Recensione di ed estratto da “Squilibri”, di Milvia Comastri (Gassid Mohammed)

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Titolo:        Squilibri
Autore:      Milvia Comastri
Antonio      Tombolini Editore
www.antoniotombolini.com
Narrativa racconti
Pagg. 208
ISBN 978-8898924851
Prezzo   € 13,99

Nella sua raccolta di racconti Squilibri (Antonio Tombolini Editore 2016) Milvia Comastri inserisce venticinque racconti, duri e taglienti, proprio come la vita. Sono racconti di un cantastorie, e a leggerli si ha la sensazione di ascoltare una voce esterna che ci racconta quelle storie. Uno dei racconti, ad esempio, narrato in prima persona, è totalmente privo di punteggiatura, alla Saramago, ma scorre come se qualcuno ti stesse narrando quella storia in un solo fiato. Tutti i racconti sono scritti in un linguaggio fluido e scorrevole, in uno stile semplice e affascinante, a volte in prima persona, altre in terza persona. La maggior parte dei racconti narra storie difficili da digerire, amari e pieni di dolore, o addirittura dell’osceno. Ma sono racconti che trattano la vita comune, e cosa c’è di più strano, insolito e difficile da digerire della vita comune? Così l’autrice ha avuto un grande coraggio, e un’immensa sensibilità umana, a raccontare episodi e storia, che, per quanto sembrino insoliti sono, se non reali, almeno immaginabili. Sono gli squilibri della vita, di certe persone che incontriamo spesso, squilibri mentali, comportamentali e psicologici. Tuttavia, sono squilibri della vita comune, squilibri umani di cui, spesso, siamo vittime anche noi. E mettendoci nei panni dei personaggi ci rendiamo conto che è molto difficile giudicare, condannare e dare facilmente la colpa agli altri. Ci rendiamo conto che ognuno di noi può essere un probabile personaggio dei racconti, e finiamo per trovare lo squilibro dentro di noi, che è spesso uno stato d’animo che, a volte, ci sconvolge la vita. Cosa sono gli squilibri dunque? Ma più che altro ci troviamo a mettere in dubbio l’equilibrio, e forse a provare a ridefinirlo.

È il caso dell’ultimo racconto, ad esempio. Una coppia sposata per amore, molti anni prima, perde il suo equilibrio. Il marito riceve una chiamata che annuncia la morte della moglie, trasferita tempo prima per lavoro. Quando arriva alla sua casa, in un’altra città, scopre dal suo diario che ha avuto un amante. Nel diario la moglie racconta anche la tempesta che ha squilibrato la loro vita; la quotidianità noiosa, il disinteresse del marito, l’amore seccato come un fiore di molti giorni prima. Eppure il marito non si rendeva conto di averla trascurata. Così la moglie incontra un giovane che poteva essere all’età di suo figlio, che cambia la sua vita, e se ne innamora. Un giovane che la tratta con attenzione e delicatezza, la sa ascoltare, guardare e toccare. Anche il giovane ha una vita abbastanza insolita: è un giovane molto sensibile, fa lavori intellettuali, fa il volontariato per aiutare gli immigrati, insomma, una vita che lo ha tagliato fuori dalla cerchia di giovani che frequentava. Ma quando conosce quella donna matura che lo ascolta attentamente e stima quello che fa, ne rimane affascinato, e così nasce l’amore.

È una storia abbastanza comune nella vita. E a leggerla ci si chiede: chi è il colpevole? È una storia che ci punge, e ci fa riflettere sulla nostra vita e sui nostri rapporti. L’autrice, con maestria, ti espone il fatto, ti racconta la storia senza dare sentenza, senza intenzioni morali che condannano un comportamento o giustificano un altro. Ti racconta la storia e basta. Sta a te, lettore, giudicare, se ne sei capace.

E così Milvia Comastri, con i suoi racconti, e con una grande sensibilità umana ci punge, ci fa riflettere su quello che facciamo, sui nostri comportamenti e le nostre reazioni. Non ci dice cos’è giusto e cos’è sbagliato, ma spesso ci lascia lì, piantati davanti alla storia, a pensare ai personaggi e noi stessi.

Non mancano, comunque, racconti di fantasia, in cui il protagonista reale è un personaggio di un racconto letterario: è una doppia finzione letteraria, uno scambio tra realtà e fantasia. Allora l’autrice ci lascia chiedere: qual è il limite tra reale e immaginario?

È il caso del racconto “Presentazioni” che l’autrice ci ha concesso, generosamente, e che abbiamo l’onore di pubblicare.

 

Presentazioni

 

La biondina si metteva sempre in fondo, il corpo diritto contro la parete, il mento alzato, lo sguardo attento.

Non si sedeva mai. Arrivava a presentazione iniziata e se ne andava sempre non appena cominciavano gli applausi.

L’aveva notata fin dalla prima volta. Gli aveva ricordato qualcuno, ma non era riuscito a farsi venire in mente chi. Non è che ci avesse pensato a lungo, quella volta: c’erano gli amici, il cronista del quotidiano locale, sua madre in prima fila con gli occhi lucidi, il padre con il vestito buono, la Tina con lo sguardo sgranato.

E il suo libro fragrante di stampa sul tavolino, che gli faceva accelerare i battiti del cuore. La sua prima pubblicazione: copertina bianco lucido, titolo in blu, riproduzione azzurro pallido di un airone, centottantasei pagine. Risultato di sette mesi della sua vita passati a battere i tasti traballanti dell’Olivetti comprata in una bancarella, con i Beatles in sottofondo che cantavano Yellow Submarine dal mangiadischi arancione, con la madre che gli portava carezze e caraffe di spremute.

Il mondo che vorrei” sarebbe poi stato definito, negli anni, la sua “Opera prima”. Con la “o” maiuscola.

 

Nel soleggiato pomeriggio d’ottobre, tanti anni dopo, lei era ancora lì. Di nuovo con quell’antiquato montgomery blu con gli alamari di legno, il maglioncino a collo alto, la frangetta che si gonfiava sulla fronte, la diritta riga tracciata sulle palpebre con l’eye-liner nero, così netta che si vedeva anche da lontano. Fuori stagione e fuori tempo.

C’era pubblico, ma meno del solito, non c’era nessun amico, c’era qualche cronista. Due reti televisive locali. Mancava sua madre, non c’era suo padre, forse lo stavano guardando da qualche parte, ma non è che lui ci credesse più di tanto a quelle balle sull’al di là. La Tina si era sposata già da vent’anni con un geometra conosciuto a Rimini ed era andata ad abitare a Busto Arsizio.

Jessica, in terza fila, stava flirtando con l’inviato di Telespazio, un tipo che al solo vederlo gli faceva girare i coglioni.

Fra la Tina e Jessica c’era stata una bella sequenza di nomi: faceva fatica a ricordarli tutti.

 

Quel pomeriggio del 7 ottobre si teneva la presentazione del suo ultimo romanzo.

«Ultimo ultimo», diceva lui, da mesi, a tutti. «Ho deciso che non scriverò più nulla. Basta. Neppure una cartolina», diceva.

Testimonianze dall’assurdo” era appoggiato sul grande tavolo della libreria: copertina nero opaco, titolo in bianco, riproduzione grigio nebbia di un disegno astratto. Centoventisei pagine: risultato di due anni della sua vita passati per la maggior parte a fissare lo schermo vuoto del computer, e ad ascoltare il silenzio delle tante stanze della villa. La scatola del Tavor accanto al posacenere stracolmo, la bottiglia di acqua minerale posata a terra.

 

Forse era stato alla presentazione della sua quarta opera. Doveva essere proprio per l’uscita di “Bestie in metrò” che lui aveva deciso di avvicinarsi alla biondina, e chiederle chi fosse. Ma dopo aver finito di firmare decine di copie, aver rilasciato due interviste, aver baciato le guance a una ventina di ammiratrici, dirigendo finalmente lo sguardo al fondo della sala, non l’aveva più vista. Se ne era andata, come sempre.

Lei non gli si avvicinava mai, non chiedeva autografi, non voleva dediche. Lui non sapeva neppure se comprasse i suoi libri.

Non era bella, ma a intrigarlo era la sua costante presenza e quel suo sparire, alla fine. Il viso rotondo, un po’ banale, reso appena più vivo dalla riga nera sulle palpebre, il look anni sessanta, quello starsene sempre in disparte, come una comparsa teatrale pronta a uscire di scena, rendeva la sua figura più rilevante di tutte quelle donne adoranti che quasi s’accapigliavano per occupare le sedie in prima fila.

A un certo punto, all’apice dei suoi successi, lui si era trovato a cercarla con lo sguardo non appena iniziava una presentazione, ansioso se non la scorgeva subito, convinto ormai, in maniera scaramantica, che la sua presenza fosse il suo portafortuna personale.

E lei c’era sempre, anche quando l’evento era in altre città. Anche quando aveva presentato un suo libro a Lugano.

A volte aveva l’impressione che la ragazza fosse in attesa. In attesa di una risposta a una domanda mai formulata.

 

Ragazza.

Poteva forse essere alla presentazione di “Nulla”, il suo decimo libro, che lui si era detto: Ecco cosa c’è di veramente bizzarro, io ho messo su pancia, mi sono stempiato, i capelli che mi restano sono diventati grigi. Lei, la biondina, è sempre uguale.

Ma aveva altre cose a cui pensare: era stato il periodo dell’abbandono di Monica, lo stesso periodo in cui aveva avuto anche la visita della Finanza, e di quegli esami che avevano fatto scuotere la testa al suo medico.

 

La noia. Era la noia che se lo stava mangiando. O forse la malinconia. Anche ora, mentre rispondeva alle domande dei giornalisti, con le luci dei flash che gli sbattevano sugli occhi, si sentiva vacillare sotto una cappa di un sentimento senza definizione. Non aveva più parole sensate da dire, non aveva più lettere vive da allineare una dopo l’altra per formare pagine. Si sentiva arido, del tutto prosciugato. Avrebbe voluto… cosa? non lo sapeva, forse i suoi vent’anni, i Beatles e una vecchia Olivetti. Forse avrebbe voluto ritrovare l’entusiasmo frizzante della creazione.

Fra il lampo di un flash e l’altro gli sembrò di vedere, là in fondo, un montgomery blu, una testa bionda, uno sguardo fermo, determinato.

Jessica si avvicinò per dirgli che se ne tornava a casa: le era venuto il mal di testa. La seguì con lo sguardo mentre si allontanava con quella gonnella a vita bassa che scopriva troppo, indossando tutta l’arroganza di chi sa di poter ancora giocare a qualsiasi gioco. Decentemente poco dopo, l’inviato di Telespazio si alzò, lo ringraziò per l’intervista e uscì dalla sala.

Il rumore delle sedie, qualche luce che si spegneva, l’abbraccio frettoloso dell’editore. La sala vuota. Non interessava più a nessuno. Pensò che era diventato un prodotto commerciale ormai in scadenza.

Solo la biondina era rimasta: per una volta non se n’era andata prima di tutti gli altri.

Lui chiuse la penna stilografica, si infilò il soprabito, prese la cartella di pelle e si avviò lentamente verso l’uscita.

Lei era ferma, e lo stava guardando.

 

Lui non sentì nessun dolore quando il coltello gli penetrò nel petto. Sorpreso, scivolò a terra piano, rimase un attimo in ginocchio, poi si adagiò sul pavimento.

Il viso di lei era a un palmo dal suo. Gli occhi fissavano i suoi occhi.

«Perché?», lui chiese con una voce arrugginita dalle ferite degli anni e del coltello. «Chi sei?».

«Maria Nerozzi», rispose lei, con timbro fermo «Non ricordi? È colpa tua se io non ho vissuto. E con la tua decisione di non scrivere mai più, oggi mi hai tolto ogni speranza».

E allora ricordò.

Maria Nerozzi: il suo primo racconto, mai ultimato. Il suo primo personaggio. Amato, cullato nell’immaginazione durante quelle notti insonni, quando aveva scoperto in sé la frenesia del creare. Le tre pagine iniziali lette e rilette cento volte, limate, riscritte, perfezionate, riscritte ancora. Aveva promesso al personaggio un grande avvenire.

Ma poi altre storie, altre figure di donna gli erano spuntate sotto le dita. Maria Nerozzi era diventata all’improvviso un’estranea, un’ombra inconsistente. E lui aveva lasciato quella storia sospesa nel tempo e nello spazio. Lei, il suo montgomery, i suoi sogni di crescita, amore, ricchezza, chiusi da qualche parte, in qualche cassetto dimenticato. Spezzati per sempre. Abortiti.

 

Un colpo di tosse gli fece sgorgare dalle labbra livide un fiotto scuro di sangue.

Un eco di canzone gli attraversò il cervello.

In the town where I was born, lived a man who sailed to sea

And he told us of his life, in the land of submarine

L’ultima cosa che vide, prima di chiudere gli occhi, furono due linee perfette tracciate con l’eye-liner.

 

Recensione inedita per gentile concessione di Gassid Mohammed LogoCC

Brani per gentile concessione dell’autrice.

Milvia Comastri-1

Milvia Comastri, bolognese di nascita, è tornata a vivere nella sua città di origine nel 2006, dopo un’assenza durata trentaquattro anni. Ma, ovunque abbia vissuto o viva, lettura, scrittura, musica e cinema sono state e sono sue inseparabili compagne. Ha pubblicato finora tre raccolte di racconti: nel 2005, “Donne, ricette, ritorni e abbandoni” (Pendragon). Nel 2012, “Colazione con i Modena City Ramblers”, edita da Historica. E nel luglio 2014 è uscita, in formato e-book, una terza raccolta di racconti: “Squilibri”, con la casa editrice Antonio Tombolini (Collana Officina Marziani), raccolta che, recentemente, è stata pubblicata anche in cartaceo. Suoi racconti e poesie si possono trovare in antologie e in Rete. In particolare, su invito dei curatori, ha partecipato con un suo racconto all’antologia “Nessuna più- Quaranta scrittori contro il femminicidio” (Elliot), curata da Marilù Oliva e al “Repertorio dei matti della città di Bologna” (MarcosYMarcos), a cura di Paolo Nori.

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autore a cura di Milvia Comastri.

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Gassid Mohammed

Gassid Mohammed è uno dei macchinisti fondatori de lamacchinasognante.com. Ha contribuito fino al numero 4 e si è ritirato a dicembre del 2016. Un grande bambino che insegue le farfalle da una vita. È nato a Babilonia, a qualche passo dell’Eufrate. Casa sua è eretta sulle basi della Torre di Babele, nessuno ci crede ma è così. È cresciuto in un piccolo paesino in campagna, con le pecore, le mucche, le galline, le farfalle, le api e tutti gli animali e gli insetti. Tutto il suo corpo è costituito dall’Eufrate, non solo perché ci faceva il bagno ogni giorno per tante ore, ma anche perché le piante e le verdure che piantava e faceva crescere erano irrigate dall’Eufrate. Gli piace molto la natura perché ha passato la sua infanzia e l’adolescenza negli orti e nei campi. Il suo orto aveva una collina coperta di erbe e fiori, a lui sembrava fosse il resto dei giardini pensili. Ovviamente nessuno ci crede, ma c’è poco da fare. Da bambino aveva sempre inseguito le farfalle, e le insegue tuttora, e lo farà per sempre.

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