Quando il salario della libertà è la morte – Il caso di Ashraf Fayad (Sana Darghmouni)

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La storia della letteratura araba, come altre, è colma di esempi di casi di censura, data la società conservatrice e tradizionalista in questione, a volte dominata da regimi totalitari o dittatoriali. La censura in suddetta società può scaturire da motivazioni di ordine religioso, politico o quando si toccano argomenti considerati tabù come l’emancipazione femminile o l’omosessualità ecc. Infatti tanti artisti, quando questo è possibile, optano per l’emigrazione per poter scrivere e produrre lontano dalle sbarre della condanna e dalla frustrazione della censura, subendo così esilio ed emarginazione nel proprio paese. Anche se forse l’immagine di un boia pronto ad eseguire la pena con la sua spada ci fa pensare ai secoli passati e all’epoca dei califfi e del dominio della religione sulla vita sociale.

Nella società odierna, si può assistere ad alcuni episodi dovuti ad atti di piccoli gruppi, mossi da motivazioni ideologiche. Si tratta ad esempio di un’organizzazione, spesso non legittima, che decide di condannare un autore per la sua opera perché contraria agli ideali stessi di quel gruppo.

Il caso di Ashraf Fayad[1] invece è clamoroso e fa riflettere molto perché non si tratta di una condanna che risale ai secoli passati, né ad un caso di condanna da parte di un piccolo gruppo estremista, bensì si tratta di un artista che viene censurato e, di conseguenza, condannato da un regime, cioè dalla parte legittima e governativa. Dalla parte del potere. La sua opera diventa la sua stessa condanna. Accusato di ateismo e quindi reputato pericoloso per il lettore, viene automaticamente condannato e gli viene richiesto di rinnegare la propria opera, operazione dolorosa per un artista.

Fayad viene condannato alla spada del boia in una prima istanza e successivamente a 8 anni di prigione e 800 frustate perché ha osato criticare la società in cui vive. Una società che ricambia la parola con la morte. Forse perché Fayad è un palestinese, rifugiato in Arabia Saudita, che parla della condizione dei rifugiati vissuta sulla propria pelle in prima persona. Perché esprime i disagi della sua generazione. Perché osa descrivere l’esilio con parole forti e crude:

“L’asilo: è star in piedi in fondo alla fila…

Per ottenere un tozzo di patria.

Star in piedi: è una cosa che faceva tuo nonno…senza sapere il perché!”[2]

O perché ha descritto con libertà e schiettezza il petrolio con parole come queste:

“E’ innocuo il petrolio

se non fosse per la miseria che lascia

a contaminare il mondo”[3]

Qualunque  siano le ragioni dietro alla sua condanna, personali o ideologiche, non si può di certo accettare di vedere un artista subire una tale condanna  per aver scritto poesie. Le parole dovrebbero portare alla vita e non alla morte e alla censura[4].

[1] Per informazioni sul caso si invita a consultare http://www.lamacchinasognante.com/la-morte-e-vetro-la-poesia-e-luce/

[2] L’ultima stirpe dei rifugiati dalla raccolta “Le istruzioni sono all’interno”.

[3] In merito alla preferenza del petrolio al sangue dalla raccolta “Le istruzioni sono all’interno”.

[4] Per leggere alcune poesie del poeta palestinese consultare http://www.lamacchinasognante.com/la-poesia-non-si-frusta-tre-poesie-di-ashraf-fayadh-a-cura-di-sana-darghmouni-e-pina-piccolo/

 

di Sana Darghmouni

 

Per gentile concessione di  tiramentidicultura.blogspot.it http://tiramentidicultura.blogspot.it/2017/03/quando-il-salario-della-liberta-e-la.html , l’articolo è apparso anche nella versione cartacea della rivista.

 

Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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