QUANDO L’ARTE RIFLETTE SU SE’ STESSA: L’ESEMPIO DEL SATYRICON – Matteo Rimondini

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Nel 1981 Italo Calvino pubblicava un articolo su l’Espresso, “Italiani, vi esorto ai classici”, destinato poi a diventare un libro, Perché leggere i classici pubblicato postumo sotto forma di raccolta di saggi nel 1991 da Mondadori, che illustra attraverso diversi punti il valore e il concetto di “classico”. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, recita il punto numero 6, lasciando così aperto lo spazio di dispiegamento e riverbero che un classico detiene. Tutta la tradizione è intrisa di letture e riletture sotto diverse forme d’arte, che permettono di dare nuova vita all’opera in questione e indagarne le trame attraverso gli occhi di artisti recenziori. Questo è ciò che avvenuto nel caso del Satyricon, la controversa opera del poeta latino Petronio. Sullo sfondo di una città greca, emblema sociale e morale del I sec. a. C., hanno luogo le peregrinazioni di Encolpio, uno studente squattrinato che si innamora del fanciullo Gitone, diventando così amanti. A loro si aggiunge Ascilto, un avventuriero senza scrupoli che inizia a contendere Gitone a Encolpio. Il cuore narrativo dell’opera è la celeberrima Cena Trimalchionis,  rappresentazione del sottobosco sociale dei liberti (gli schiavi affrancati) dove il protagonista è appunto Trimalchione, liberto dai vastissimi possedimenti e ricchezze che monopolizza su di sé l’attenzione parlando di filosofia, recitando versi o raccontando storie raccapriccianti. Grazie alla fuga dal banchetto, avviene la scelta di Gitone per Ascilto, che fa precipitare Encolpio in una profonda crisi e dà inizio a nuove peregrinazioni e incontri, fra cui quello con il poeta moralizzatore Eumolpo. Dopo altre avventure, i tre personaggi si incontrano nuovamente ma Encolpio, geloso di Ascilto, decide di imbarcarsi con Eumolpo e Gitone, abbandonando la città. Dopo un sogno premonitore, i tre si rendono conto di essere sulla nave del pericoloso Lica di Taranto, già conosciuto dai personaggi e con cui ha inizio una contesa, ma a causa di una tempesta la nave naufraga e Lica muore. Il romanzo si conclude con l’arrivo a Crotone dei personaggi, e la città viene rappresentata divisa fra cacciatori di eredità e uomini ricchi ma privi di eredi. I tre, allora, decidono di diventare cacciatori di eredi e con le ultime vorticose avventure si chiudono i frammenti a nostra disposizione. Alla fine degli anni ’60 i registi Gian Luigi Polidoro con il suo Satyricon (1968) e Federico Fellini con il suo Fellini Satyricon (1969) decidono di riprendere e rielaborare il romanzo latino. Procederò nell’analisi prima cercando di ricostruire la dimensione narrativa per poi spostarmi su un’analisi più precisa dei versi. L’obiettivo non è certo recensire due capolavori del cinema bensì registrare l’eco dei versi analizzati fino ad ora per intravederne nuove prospettive da diversi punti di vista.

Polidoro decide di dare al proprio film una trama lineare dell’ambientazione tutto sommato realistica mentre la trama si discosta dall’originale specialmente per la morte finale di Eumolpo e Ascilto e per la figura di Gitone. Questi, infatti, viene presentato come una giovinetta travestita che entra in scena durante un tentativo di suicidio poiché era alle dipendenze di Anneo Mela. La dimensione temporale viene chiarita sin da subito: la congiura pisoniana, avvenimento che segna l’apice del principato dispotico di Nerone,  porta alla morte di Anneo Mela, rappresentato come uno zio di Encolpio e questo costituisce l’inizio del motivo della fuga e della peregrinazione. Di questo episodio sono interessanti due fatti: in primis, la scelta di ambientare il film dentro all’interno chiaro contesto politico, mescolando di fatto la realtà storica del terrore neroniano con la narrazione petroniana. Questo conferisce a permeare la pellicola di un senso di instabilità politica e sociale, riuscendo a leggere bene fra le righe il messaggi moralistico contenuto all’interno dell’opera latina. Inoltre, Anneo Mela è un chiaro riferimento agli eventi coevi, trattandosi del fratello di Lucio Anneo Seneca e del padre di Lucano. Sicuramente il regista vuol dare un altro indizio sul contesto storico ma senza decidere di inscenare la morte di Seneca. Suggerisco come ipotesi interpretativa quella di identificare in Seneca e Lucano due esponenti culturali contrapposti a Petronio, il quale non si fa scrupolo di critica, velata o meno, all’interno del Satyricon. Che questo sia dovuto a una adesione più o meno totale dei due allo stoicismo, contrapposto all’epicureismo petroniano, o che semplicemente rappresenti la sintesi di due morti “eccellenti” durante la congiura del 65, il regista non lo chiarisce. Mi sento di sostenere una tesi anti-stoica poiché all’incirca al minuto 40, appare con fare messianico un filosofo di nome Demetrio del Corso, filosofo stoico intento in un’arringa contro “i beni materiali, i templi del vizio e il culto dei sensi e del denaro”, probabilmente una rappresentazione di Demetrio il Cinico, contemporaneo di Petronio e amico di Seneca, il quale costituisce per noi l’unica fonte in merito. A Demetrio del Corso si oppone un gagliardo Encolpio, il quale ne deduce l’idea di un mondo noioso e opprimente. Nel complesso, sembra che i personaggi abbiano forza nel determinare il proprio futuro, siano sicuri nella dimensione in cui sono posti. Al minuto 46, circa, ha luogo una scena dove i protagonisti camminano e discutono lungo la strada che viene sì caratterizzata dalle urla e dai rumori quotidiani, dai raggruppamenti disordinati, dal traffico di animali e persone, dagli sguardi magnetici, ma un occhiolino fra Encolpio e Ascilto all’inizio di questa traversata fa supporre che i personaggi non abbiano, almeno ancora, nulla da temere e che sia tutto sotto il loro controllo. Questa è la cifra della dimensione in cui Polidoro ci fa immergere e permane per tutta la durata del film, anche nelle situazioni negative. Quasi dopo un’ora, ha inizio la Cena, alla quale è proprio Eumolpo a invitare i protagonisti. Il poeta appare a suo agio all’interno del contesto della Cena,  mangia con ingordigia, conosce tutti i liberti e si inserisce nelle dinamiche di questa classe per quanto puntualizzi le ricchezze ottenute da tutti i convitati. Il banchetto è messo in scena in un ambiente verosimile e il vociare non ha un carattere cacofonico fino alla fine della recita di Trimalchione, quando diversi secondi sono occupati dal mangiucchiare. L’entrata di Trimalchione (interpretato da Ugo Tognazzi) coincide con l’ammissione di avere “aria nella pancia”, e da un linguaggio scurrile, contraddistinto dunque da bassa volgarità. Si anima così la Cena e il rumore di sottofondo acquisisce un tratto un po’ più festoso e rumoroso, anche perché Trimalchione riserva ai suoi ospiti diversi scherzi e solo alla fine della Cena, durante il funerale, verrà detto che ogni giorno viene inscenata la stessa farsa.  Il motivo che porta Trimalchione a recitare un epigramma è la notizia che sia arrivata la quinta ora dopo mezzogiorno. Si tratta di una breve rielaborazione poetica riguardo il tempo che scorre e sulla morte che si avvicina per tutti, anche per gli schiavi, definiti “senza anima”. Eumolpo le definisce “solite fregnacce” togliendo ogni tipo di valore universale alle parole che vengono pronunciate. Ciò che permea il discorso di Trimalchione è una paura della morte (“può arrivare da un momento all’altro”) che viene rappresentata dall’entrata di uno scheletro, come negli usi egizi. Questo viene portato all’interno per breve tempo, è di grandi dimensioni e non viene appoggiato sul tavolo e il suo unico scopo è quello di rappresentare la morte, senza nessun riferimento ai suoi significati più profondi. Viene svuotato di tutte le caratteristiche che assumeva durante il simposio, dove era legato al motivo del carpe diem, come reazione vitale all’inevitabile morte, come stimolo a godere della vita, in una dimensione dell’uso quasi spirituale. Trimalchione si nasconde per non vederlo, e insiste soltanto su un’idea superstiziosa, tanto che i convitati si prodigano in gesti e azioni che dovrebbero scacciare la cattiva sorte. Anche se non presenti nel testo di Petronio, Polidoro decide di inserire due considerazione di carattere sociale: il fatto che anche gli schiavi (“cani senza anima”) godano della stessa sorte dei ricchi e il “ragionare da romano”, riassunto nel mangiare senza limiti perché potrebbe essere l’ultimo giorno. Nel complesso il regista sembra sensibile alla natura e alla complessità del momento messo in scena (la battuta finale sul cibo potrebbe essere un elemento) ma, a mio avviso, lascia questi temi sotto una lente contemporanea, che apprezza quella parte del problema più facilmente interpretabile: lo scheletro è un semplice segnale di morte, godere del presente perché il domani è insicuro.

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La riproduzione di Fellini presenta diverse sostanziali differenze e parlare di “dimensione”, nel senso di spazio di riproduzione scenica in relazione all’opera originale, è nettamente più complesso rispetto al film di Polidoro. La narrazione è coerente nella fabula poiché segue cronologicamente le vicende dei personaggi, ma disorganica e surreale nell’ambientazione. La storia prende le mosse da un episodio, assente nel romanzo latino, dalla vendita di Ascilto compiuta da Gitone ad un attore dal nome Vernacchio al quale Encolpio si reca per averlo indietro. Dalla fuga ne consegue prima un passaggio da un aruspice e poi una lunga camminata attraverso la città, simile nella ripresa alla scena di Polidoro ma nel contenuto molto diversa. Anzitutto, camminano insieme Encolpio e Gitone, immersi in una conversazione non udibile e nulla la interrompe, anche se intorno a loro tutto porterebbe a farlo: umanità di tutti i tipi li guarda e li strattona. Ci sono uomini e donne grassi, nudi, malati, semi morenti, vecchi, bambini, soldati intenti in ogni genere di azione, dalle lusinghe alle percosse, dal vivere dentro la propria casa a vendere oggetti. Costoro parlano lingue che si stratificano fra di loro senza lasciare intendere cosa stia effettivamente succedendo. In alcun modo qui, e in tutto il film,  sembra che i personaggi possano incidere sul proprio futuro e che tutte le influenze dall’esterno siano negative e portino nel baratro da cui provengono. Tutti gli sguardi e tutte le movenze di questi personaggi sono sessuati in un senso animale e tutto porta ad un consumo immediato della carnalità, magari perché si ritengono di bella presenza i protagonisti. È dunque un’atmosfera surreale quella che circonda i due fino a che non possono avere il proprio amore, lontani, soli e nel silenzio. Gli spazi sono chiusi e lugubri e lo sguardo dello spettatore non ha mai una via di fuga, segue la sorte dei personaggi, come se il regista volesse comunicare che anche chi guarda fa parte dello stesso inferno. Parlo di inferno poiché lo spazio di scena non solo è al chiuso, ma viene letteralmente rappresentato sotto terra con la ripresa verso il cielo, come se fosse una rappresentazione onirica di un altro mondo ma con tante caratteristiche del mondo reale. Dopo la notte di passione avviene la scelta di Gitone per Ascilto e il terremoto, motivi che spingono Encolpio alla fuga, fino all’arrivo all’atelier di Eumolpo. Qui il poeta è intento in una lunga invettiva riguardo la decadenza contemporanea dove ripercorre i tempi andati e identifica come causa del “letargo attuale” la brama di denaro. Il regista decide di affidargli il personaggio moralizzatore, fedele ai valori romani e all’amore per l’arte e la cultura, a prescindere dal valore economico (“la povertà è sorella del genio”). Nonostante la poca stima, sarà proprio lui a condurre Encolpio, solo, alla Cena. L’opera di Fellini è contraddistinta da una divisione in scene del film, infatti, ogni cambiamento scenico avviene come se si aprisse un nuovo sipario e dà l’impressione di una divisione in capitoli, ognuno diverso nell’ambientazione dal precedente. La scena della Cena Trimalchionis è preceduta dalla prima scena all’aperto (il cammino verso la casa di Trimalchione) dove Eumolpo sottolinea la scarsa cultura del liberto nonostante la quale egli si considera e viene considerato poeta. È solo l’inizio per Eumolpo, ma in questo modo il regista classifica, prima che sia possibile vederlo, il valore delle poesie di Trimalchione. L’arrivo alla Cena rispetta il taglio onirico caratteristico di tutto il film: prima vengono accolti da un corposo gruppo di uomini e donne nudi che all’arrivo di Trimalchione (che saluta Eumolpo come “collega” in quanto “uomo di lettere”) si agita e salta, ma non è possibile, ancora, dare le coordinate precise della dimensione in cui Fellini vuole che ci immergiamo. Tutto rimane sempre sospeso e in tensione, senza mai dare allo spettatore sicurezza sulla sorte dei personaggi, a loro volta così immersi nel loro mondo di intrighi. Grazie ad un altro repentino cambio di scena, i personaggi si trovano all’interno della casa, un altro posto chiuso e angusto, i rumori sono i protagonisti della scena: musica ipnotica, risate sguaiate e tintinnio di posate, fino a che il padrone di casa non riprende la scena (“Anche a tavola i classici ci stanno bene”, dopo una dozzinale citazione riguardo Ulisse). L’occasione per recitare alcuni “versuculi” arriva proprio dopo un fallimento di Eumolpo durante la presentazione di versi latini di autore poiché i convitati iniziano a lanciargli cibo e a irriderlo. La recita è uno dei pochi passi del film in cui viene mantenuto il testo originale e Trimalchione, come nel testo latino, pare essersi preparato la poesia precedentemente. L’accoglienza è gioiosa da parte dei convitati, i quali iniziano a danzare, mentre sarcasticamente Eumolpo afferma di aver visto il nuovo Orazio. In questa prima parte della Cena, Fellini decide di evitare ogni riferimento alla morte e di evidenziare il tratto simposiale e ricco della Cena: le danze sono al limite del dionisiaco e viene mantenuto il senso di sospensione, tensione e sessualizzazione che è stato già osservato. Poco più tardi, circa 5 minuti, il tono e gli argomenti mutano con l’entrata di uno scheletro conseguente alla breve storia della vita di Trimalchione, il quale ordina di preparare i suoi paramenti funerari per la messa in scena della sua morte. Lo scheletro è più piccolo di quello di Polidoro e non sembra che le articolazioni siano snodabili, ma non rappresenta la morte bensì coglie il significato profondo dell’oggetto, senza limitarlo ad essere un vuota rappresentazione del corpo morto. Questa scelta permette di permeare la scena di una propria sacralità, tanto che il brusio di sottofondo si quieta e Trimalchione decide di recitare un’altra sua poesia. Dopo questa, Eumolpo non si riesce a trattenere e inveisce contro il padrone di casa accusandolo di aver rubato i versi a Lucrezio. Vengono infatti inseriti in questa scena i versi presenti a 80.9 del Satyricon che effettivamente sono ispirati a Rer. Nat. III, 55-58. In questo passo, dopo il proemio del III libro, il poeta decide di occuparsi della paura che gli uomini hanno della morte, definita metus Acherontis che intorbida, viene detto, la vita umana.  La scelta di Fellini è deliberata e arbitraria poiché sceglie versi assenti dalla Cena Trimalchionis (sono infatti i versi che sanciscono la scelta di Gitone per Ascilto) ma una scelta del tutto artistica poiché la scena chiude idealmente la Cena (dopo la cacciata di Eumolpo la scena si sposta) e nel citare un autore vicino per alcuni temi e per ispirazione filosofica a Petronio coglie nel segno un tema proprio della Cena. Inoltre, i versi petroniani rimangono coerenti con il tema della Fortuna (Dum fortuna manet, vultum servatis, amici).  La scena è frutto del genio di Fellini e Zapponi e chiude la scena strettamente simposiale della Cena. I registi scelgono inoltre di dare rilevanza visiva a tanti dipinti murali, un esempio più volte ripreso è il volto di Trimalchione in casa propria. Ma è proprio nell’ultima scena che il genio cinematografico si dispiega e dà una lettura, seppur artistica, definitiva dell’opera latina. Il volto di ciascun personaggio incontrato, infatti, prende la forma di una rovina, come se si trattasse di un antico monumento a strapiombo sul mare. Ogni volto si ferma e diventa marmoreo, come le rappresentazioni pittoriche lineari ritrovate a Pompei. E, così, forse, Fellini vede nell’opera di Petronio un grande verità interpretativa: siamo tutti parte di una storia, ed è lecito viverla come se fosse un grande Satyricon.

Foto Matteo Rimondini

 

Biografia:

Matteo Rimondini cresce a Castenaso (BO) e dopo il liceo classico “M. Minghetti” si iscrive alla facoltà di lettere classiche presso l’Università di Bologna, pur mantenendo sempre con il proprio paese un rapporto di intesa e scontro. Organizzatore delle due edizioni del festival letterario “Nubi, lettere dalla periferia” e impegnato nell’approfondimento storico essendo membro dell’Anpi, accanto a passioni squisitamente letterarie, segue con passione temi politici e contemporanei. Attualmente studente Erasmus presso l’università di Heidelberg (Germania), scrive regolarmente sulla rivista “Resistenza e nuove Resistenze”.

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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