla regia. Nel 2009 ho avuto l’opportunità di girare il mio primo documentario e quindi ho alternato la regia e l’assistenza alla regia .

So che recentemente ha ripreso l’esperienza di un gruppo che portava l’arte sia nelle carceri che nelle strade…

Si. Nel 2011 iniziammo le riprese di un progetto che si chiamava “itinerario artistico” dal punto più a nord dell’isola. Questo era il progetto di un artista cubano di architettura per staccare l’arte da L’Havana, che è il centro culturale più forte del Paese, e così portarla a tutti i capoluoghi del Paese, includendo il lavoro, le arti visuali, le impressioni degli uomini e delle donne nell’Accademia d’arte, perché invece a Cuba tutto si concentra a L’Havana, tutti gli artisti espongono a L’Havana, tutte le pellicole debuttano a L’Havana. Io sono stato invitato a filmare tutto quello che succedeva in un documentario di 46 minuti intitolato “Gira“, presentato nel 2012.

Che cosa significa essere un giovane regista a Cuba oggi?

E’ un po’ astratta come domanda. In primo luogo per me rappresenta la possibilità di lavorare rispetto a una tradizione di cinema che già esiste a Cuba, con forti radici dal 1959, quando si fonda l’Istituto di Cinema Cubano. Quindi ereditiamo una storia importante, significa essere erede di un retaggio cinematografico molto forte con tendenze documentaristiche molto forti, un cinema molto influente, di rottura, che lo ha reso permeabile a queste forze. Dopo la crisi cubana si ha avuto un cinema che rappresenta ufficialmente Cuba, sovvenzionato dallo Stato e si è trasformato in qualcosa di più passivo sia nel contenuto che nella forma rispetto a quello che si faceva prima. Allo stesso tempo credo che il cinema oggi a Cuba debba essere un cinema più responsabile di ciò che accade a Cuba, che è un Paese molto diverso dal resto del mondo. Questo non significa che siamo isolati, non credo che siamo isolati, ma la nostra realtà non è molto conosciuta, quindi io credo che il cinema a Cuba richieda molta etica ed è bello il modo in cui ci stiamo raccontando al mondo. Anche il mio documentario mi dà molte preoccupazioni su come sarà recepito fuori da Cuba. Potrebbe essere preso come un estremismo ma le cose non sono solo in bianco e nero (c’è un equilibrio) quando viviamo in una realtà come la realtà di Cuba che è sui generis, che è molto particolare, anche se ogni Paese ha la sua particolarità, ma con un regime che aspira al socialismo, che ancora pensa all’aspetto positivo delle cose senza cercare cambi, credo che implica molta responsabilità e forza. Prima parlavo di etica, nel senso di responsabilità rispetto alla nostra storia, al nostro passato e alla realtà odierna e anche forza perché prevede una grande volontà per poter dare continuità e forma ai progetti, che è molto complicato.

Perché proprio José Martì?

Io ho scelto José Martì per via del suo busto presente nella mia scuola. Infatti avevo molta paura prima di cominciare questo progetto, perché Martì è una persona molto nota e molto vista a Cuba, in quanto egli è uno degli uomini più brillanti di Cuba e dell’America Latina. Ambasciatore, diplomatico, giornalista, uno dei migliori poeti in lingua spagnola del XIX secolo, politico, un buon oratore, drammaturgo, editore, direttore di un giornale, lo vedo come il creatore di un progetto rivoluzionario di un governo democratico. In appena 42 anni costruì tutto questo. Ma tutto ciò viene insegnato in maniera molto meccanica, senza che ti spieghino i suoi aspetti più filosofici perché ritenuti troppo difficili da comprendere. Di conseguenza Martì si trasforma in una regola e allo stesso modo il processo di fabbricazione dei busti a Cuba (della sua immagine) che è passato attraverso una votazione popolare che affermava che si sarebbe dovuto trovare nel parco centrale. Quindi il culto e la sacralizzazione di Martì sono divenuti una campagna di produzione del busto, per massificare il suo pensiero; ma così, come si nota nel documentario, la gente non lo vede; il busto di Martì è esposto in molti luoghi, la gente gli passa affianco e non lo sente, non lo vede proprio, e per questo mi sono interessato a lui. Mi sono reso conto che è un culto massificato e industrializzato, mostrato nelle scuole perché i ragazzini abbiano un buon modello. Allo stesso modo trovavo inquietante il processo di produzione dei suoi busti.

All’inizio del documentario c’è un’immagine che fa riferimento alla Cuba degli inizi del ‘900 dove è presente la folla cittadina e mi ha incuriosito il fatto che in mezzo a quella moltitudine non ci fosse neanche una persona dalla carnagione nera. Quali sono i cambiamenti nella condizione razziale a Cuba da allora ad oggi?

Anche se non sono uno studioso dell’opera di Martì so che nel secolo XIX a Cuba il trattamento del negro era peggiore di quello che può essere oggi. Perché quando morì Martì la schiavitù era stata abolita da appena 9 anni. Era per questo recente l’idea di integrare i negri nella società cubana ed il piano di Martì nella guerra d’indipendenza del 1895 era, a rivoluzione conclusa, di integrare il negro, perché secondo lui non dovevano esserci distinzioni di razza. Il secondo capo militare dell’esercito cubano, menzionato nel documentario, Antonio Maceo, fu un generale e un politico molto influente ed era mulatto, quindi si considerava un negro. Egli fu tanto influente da essere rispettato persino nella comunità negra del Sud degli Stati Uniti d’America. A Cuba, con il trionfo della rivoluzione, i problemi razziali cercano di essere sradicati, anche se bisogna ammettere che nella realtà sociale cubana permane un tipo di razzismo di strada, legato a barzellette e scherzi popolari. Sono gli stessi neri o mulatti che fanno scherzi su altri neri, la gente lo vede come qualcosa di innocuo, però bisogna ammettere che rimangono atteggiamenti razzisti. La posizione del negro, come quella delle donne è cambiata radicalmente, dal XIX secolo ad oggi, come credo in gran parte del mondo. Non so se ho risposto alla tua domanda.

Questo mi ha stupito. Come è nata l’idea di associare la lavorazione dei busti di José Martì in fabbrica con quella di un salone di parrucchieria?

Ho utilizzato la figura retorica dell’analogia tra la parrucchieria, che è un’attività cosmetica, estetica, ed il lavoro in fabbrica ed è questo che volevo trattare nel documentario. Mi piaceva mescolare la realtà con la fabbrica, però mi interessava l’aspetto della realtà in cui il busto era lavorato per essere un’opera sociale, nella strada. Così quando stavo pensando al progetto “che bello sarebbe riprendere la persone mentre si tagliano i capelli in contrasto con l’immagine della produzione in fabbrica per portare il busto di Martì in piazza”, Avevo quest’idea dal primo giorno che siamo andati in fabbrica quando uno degli operai mi ha detto ” sei venuto a filmare come pettiniamo Martì?” .

Veniamo interrotti per circa 20 minuti, quando torniamo siamo nella sala d’ingresso del cinema Lumière. Ernesto chiede di poter riprendere dal punto in cui siamo stati interrotti.

Ho voluto fermare questa analogia con la realtà, riprendendo i due processi. Questo era il mio vero obiettivo. Volevo dare l’impressione di vedere il busto vivo (reale) di Martì come se si trattasse di un incontro con lui; per questa ragione la tecnica del montaggio.

E’ vero che la politica interna di Cuba pone restrizioni alla popolazione rurale di spostarsi a L’Havana?

L’Havana è una città sovrappopolata. E’ una città molto grande ma in realtà non c’è un vero equilibrio fra le zone più popolate e le aree un po’ più disabitate, senza edifici, senza urbanizzazione. Ad esempio, il mio “municipio” è il più popoloso del Paese, c’è un numero spropositato di persone. E’ a causa delle differenze economiche all’interno de L’Havana, come nel resto del Paese, che molta gente viene a L’Havana, soprattutto dalla parte orientale dell’isola come Santiago de Cuba o Guantanamo, perché c’è più denaro, ci sono aspetti della vita migliori. Non credo che la gente si sposti solo per accedere alla cultura, ma molte persone che studiano arte in altre università provinciali vengono a L’Havana perché desiderano lavorare nelle gallerie d’arte, vedere i migliori quadri, dove ci sono i migliori studi di ripresa. Il problema è che a Cuba si sta perdendo la tradizione di lavorare la terra, quindi succede che i figli invece di proseguire l’attività agricola dei padri, scelgono di muoversi verso la città per non svegliarsi alle quattro del mattino e lavorare sotto il sole cocente. Infatti la vita nei campi è molto dura e piena di sacrifici, spesso mancano i macchinari ed il lavoro risulta molto scomodo. Io sono cresciuto con un’educazione socialista, già a tredici quattordici anni alternavamo lo studio con il lavoro, per quindici giorni ogni mese andavamo nei campi, così abbiamo fatto esperienza coltivando papaya, mais e barbabietole. Ma ora la gente vuole molto di più e Cuba assomiglia così ad un Paese modernizzato. In accordo con il cambiamento, esso può essere un cambiamento che riesce a toccare la mentalità del popolo ma anche influenzarlo. Ci sono comunque dei limiti ed occorrono permessi per venire a risiedere a L’Havana. Per tornare ai cambiamenti che ti dicevo, ora puoi vedere la gente in metropolitana con telefonini, accessori tecnologici, wi-fi, come in una città europea. Per mondo reale intendo quelle megastrutture che a Cuba non esistevano, quindi non tutti i cambiamenti sono positivi.

Credi che José Martì sarebbe soddisfatto di questi cambiamenti all’interno della società cubana?

C’è un grande scritto nel documentario che dice che se Martì non fosse morto durante la guerra o fosse diventato capo della Repubblica senza avere persone che lo giudicassero, se fosse quindi considerato come una persona normale e non come un santo, a questo punto Martì sarebbe una persona con un criterio di giudizio verso questa nuova realtà, sia positivo che negativo . Con tutto il rispetto per gli Stati Uniti io penso che lui sarebbe stato più fedele ai motivi che hanno mosso la rivoluzione. Intendo l’autodeterminazione dei popoli, il principio di non-ingerenza degli Stati Uniti negli affari di Cuba, poiché questo era il suo progetto. E’ curioso che preparò la guerra negli Stati Uniti. Egli apprezzava molte cose della democrazia nord-americana, ma c’è un detto che si usa molto a Cuba: “ho visto dentro il mostro e ho conosciuto le sue viscere” . La corrente indipendentista di Martì rivendicava la totale indipendenza. Martì era consapevole di questo e pensava di prendere il meglio dagli Stati Uniti, specie il loro modo di gestire l’economia, ma non con mezzi così eccessivamente capitalisti. Credo che lui non sarebbe d’accordo con il processo di fabbricazione dei busti, ma allo stesso tempo credo che sarebbe invece favorevole ad alcuni cambiamenti. E’ una domanda difficile, so che lui era molto interessato alle persone, ti consiglio un libro intitolato “Martì El Apostol“, una bellissima biografia; Martì stesso aveva diverse sfaccettature, infatti appoggiava la guerra ma allo stesso tempo parlava alla gente con amore, era un politico ma anche un poeta, era un uomo all’antica, pacifico, non attraente come Che Guevara, perché Martì era piccolo, timido, umile ma intelligentissimo, un genio.

Nel documentario nessuno parla. Le immagini ed i testi spiegano il documentario. L’idea di lasciare spazio al silenzio, o meglio, ai suoni della vita reale del Paese, è una cosa che avevi in mente già da prima o è qualcosa che hai deciso di inserire in fase di post-produzione?

Inizialmente, avevo pensato al documentario come ad una intervista poetica ma, quando ci siamo resi conto che le immagini della fabbrica erano cosi d’impatto abbiamo deciso che il documentario potesse essere realizzato come un testo in forma di dialogo. Così abbiamo ricostruito la storia di questo culto attraverso i giornali dell’epoca, che non hanno montatura, costruzioni o masterizzazioni. L’idea era quella di fare una ricostruzione cronologica di come la statua di Martì fu una votazione popolare e come questa produzione meccanica, automatizzata, in serie, perché ci interessava l’essere umano nel processo di produzione, come nelle fabbriche si producono le maniglie, le bottiglie, la plastica così si produce il busto di Martì. Un prodotto: massificato. Ci interessava l’aspetto meccanico, anche nell’uso della musica in sincronia con la maniera di produzione ciclica nella fabbrica industriale.

E’ ora di andare. Chi l’avrebbe detto che dietro a quella dignitosa pacatezza e a quei gesti timidi ci sarebbe stato un interlocutore così loquace e ponderato? Ci congediamo da Ernesto, consapevoli di avere avuto a che fare con un artista, lucidamente innamorato del suo Paese e per niente intenzionato ad affidare la sua storia a dei polverosi archivi . Un artigiano che, a colpi di pellicola, incide e scolpisce il messaggio di un eroe dimenticato, José Martì, consegnandolo non più ad una piazza o ad un mausoleo, ma alla coscienza di Cuba e del mondo.

 

intervista realizzata da Reginaldo Cerolini e Chukwuemeka Obiarinze  Licenza Creative Commons  Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale

 

Chukwuemeka Attilio Obiarinze

Nasce a Como nel 1991 da genitori nigeriani. Terminati gli studi classici si trasferisce a Bologna dove collabora con la web tv di informazione locale “CrossingTv”. Dopo aver conseguito la laurea triennale in Storia e Civiltà Orientali, fa ritono nella città natale dove attualmente lavora e porta avanti i suoi progetti musicali con il gruppo rap Odio Razziale.  

 

 

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Ernesto Sanchez Valdes, regista e documentarista cubano, nasce nel 1983 a L’Avana. Diplomato alle scuole superiori, nel 2002 frequenta un workshop di assistenza alla regia e di composizione musicale per la radio e la televisione, motivato dagli incoraggiamenti del padre e regista di professione, Jorge Luis Sanchez. In seguito fa ingresso nella Facoltà di Mezzi di Comunicazione Audiovisiva dell’ISA (Istituto Superior de Arte), specializzandosi nella regia vera e propria. Dopo aver collaborato come assistente alla direzione per numerosi film e documentari prodotti dall’ICAIC (Istituto Cubano della Arti e dell’Industria Cinematografica), egli esordisce nel 2012 con Gira, un documentario di forte impatto sociale sul progetto di arte itinerante creato da vari artisti provenienti da diverse aree dell’isola.

Foto in evidenza e dell’autore  a cura di Reginaldo Cerolini.

 

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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