Razzializzazione e tessuto sociale – “Umanità in rivolta” di Aboubakar Soumahoro, recensito da Maria Zappia

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Umanità in rivolta, Aboubakar Soumahoro

 

Feltrinelli

 

Anno: 2019

 

Aboubakar  Soumahoro nel libro recentemente edito da Feltrinelli dal titolo, “Umanità in rivolta” affronta in maniera coraggiosa le ambivalenze che hanno caratterizzato tutte le leggi emanate in Italia in materia di immigrazione definendole tutte come derivate da un’unica ideologia: quella della razzializzazione della società. L’autore enumera i singoli processi di inferiorizzazione e marginalizzazione sul terreno della razza a partire dalle leggi Martelli del 1990 sino al recente decreto sicurezza e esprime, con voce energica, la necessità dei lavoratori precari e di coloro che sono collocati nei gradini più bassi delle gerarchie lavorative di attraversare la linea dello sfruttamento ed uscire allo scoperto. L’esordio dell’opera è molto interessante in quanto viene chiarito il significato di un termine finora utilizzato solo dagli addetti ai lavori per impostare le politiche di sfruttamento della manodopera. È la razzializzazione della società a determinare meccanismi di frammentazione e gerarchizzazione della forza lavoro fondate sulla razza, con l’utilizzo di discorsi e pratiche, discriminatorie e di subordinazione di un gruppo sociale da parte di un altro. Il fenomeno, è stato diffusamente spiegato da studiosi statunitensi (Critical Race Theory) per giustificare i movimenti per i diritti civili degli anni sessanta in quanto solo apparentemente la razza evoca un dato biologico laddove, in maniera più sommessa il processo determina sfruttamento e inferiorizzazione di larghe fasce della società da parte di ristrette elite dominanti. Negli Stati Uniti, le massicce migrazioni di inizio novecento furono gestite attraverso la razzializzazione dei lavoratori provenienti dall’Europa meridionale e orientale e dall’Asia e, all’interno di una precisa categorizzazione del lavoro su base razziale, furono stabilite mansioni e costi del lavoro. Gli anglosassoni bianchi (inglesi, olandesi, tedeschi) furono collocati ai vertici delle gerarchie lavorative e salariali mentre nei livelli più bassi furono collocati i lavoratori di origine italiana, specie se meridionali, gli slavi, gli armeni, i cinesi, ritenuti biologicamente meno dotati rispetto a coloro che provenivano dal nord Europa. Anche in Italia, il mercato del lavoro capitalista fu ispirato alla razzializzazione di coloro che provenivano dalle regioni meridionali che furono collocati, proprio come negli Usa, nei gradini meno elevati delle gerarchie produttive, con bassi salari e in assenza di garanzie. Ovviamente la marginalizzazione dei lavoratori meridionali fu funzionale all’abbattimento dei costi della produzione e consentì il passaggio da un’economia ancora in prevalenza agricola ad una di tipo marcatamente industriale. Si è trattato di opportune scelte di razzializzazione che hanno avuto poco a che fare con il colore della pelle quanto piuttosto con la chiara volontà di marginalizzazione e di controllo sociale di larghi strati delle popolazione. Nell’attualità, la stessa politica viene replicata nei riguardi dei lavoratori migranti riguardo ai quali si attua una forma di razzismo che “rifiuta di essere rappresentato come tale” ma che replica tutti i cliché consolidati delle precedenti forme di categorizzazione sociale. La costruzione di un’“emergenza sbarchi” a Lampedusa è stato un chiaro esempio di come lo stato ha inteso affrontare la problematica delle migrazioni. “Il primo profilo è quello del paradigma dell’invasione -sostiene Soumahoro – il secondo quello utilitaristico ed economico, il terzo è il paradigma securitario. Attorno a questi tre perni fondamentali ruota l’intero impianto legislativo in materia di immigrazione.

Il concetto di razzializzazione non solo è disumanizzante, afferma Soumahoro, ma “delinea i confini di una presunta superiorità di una parte della popolazione rispetto ad un’altra, indipendentemente dalla condizione materiale. Perciò leggere il processo di razzializzazione in una mera chiave economica e materialista è riduttivo. Perfino i giocatori di calcio professionisti non sono immuni da questi elementi di categorizzazione, malgrado appartengano ad una classe sociale più che benestante. (…) Le leggi sull’immigrazione che si sono alternate nel corso degli ultimi trent’anni hanno creato una cultura della banalizzazione e dell’indifferenza rispetto alla macchina della razzializzazione. E tutto ciò ha comportato la legittimazione di atteggiamenti di deriva razzista. Perché la cultura dell’inimicizia, che nell’era della crisi economica si è fatta tessuto sociale, sembra provocare una certa assuefazione. Queste attitudini, in particolare l’indifferenza, hanno accompagnato l’emanazione delle leggi razziali durante il regime fascista in Italia e il sistema dell’apartheid in Sudafrica. La nostra missione collettiva deve essere di decostruire, da un lato il paradigma della razzializzazione, in tutte le sue articolazioni e dall’altro di costruire un nuovo modello di comunità che valorizzi le diversità e le pluralità culturali nelle dimensioni immateriali e materiali.”

Al contempo, lo scritto segna un impegno per tutti coloro che si trovano nella situazione tracciata dall’autore nel senso di “prendere la parola in prima persona nei luoghi e negli spazi politici”. La rappresentanza, in altre parole, non deve essere né mediata né paternalistica, occorre esprimersi in maniera autonoma rifiutando di assuefarsi all’ingiustizia. (…) La ghettizzazione dei lavoratori in baraccopoli o tendopoli è privazione dei diritti e della dignità umana. Inasprisce lo stato di povertà e il senso di frustrazione. I lavoratori, stagionali o stanziali, hanno diritto a soluzioni abitative strutturali e a un inserimento fuori da ogni ghettizzazione sociale e spaziale”.

Il libro si conclude col richiamo ad una figura importante nella storia dei movimenti operai italiani: Giuseppe di Vittorio. Soumahoro, per l’esperienza personale appena giunto in Italia dalla Costa d’Avorio, avverte con particolare enfasi lo sfruttamento della manodopera nelle realtà rurali, e così richiama la storia di colui che figlio di un bracciante, all’età di diciassette anni fondò il circolo socialista di Cerignola, in Puglia  e dedicò la propria vita a lottare per i diritti dei lavoratori.

 

Maria Zappia

Maria Zappia, nata nel 1965, è calabrese ed esercita la professione di avvocato civilista. E’ tra i collaboratori della rivista giuridica on line “Persona e Danno” curata dal Prof. Paolo Cendon e rivolge la propria attenzione a tematiche di diritto civile: sostanziale e processuale. Si occupa prevalentemente di responsabilità medica, di diritto del lavoro privato e pubblico, diritto dei minori e della famiglia, di responsabilità civile. Ha approfondito l’istituto degli ordini di protezione contro gli abusi familiari. Nelle discipline penalistiche ha affrontato, in più occasioni, la fattispecie della diffamazione sui social. Rivolge i propri interessi nei riguardi di letteratura e poesia scrivendo su Zoomsud, giornale on line diretto dal giornalista Aldo Varano. Ha vissuto lunghi periodi in Marocco e i prolungati contatti con la realtà del Maghreb, le hanno permesso di ampliare i propri orizzonti umani e culturali.

 

 

 

Immagine di copertina; Foto  di Teri Allen Piccolo.

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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