Recensione de “Nel Castagneto” di Guido Cavalli, a cura di Elena Cesari

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Guido Cavalli si addentra ( e ci fa addentrare ) a passi piccoli piccoli, con lo sguardo aperto e lo stupore di un bambino, nel “folto” del suo castagneto. Il poeta accompagna il lettore in un cammino verticale, cauto e audace insieme, quasi un viaggio iniziatico, un ritorno all’origine, alla radice primigenia del padre. Un sentiero fatto di orme, dove intenso è il profumo della terra e immensa la magnificenza degli alberi di castagno, che ripercorre una frattura profonda fra generazioni vicine e che pure sembrano ormai parlare lingue diverse e reciprocamente incomprensibili.

 

“Ma se la curiosità avessi di cosa

andavamo l’un l’altro conversando

seduti sotto il castagno spezzato,

dimmi, a chi mai potrei domandare?”

 

Si chiede il poeta e la sua voce pare odersi come un’eco nel castagneto.

Ed è proprio attraverso il bosco e alla memoria in esso stratificata che a Cavalli si dischiude il mistero. Scrive il poeta “ Nel castagneto”:

 

“E’ l’odore dei boschi di castagno.

E’ la cosa più antica che c’è in me.”

 

Una rivelazione olfattiva, una porta sensoriale alla quale il poeta, privo di artifici ma profondamente presente a se stesso, si affaccia per contemplare il mistero inafferrabile della vita e della morte, poiché:

 

“ Siamo, anche solo per poco,

in un’altra verità

dove la parola ci precede

addentrandosi in ciò che sovrasta”

 

“Ciò che sovrasta” pare essere la morte del padre, ma anche la trasformazione decadente della natura abbandonata a se stessa e la vita che ritorna nonostante tutto a rinascere.

Cavalli compie un percorso di discesa e risalita e poi ancora discesa nella terra dei suoi avi e nella sua lingua madre, alla ricerca dell’antico “vocabolario vivo” della frequentazione costante con la natura.

Nella poesia “La discendenza” è alla figura del nonno, custode di questo vocabolario naturale, che tocca ordinare e “decidere” delle cose della vita in campagna. Il nonno è per Cavalli il baluardo del sapere della vita semplice ed umile che si va pian piano perdendo e a cui il poeta si sente già inesorabilmente estraneo.

 

“ Eppure anch’io appartengo a questa storia”

 

Di che io si tratta? Evidentemente del poeta stesso che interroga la sua “discendenza”, ma anche del lettore che riesca a leggere nel libro di Cavalli un legame con la storia recente della civiltà contadina e con l’abbandono di boschi, campi e radici comuni e comunitarie.

Dove vaga e di cosa vagheggia il poeta perso nel bosco di castagni?

Leggendo Cavalli, immediatamente e come per associazione di idee, mi sono venuti in mente i versi di un’autrice a me cara, Azzurra d’ Agostino e del suo “ Canti di un luogo abbandonato”. Entrambi gli autori fanno riecheggiare la poesia dei luoghi abbandonati degli Appennini, territori dai quali sembra giungere una domanda di senso rivolta agli uomini che adesso vivono “giù in città”.

 

Scrive Cavalli:

 

Un uscio vecchio sbatte per due volte.

Un cesto vuoto rotola nell’orto.

Un secchio gocciola sotto la fonte.

Intanto noi dove siamo? Perché

abbiamo preso la sembianza d’ ombre

impigliate ai vetri delle finestre,

d’ orme nei letti di polvere e cenere?

 

In D’Agostino:

 

Vedere le cose disfarsi è questo

salto, le poche lettere che separano

culla e nulla, cura e bara, e noi qui

sempre a prendere misure,

dentro un corpo che è la più assoluta

solitudine, e averci fatto l’abitudine

non basta – non basta questa campagna

né la legna a marcire non basta seguire

cogli occhi come il bosco si riprende

tutto e come tutto si arrende. Cos’altro fare?

Piangere?

 

In entrambi i lavori poetici sono non a caso gli alberi da frutto a mostrare i segni più chiari dell’abbandono.

Scrive Cavalli del melo abbandonato:

 

“In mezzo all’erba incolta del pometo

frutti maturi che la troppa attesa

ha reso ormai amari. Qui a marcire

ristanno e bruni scioglieranno in terra.”

 

Sembra fargli eco D’ Agostino:

 

Eppure di certo lo sapevano

che il pero è delicato che s’ammala

in fretta se non ci badi che la frutta

che peccato lasciarla da sola

potare tentare l’innesto si fa presto

a morire ma poi il resto? Il frutteto

abbandonato s’è ammalato

non dà frutti nessuno lo cura

dove sono tutti?

 

 

E’ solo il bosco che muore? O è la parola poetica che rischia di morire se viene trascurato il legame fra parola e linfa viva delle cose, fra le parole e le loro origini rurali? Se l’umanità si allontana dal bosco, dalla montagna e dalla campagna , allora, è tutta una cultura, la nostra, ( e un modo di fare ed essere poesia) che vacilla e cade.

Senza più una cultura materiale, una cultura della cura della natura e delle relazioni; senza nemmeno la memoria di essa, gli uomini si perdono, perdono la cognizione del tempo e dello spazio, la percezione chiara della loro finitezza e del loro essere al mondo e nel mondo.

 

Così D’Agostino:

 

Quando se ne sono andati

hanno portato via le loro foglie

le loro sere e primavere le loro voglie

di pioggia la raggia o rovo o spina

impigliata una mattina nel vestito

della festa non basta che il posto sia lo stesso

che l’adesso sia una specie di per sempre

per chi lo vive ma invece il torrente

scorre passa e come in un gorgo

quando se ne sono andati

hanno portato via tutto il borgo

il bosco l’intero mondo il suo gergo

sì il modo di parlare e non solo anche

quello di vivere, di camminare.

 

Per Cavalli la comprensione e la trasmissione autentici del sapere manuale, della cura minuziosa della natura e degli oggetti degli anziani, sembra essere perduta per sempre, perché perduto è ormai la possibilità di un incontro reale con loro.

 

Oggi che vivo questo tempo incolto,

cammino assieme ad altri senza parte.

I vecchi sono morti e queste cose

le scrivo senza dover incontrare

il loro sguardo.

 

Cosa accade se, come scrive il poeta:

 

“Sì, la natura diventa un’idea,

come una persona morta- è un’idea” ?

 

Forse sembra suggerirci Cavalli alla fine del suo libro “ si è costretti a cercare un altro inizio”, attraverso la scuola del pre-sentire ovvero del porsi all’ascolto con tutti i sensi, pronti a cogliere le tracce che fanno emergere la parola poetica, quasi una consapevolezza nuova della provvisorietà dell’esistenza e del tempo come riconciliazione fra passato, presente e futuro.

Scrive il poeta nel “ In sogno”:

 

“[…]

Muti segni tutt’intorno ci parlano

della tua legge viva, della dolce

catena che stringe attorno al tuo vincolo.

A loro quante prove hai destinato?

 

Oltrepassiamo la soglia del bosco,

santuario d’ ombre e narrazioni.

Sento dentro di me queste parole

scendere verso ciò che mi precede.

 

Ma sono un seme caduto fra i sassi.

Le mie radici sfiorano soltanto

la vena che corre molto più in basso.”

Recensione inedita per gentile concessione di Elena Cesari LogoCC

 

guido caavlli

Guido Cavalli è nato nel 1974 a Parma, dove vive e lavora. Coautore dell’opera di Errico Malò (da cui i romanzi Cielo di paese e Scaramuccia, editi da Moby Dick, e vari racconti per quotidiani, riviste e antologie pubblicati da Guanda, MUP, Aliberti), è redattore della rivista di filosofia Kaspahauser (recente un suo contribuito alla monografia Heidegger e il nazismo 2.0). È del 2005 la sua prima raccolta di versi, Piccolo canzoniere selvatico (Manni Editori). 

Foto in evidenza tratta da Morguefile.

Foto dell’autore a cura di Guido Cavalli.

Riguardo il macchinista

Elena Cesari

Elena Cesari ha fatto parte del gruppo operativo de lamacchinasognante.com fino al numero 5. Elena Cesari abita a Salvaro in un condominio solidale. Nel 2014 esce la sua prima raccolta poetica, Una viola, una pigna, un'ombra (Fondazione Luzi, Roma). A luglio 2015 esce “L'essenziale delle cose perse” (LietoColle) . Educatrice e insegnante di italiano L2 ha condotto e collaborato alla realizzazione di corsi di italiano e progetti sperimentali di teatro e lingua con donne migranti. Attualmente lavora con un gruppo di richiedenti asilo bengalesi. Da tre anni collabora con il gruppo di teatro integrato Magnifico Teatrino Errante, realizzando progetti di teatro integrato e interculturale.

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