Ragazza di Trincea: la musica come strumento per affermare le diversità (di Giacomo Matteucci)

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Foto dalla fotogalllery di Nicoletta Lofoco.

La musica e i testi dei Mashrou’ Leila, una voce per chi non ce l’ha.

 

Nel febbraio del 2008, la situazione socio-politica in Libano era altamente instabile, a causa dei conflitti che sarebbero poi sfociati, nel maggio dello stesso anno, nello scontro tra le forze filo-governative e le forze dell’opposizione, composta anche da gruppi paramilitari come Hezbollah.

Per alleggerire lo stress del momento, tre studenti della facoltà di ingegneria della American University of Beirut, con la comune passione per la musica, decisero di chiamare a raccolta il più ampio numero di musicisti e cantanti possibile, organizzando una serie di jam sessions. Il violinista Haig Papazian, il chitarrista Andre Chedid e il pianista Omaya Malaeb invitarono moltissimi artisti a partecipare. L’evento fu un successo e tra le decine di musicisti che si presentarono, alcuni di loro consolidarono il legame con i tre organizzatori, dando vita ai Mashrou’ Leila. Nel corso del tempo, la formazione della band subì vari aggiustamenti, fino ad arrivare al quella attuale, che vede il solo Haig come rappresentante dei tre ideatori iniziali, affiancato da Firas Abu Faker (chitarra e pianola), Carl Gerges (batteria) e Hamed Sinno (cantante).

Non è certo il vero significato del nome, “progetto notturno” o “progetto Leila”, gli stessi membri della band ci scherzano sopra e preferiscono mantenere un alone di mistero. Ciò che è certo è che questo “progetto” riscosse fin da subito un grande successo, prima all’interno del panorama musicale underground libanese, poi ricavandosi il proprio spazio in quel sempre più ampio contenitore che è la musica indie, in Libano ma anche e soprattutto a livello internazionale.

Oltre alla musicalità estremamente moderna, creata dall’accostamento di sonorità elettroniche pop-rock al violino di Haig, il tutto a supporto della potente e struggente voce di Hamed Sinno, che canta quasi esclusivamente in arabo, l’altra ragione alla base del loro successo risiede probabilmente nella forza dei loro testi. Parole schiette, a volte crude, disarmanti, forse l’unico modo realmente efficace per affrontare le tematiche che troviamo al centro delle loro canzoni: dure critiche alla società e alla politica libanese; tragiche storie d’amore; la costruzione del sé, della propria identità e sessualità; la contingente difficoltà, nonché l’impossibilità, ad esprimersi liberamente ed essere ciò che si sente in una società, quella libanese, che, come molte altre, impone limiti e standard arbitrari, escludendo violentemente chiunque non li rispetti.

Molto spesso queste tematiche si sovrappongono e, anzi, sono una la causa dell’altra. È quello che succede in Maghawir, “Commandos”, brano appartenente al terzo album della band, Ibn El Leil, “Figlio della notte”, nel quale è riportato lo scenario ipotetico di una sparatoria che stravolge la vita notturna di Beirut. La canzone, dal tono volutamente ironico, le cui trombe in sottofondo sembrano voler prendere in giro un inno militare, si ispira ad un paio di sparatorie realmente avvenute lungo le strade della capitale libanese che hanno portato alla morte di molti e molte giovani. Il testo appare quasi come un elenco puntato il cui primo punto è l’augurio di buon compleanno a chi è uscito a festeggiare, ancora ignaro di ciò che succederà. Attraverso i successivi punti dell’elenco, la canzone si trasforma in una critica della società e dei ruoli di genere che vengono attribuiti a uomini e donne nonché delle conseguenti aspettative che si hanno riguardo a come ognuno performa nel proprio ruolo.

Le due sparatorie alle quali si ispira il testo scaturirono infatti dalla necessità sentita da alcuni uomini di difendere il proprio onore rispondendo ad offese che gli erano state rivolte durante una disputa. La band quindi, denuncia come sia proprio questa mascolinità, a tratti militaresca, ciò che ci si aspetta dal genere maschile. Ragazzi che escono di notte e, compiendo azioni violente come se fossero appunto dei commandos, dimostrano il loro essere uomini. Il tutto affrancato dal silenzio complice delle autorità libanesi che, non solo facilitano la circolazione della violenza non controllando la circolazione delle armi, ma soprattutto si sono rese colpevoli negli anni della diffusione di un modo di pensare ed agire che ha portato alla condizione attuale. “Ci hanno insegnato a giocare ai criminali per strada”, così è cantata la colpa dello stato e del modello sociale che ha impostato; “perché il ragazzo è figlio di suo padre”, una colpa tramandata e non riparata nel corso degli anni e delle generazioni. A fare da contraltare a questo modo di essere uomini ci sono le donne, viste come semplici “misure del rispetto nei confronti delle persone”; nient’altro che oggetti dunque, utili solo a valutare il rapporto reciproco tra le persone. Ossia tra gli uomini.

Un’immagine amara di una società malata risulta anche da un altro brano dello stesso album, Tayf , “Fantasma”, ancora una volta ispirato a fatti realmente accaduti: la chiusura di un locale ritenuto essere un luogo di ritrovo per persone omosessuali. La prima strofa della canzone inizia con una serie di metafore in cui i fantasmi – gli omosessuali – ballano, senza curarsi dei colpi di pistola sparati dalla polizia che risuonano nell’aria. Ancora una volta le armi come simbolo della violenza, ancora una volta lo stato, rappresentato qui dalle forze dell’ordine, autore in prima persona di questa violenza. La voce ferita di Hamed Sinno, dichiaratamente gay, si eleva a simbolo di tutte le ferite subite da chi si è sempre sentito umiliato e privato della libertà a causa di ciò che prova, dei propri sentimenti, della propria coraggiosa decisione di amare; a causa di ciò che semplicemente è. “La polizia ci ha imprigionato e castrato per usarci come monito // abbiamo cucito le nostre bandiere dai sudari dei corpi dei nostri compagni uccisi”; violenza psicologica, la chiusura del locale, accompagnata da vera e propria violenza fisica brutalmente attuata dalla polizia, con il solo scopo di scoraggiare altri a comportarsi nello stesso modo ritenuto non corretto, immorale, deviato. Di nuovo, una strada tracciata nella direzione sbagliata da chi aveva la possibilità di dare l’esempio alla comunità ma ha preferito sviluppare un’idea di mondo in cui c’è chi non sente di farne parte perché ne viene volutamente escluso. “Ho passato la mia vita con i miei diritti controllati dai vostri sentimenti // e sono stato cancellato dalla Storia come se fosse la vostra storia”, ecco il senso di inadeguatezza profondo sentito da Hamed e da tutti coloro che si rivedono – si risentono –  in queste parole, tagliati fuori dalla storia per ciò che sono, per come decidono di vivere la propria vita.

È un’ode al senso di inadeguatezza anche Bint El Khandaq, “Ragazza di trincea”, altra canzone dell’album Ibn El Leil, che racconta, da un punto di vista femminile, il crescente disorientamento e senso di non-appartenenza comune a molte. Il femminile è d’obbligo, dal momento che molto spesso sono proprio le donne e le ragazze a vivere in uno stato di alienazione e disillusione nei confronti della società in cui crescono. Anche dal punto di vista musicale, la tonalità della voce di Hamed Sinno, che riesce a toccare vette e ad infilarsi in anfratti solitamente noti quasi esclusivamente a voci femminili, è la perfetta cornice narrante di questa storia. “Sei cresciuta come se il senso di alienazione fosse nato con te…//…hai paura di dormire per anni e svegliarti essendo ancora la ragazza di papà” questo è il sentimento condiviso da molte donne e ragazze che cercano il loro posto all’interno della società libanese: bloccate in una specie di torpore che non consente di ambire a nient’altro se non ad essere la figlia di qualcuno, la madre di qualcun altro, la sorella, la moglie di altri ancora. “Quale “tradirlo” se lui ti ha tradito per tutta la vita? // Quale “venderlo” se lui ti ha venduta per tutta la vita // Se il terreno è arido, perché continuiamo a piantare promesse?”, domande che sorgono spontanee vivendo in una società fatta dagli uomini per gli uomini che disattende costantemente le promesse e le aspettative di donne e specialmente giovani ragazze. E intanto, “tua madre ti dice che va bene // domani ti ci abituerai”. Le donne delle vecchie generazioni, che non hanno mai avuto i mezzi per conoscere un altro modo di essere donna, sono assuefate alla loro condizione. Ma le ragazze non si arrendono, sono convinte che un altro modo ci sia; a dirla tutta, ne esistono molti altri. Perciò, dopo anni di immobilismo, non rimane che tentare un’ultima disperata e coraggiosa soluzione: “alzati sorella, guidaci via da qui”; andare via, cercare la libertà altrove. “Torneremo domani” dicono, quando il terreno sarà meno arido e pronto ad accogliere il cambiamento.

Nella scelta di indirizzare questa canzone in particolare alle donne, come se giungesse essa stessa da una donna, si potrebbe individuare la volontà di far parlare il lato femminile dei Mashrou’ Leila, attraverso il loro cantante, Hamed, che la sua femminilità non l’ha mai nascosta, assumendosi i rischi che ciò ha sempre comportato. E con lui la band, che, tra le altre cose, si è vista negata la partecipazione a diversi concerti e festival ed è stata interdetta addirittura dal suolo nazionale di paesi come l’Egitto e la Giordania. Anche in Libano a volte, come quando nel 2019 sono stati estromessi dal festival nazionale di Byblos per placare gli astiosi animi di un gruppo di estremisti religiosi, pretestuosamente indignati a causa di alcuni testi della band, ritenuti blasfemi nonché promotori di comportamenti omosessuali. Anche loro dunque, rifiutati e rigettati dalla loro stessa patria, come le ragazze del brano.

In senso più lato, l’opera dei Mashrou’ Leila potrebbe essere interpretata come una metafora della coesistenza, viva in ogni individuo, di un lato femminile ed uno maschile; una coesistenza spesso difficile, che assume i contorni della battaglia, durante la quale ognuno decide più o meno consapevolmente che direzione prendere. Pur sapendo che esaltare maggiormente la femminilità possa risultare in una vita passata in trincea a difesa della propria identità e dei propri ideali perché, ancora oggi, le dicotomie uomo-donna, maschile-femminile sono estremamente difficili da spezzare. Tuttavia, la band ha fatto di questo uno stile musicale e uno scopo di vita e si impegna giorno dopo giorno nel dare luce e voce ad una varietà sempre più estesa di identità ed individualità diverse che sarebbero altrimenti sistematicamente escluse dalla narrazione dominante.

L’esperimento forse maggiormente riuscito in questa direzione è rappresentato da una quarta canzone, presa sempre dall’album Ibn El Leil, cioè Kalam (s/he), “Parola (lei/lui)”. Si tratta di una ballad delicata e struggente in cui un o una protagonista si rivolge alla persona amata, denunciando la difficoltà che incontra nel vivere il proprio amore liberamente, poiché vissuto all’interno di un contesto sociale nel quale non si sente a proprio agio. Oltre a mettere in evidenza le fallacie di una società in cui “ignoranti con la barba di foglie di fico” alzano con disappunto le sopracciglia di fronte all’amore delle due persone protagoniste, il brano fa qualcosa in più, chiamando in causa la stessa lingua araba. L’arabo è infatti una lingua decisamente marcata nel genere e dunque le parole possono essere usate per “scrivere i confini della nazione sul mio corpo e sul tuo”, ossia stabilire, anche linguisticamente, quelle stringenti seppur artificiali dicotomie nominate in precedenza. Per provare a sovvertire tutto questo, il/la protagonista si rivolge all’amato/a utilizzando alternativamente una volta il pronome maschile e la volta dopo quello femminile. “Sento quello che senti tu (m.) // dov’è il difetto? // Sento quello che senti tu (f.)”. In questo modo, la rigida potenza delle parole è costretta ad allentare la propria morsa quando “la pelle prende il sopravvento sulla parola”, quando cioè il corpo, gli individui e le loro identità si rivelano più forti dell’artificialità, delle convenzioni, dei soprusi, delle costrizioni. La realtà, ci dicono i Mashrou’ Leila, è molto più complicata di come la si vuole rappresentare e di certo non saranno le gabbie, linguistiche e non solo, a contenerla. Perché “la pelle stravolge la parola”.

Per quanto difficile sia la strada da percorrere, per quanto tortuosamente sia stata costruita, i Mashrou’ Leila non sembrano avere alcuna intenzione di arrestare il proprio cammino, evidenziando attraverso la musica ciò che di sbagliato vedono – e vivono – quotidianamente, portando avanti i loro ideali, spingendosi verso la loro idea di mondo. Chi li ascolta lo sa e li sostiene, sventolando al cielo bandiere arcobaleno. Come Sarah[1] e per Sarah, una ragazza di trincea che ha dato tutta se stessa per affermare la propria libertà.

 

[1]Sarah Hegazi, ragazza egiziana che è stata arrestata nel  settembre del 2017 per aver alzato al cielo una bandiera arcobaleno, simbolo del movimento LGBTQIA+, ad un concerto dei Mashrou’ Leila al Cairo. Durante la detenzione, Sarah ha subito torture e violenze al punto che, dopo la notizia del suo rilascio su cauzione nel 2018 e del suo trasferimento in Canada, è arrivata, nel giugno del 2020, quella della sua morte per suicidio.

 

 

Giacomo Matteucci: Infanzia trascorsa in Toscana prima di trasferirmi a Modena, dove ho completato gli studi liceali. Ho passato gli anni dell’università a Bologna, mia città per elezione, con un paio di soste a Dublino ed Amman, tutti luoghi in cui si è formata la parte migliore di me. Amante delle lingue straniere, costantemente affamato di nuove letture e nuovi studi, sempre alla ricerca di un incontro con l’Altro, in qualsiasi forma si presenti.
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Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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