Recensione de “La Macchina Sognante” di Julio Monteiro Martins (Lorenzo Mari)

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Accingersi a parlare dell’ultimo libro di Julio Monteiro Martins, nonché del primo dopo la sua prematura scomparsa, significa confrontare un atto di lettura notevolmente distaccato – nel suo farsi, eventualmente, esercizio critico – con la permanenza del ricordo personale, del dolore dell’assenza che rende tutto – paradossalmente – più vicino e presente di quanto non si possa razionalmente concludere.

Ne consegue, in primo luogo, che la facilità con la quale si potrebbe definire La macchina sognante il “testamento intellettuale” dell’autore – intenzione che emerge, talora, con la forza della serenità in alcuni, emozionanti passaggi da lui firmati – non può e non deve oscurare la portata dialogica del testo, ossia il suo farsi e disfarsi, al tempo stesso trasformandosi. I due versanti finiscono per arricchirsi reciprocamente, fornendo al lettore un’opera vibrante, lucida, disincantata e al tempo stesso ospitale e accogliente.

La prima interlocutrice di questa “conversazione privata”, che privata, naturalmente, non é mai del tutto, è  Milvia Maria Cappellini; è lei a suggerire a Monteiro Martins una serie di spunti che, di volta in volta, consentono lo sviluppo dell’argomentazione e della narrazione. Di tali spunti è opportuno notare fin da subito come nascano tutti in forma di citazioni dotte, provenienti dal canone della letteratura mondiale. Nella prospettiva di entrambi, infatti, il canone in questione è formato in egual misura dalle opere di Luigi Pirandello, Thomas Bernhard o Milan Kundera e dai testi di scrittrici latinoamericane come Clarice Lispector o di autrici africane come Nadine Gordimer. Come osserva Rosanna Morace nell’introduzione:

Il colloquio di un autore nato in Brasile e ri-nato in Italia – condotto grazie alla regia maieutica di una raffinata studiosa – con gli scrittori della grande tradizione letteraria è esso stesso Letteratura [sic] mondiale, e ci permette di rileggere la cultura italiana da una prospettiva europea, e la letteratura occidentale da quella mondiale, grazie a quella “distanza” linguistica e culturale che solo un diverso immaginario può aprire.

Potrebbe sembrare a prima vista paradossale, ma si tratta di un immaginario che, a livello culturale e letterario, si nutre in modo preponderante di “Europa” e del vastissimo mondo, talora informe o spettrale, che si espone o si nasconde attraverso questo significante. D’altronde, vedere l’Europa attraverso la distanza messa in scena dal gioco prospettico instaurato dai due autori significa accettare una relazione con l’alterità che può essere anche sorprendente.

Pur mantenendo salda la critica del colonialismo e del neocolonialismo, infatti, Martins usa toni che sono abbondantemente positivi nel ricordare la passione culturale e politica che si è sempre avvertita in Brasile per l’Europa, considerata l’orizzonte di fuga ideale, in tutta l’America Latina, durante l’epoca dei regimi autoritari della seconda metà del XX secolo. Partendo da questo dato, Martins sostiene anche quanto segue:

 …se il romanzo europeo è più europeo dove non è Europa si deve al fatto che “Europa” in verità non è altro che il desiderio (o il bisogno) di Europa. In nessun punto del Vecchio Continente oggi è possibile trovare l’Europa ideale che sussiste nella mente dei messicani, degli algerini, e dei coreani…

Da queste considerazioni, che, per quanto opinabili, risultano in ogni caso fortemente strutturate, Martins arriva però a trarre conclusioni deboli, se non idiosincratiche (citando peraltro la grande scritttice Assia Djebar, anch’essa recentemente scomparsa):

Forse il nervosismo descritto [da Assia Djebar] sarà vero per gli scrittori postcoloniali, dovuto alla tensione tra “campi gravitazionali” potenti e opposti presenti nell’anima di ogni intellettuale sotto il giogo coloniale attuale o recentemente sciolto, ma anche così il suo bruciante influsso culturale sarà sempre forte. Questa a condizione di “élite” subalterna, il vassallaggio ideologico e morale che ne consegue, risulta sempre straziante. Non credo però che il loro nervosismo riguardi uno scrittore della migrazione come me, per esempio. La mia situazione di brasiliano, quindi originario di un paese autonomo con un grande progetto proprio, guarito da tempo dalle fratture della colonizzazione portoghese mi ha risparmiato questo trauma, che colpisce la questione della lingua come quella delle idee e delle identità.

Tralasciando la questione quanto mai scivolosa della guarigione brasiliana dal trauma coloniale, è la preferenza di Martins per l’etichetta “scrittore della migrazione” ad essere particolarmente ambivalente, perché passa attraverso una semplificazione concettuale che si attua esplicitamente – qui starebbe il vulnus, a mio avviso – a disdoro della teoria e critica postcoloniale. Tale operazione, inoltre, non può che entrare in contraddizione con quella che è la chiara derivazione postcoloniale di quasi tutte le idee oggi circolanti di “letteratura mondiale”.

Altrove le posizioni critiche di Martins rivelano l’esistenza di côté teorici egualmente opinabili,  come quando lo scrittore italo-brasiliano si trova ad essere interpellato sul rapporto tra le parole e le cose o su quello tra storia e narrazione. In quest’ultimo caso, l’affondo più consistente è nei confronti della moda editoriale del romanzo storico, stilettata polemica che si somma ad altre giaculatorie, disseminate nel libro, e indirizzate di volta in volta contro la grande editoria mainstream, il sistema culturale del berlusconismo, Internet, i social network e, in termini generali, la cultura di massa contemporanea.

Martins, tuttavia, non è neppure un francofortese di ritorno. Come hanno mostrato tutte le sue avventure letterarie e culturali, culminate, in Italia, con la preziosa esperienza della rivista Sagarana, l’autore si è sempre battuto per una ricostruzione del sistema letterario come “comunità di senso”, che potesse generare a propria volta un’autentica democrazia culturale. In questo senso, Martins cerca di distinguere la propria posizione da un puro e semplice esercizio di wishful thinking, appellandosi invece al diritto alla  speranza che, insieme alla compassione e al coraggio, gli sembra una virtù fondamentale per un nuovo approccio alla letteratura, che sia insieme estetico, politico ed etico.

Speranza, compassione e coraggio: non c’è letteratura, sembra dirci Martins, al di fuori di queste virtù cardinali. A titolo di esempio, l’autore ricorda giustamente come “la letteratura disperata” invocata nei confronti delle opere di Albert Camus, Clarice Lispector e Thomas Bernhard, non sia altro che un ossimoro, che del resto è una figura retorica positiva, tensiva e produttiva. Secondo Martins, inoltre, non è vero quanto sosteneva Giorgio Manganelli ne Il delitto rende ma è difficile (1997):  “Finché c’é al mondo un bambino che muore di fame, fare letteratura é immorale”. Per l’autore italo-brasiliano è vero piuttosto il contrario: “Finché c’é al mondo un bambino che muore di fame, non fare letteratura é immorale”, poiché è precisamente la letteratura a poter aiutare il lettore a scoprire il Male aldilà della sua banalità, veicolata, per contro, dall’iper-comunicazione contemporanea. In una battuta, la tenuta formale é sempre anche endurance politica e morale.

Per tornare a questo ultimo esempio, è chiaro che le idee di letteratura di Manganelli e Martins non si escludono a vicenda, ma si compenetrano. D’altro canto, in ogni passaggio di questo libro, anche dove gli appigli teorico-critici possono essere messi in forte discussione, Martins rivela un’intelligenza lucida, ma mai spietata, che resta sempre incredibilmente democratica e inclusiva, dinamica e trasformatrice,  consentendogli di dialogare sia con la propria prima interlocutrice Milvia Maria Cappellini che con il resto dei lettori.

È proprio questo ad averne fatto un intellettuale di grande caratura, “migrante” e al tempo stesso “postcoloniale”. Se la categoria di “intellettuale” è stata posta in dismissione da tempo e, soprattutto, non ha mai fatto definitivamente breccia nel sistema letterario e culturale italiano a partire da una posizione “migrante” o “postcoloniale”, per Martins questa è una definizione che vale.

Anche grazie a lui, infatti, la macchina sognante della letteratura é ancora accesa.

 

Per gentile concessione dell’autore, prima pubblicazione in El Ghibli http://www.el-ghibli.org/la-macchina-sognante-lorenzo-mari/,Supplemento dedicato a Julio Monteiro Martins.

 

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Lorenzo Mari (Mantova, 1984) vive a Bologna, dove si è addottorato in Letterature Comparate e Postcoloniali, con una tesi sulla letteratura somala postcoloniale e diasporica. Ha pubblicato le raccolte libere sequele (Gazebo, 2004), inventario senza Endimione (Inventario Senese, 2007 – V Premio Alessandro Tanzi) e Minuta di silenzio (L’Arcolaio, 2009). È presente in alcune antologie come Nella borsa del viandante (Fara, 2009, a cura di Chiara de Luca), La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta(Ladolfi, 2011, a cura di Matteo Fantuzzi e Giuliano Ladolfi). Tra le pubblicazioni più recenti, le raccolte Nel debito dell’affiliazione (L’Arcolaio 2013) e Ornitorinco in cinque passi (Prufrock SPA 2016).

 

 

Foto in evidenza di Simbala Desilles.

Foto dell’autore a cura di Lorenzo Mari.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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