Profili di Clitennestra tra odio e amore (parte 2) – Caterina Barone

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Clitennestra secondo Marguerite Yourcenar

 

L’odio per Agamennone e l’amore, sia pure contrastato, per Egisto appaiono, dunque, punti fermi nella narrazione del mito nella storia della tradizione classica fino alla svolta sorprendente impressa alla fisionomia della Tindaride da Marguerite Yourcenar che, nella raccolta di prose liriche Fuochi del 1935, le dedica un monologo nel quale inquadra la vicenda in una prospettiva inedita, quello di un amore estremo e disperato nei confronti di Agamennone.

Sfondo degli accadimenti è la guerra turco-greca degli anni Venti, dalla quale Agamennone ritorna dopo dieci anni portando con sé Cassandra incinta di lui. Davanti ai “Signori della Corte” che devono giudicarla dopo il delitto, la regina spiega con accenti dolorosi i motivi che l’hanno spinta a uccidere. Primo su tutti la consapevolezza di non contare più nulla per il marito che lei invece ama ancora profondamente. Non è stato il ricordo del sacrificio di Ifigenia ad armarne la mano, né la passione per Egisto, un giovane debole, che per lei ha rappresentato in quegli anni una sorta di figlio adolescente nato dall’assenza: l’adulterio – spiega – è una forma disperata di fedeltà, perché si ha bisogno di tradire per capire fino a che punto si ami una persona. La determinazione all’assassinio è nata dal disperato desiderio di infrangere la palese indifferenza del marito, che pur essendo a conoscenza dell’adulterio, la ignora totalmente e addirittura ammicca con fare complice a Egisto. Vibra il colpo Clitennestra in un estremo gesto d’amore; la sua è una perentoria richiesta di un sentimento ormai svanito; un modo sanguinoso di costringere l’uomo da lei amato a guardarla un’ultima volta negli occhi.

 

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Dallo spettacolo “Clitemnestra” al Teatro Romano, 7 agosto 2020

Dopo aver declinato l’amore distruttivo di Clitennestra per Agamennone, Marguerite Yourcenar sovverte ancora una volta le carte ed esplora di contro il sentimento che ha unito la Tindaride a Egisto, gettando lo sguardo oltre la superficie della narrazione mitica in un dramma del 1957, Elettra, dal sottotitolo eloquente, La caduta delle maschere. Qui elemento portante è la passione della donna per l’amante: un sentimento autentico, profondo e ricambiato. L’uccisione dell’Atride è stata dettata da una necessità: proteggere il frutto del loro amore, Oreste; una rivelazione che rimescola le carte del mito e ridefinisce i ruoli giocati nella vicenda dai vari personaggi. Nell’opera della scrittrice francese c’è molto dell’omonima tragedia euripidea, ripercorsa con puntuale acribia per proiettarla in una dimensione altra. Così i reciproci tradimenti di coppia che nel testo greco Elettra rinfacciava alla madre, vengono letti in maniera diversa, attraverso le parole di Egisto, portatore di un amore comprensivo e non egoistico.

Nel dramma francese è Elettra stessa a uccidere la madre, strozzandola in un impeto di furore, per scoprire poi che il suo gesto, più che una punizione, è stata una liberazione per una donna minata da un male inguaribile.

 

Il nuovo millennio: tre riscritture

 

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La forza innovativa di Marguerite Yourcenar si riverbera sulle riscritture contemporanee. Ne troviamo traccia in tre recenti pièce teatrali italiane: Il verdetto di Valeria Parrella[1] e Clitennestra deve morire di Osvaldo Guerrieri[2], che si muovono sulla scia della geniale intuizione della scrittrice francese di fare di Clitennestra un’assassina innamorata della sua vittima, e Clitennestra di Alma Daddario[3], che torna all’iconografia tradizionale, collocando tuttavia la narrazione nel quadro di un discorso difensivo come in Fuochi. Tre testi accomunati da una visione alta della donna e da una difesa della dignità femminile nel rispetto di sentimenti e passioni.

 

Il verdetto è un monologo della protagonista sul quale si innestano ricordi struggenti attraverso la voce e il canto di Agamennone. Vi confluiscono più rivoli: dal filone classico, non solo greco ma anche latino, a quello femminista incarnato da Dacia Maraini, da Shakespeare – e segnatamente da Lady Macbeth – all’attualità della cronaca. Nelle sue pagine è l’immagine del “sangue” a predominare: quello versato nelle guerre di camorra e della malavita a cui appartiene Agamennone e a cui è legata la morte di Ifigenia; e il sangue metafora della passione di Clitennestra: «mi muoveva il sangue» ripete ossessivamente la protagonista parlando dell’amore totalizzante, che l’aveva travolta adolescente, quando all’uscita dal liceo aveva incontrato quell’uomo fatidico, che colpito al collo le aveva chiesto un fazzoletto per tamponare la ferita e glielo aveva restituito zuppo.

La precoce gravidanza aveva annullato le resistenze dei genitori borghesi e il matrimonio aveva fatto di lei una donna di camorra, la femmina del boss, la «reggina», come la chiamava il marito. «Lui era Agamennone e io la femmina sua, il mio utero per moltiplicare la sua immagine». La guerra tra bande rivali costringe il boss a lasciare Napoli e a riparare in Puglia, protetto dalla Sacra Corona. Clitennestra riempie la sua solitudine accettando l’amore di Egisto al quale il clan si era rivolto per gli affari spiccioli. Ma non era passione: era «debolezza, stanchezza, comodità». E anche sofferenza perché gli abbracci e le parole di quel giovane uomo le ricordavano gli abbracci e le parole di fuoco, con cui – ripete – «il Mio Uomo mi segnava la carne ogni volta che si rivolgeva a me».

Dalla Puglia Agamennone tornerà solo dieci anni dopo, portando con sé Cassandra, a cui ha assassinato il padre e che ha ingravidato. È un tradimento inaccettabile per quel legame viscerale, assoluto: «Io amavo Agamennone e se non era mio non poteva più Essere». Clitennestra lo uccide quando glielo trascinano davanti tumefatto di botte. Uccide quegli occhi che dal basso la fissano sicuri, «sicuri che l’avrei ucciso e sicuri di muovermi il sangue». E con quel gesto estremo Clitennestra versa il suo sangue perché è a se stessa che ha tolto la vita. «Pensate voi di potermi restituire le mie mani?» chiede ai giudici in chiusura del monologo con un richiamo alla frase pronunciata all’inizio che ci riporta all’ossessione di Lady Macbeth dopo l’assassinio del re Duncan: «Non ci badate…Non badate ai miei guanti, possono sembrare démodé, lo sono, e poi non è stagione, ma è che io non posso più guardarmi le mani».

Che il genere femminile sia sempre vittima, anche quando agisce da carnefice, è l’assunto su cui Valeria Parrella costruisce Il verdetto. In una società prevalentemente maschilista, all’interno di un’organizzazione piramidale come la camorra, le donne devono tradire la loro natura e forgiarsi sul modello maschile, diventando femmine dal “cuore virile”.

 

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         Clitennestra deve morire di Osvaldo Guerrieri è costruito in forma dialogica tra due personaggi, Clitennestra e la sua governante Alcina. A prevalere sono però i lunghi monologhi della regina, che in un tormentoso flusso di coscienza riflette su se stessa senza indulgenza, lucida e spietata nel disegnare il rapporto con Agamennone e la sua sofferta parabola esistenziale segnata dalla barbara uccisione della figlia Ifigenia.

Era un’adolescente felice e spensierata, da poco sposata a un giovane coetaneo, quando fuggì soggiogata dal fascino rude di quell’uomo fiero, più splendente di Giove, che ospite alla sua tavola la guardava con occhi di ossidiana. Agamennone l’aveva rapita il giorno stesso in cui l’aveva conosciuta e lei si era abbandonata fiduciosa, sorridendo «come una stupida al fato cattivo che, per non svelarsi, si era travestito da amore».

L’aveva amato di un amore feroce, fino a quando era tornato dalla guerra con l’amante incinta al suo fianco, una schiava per la quale aveva perso la testa, dimenticandosi di lei. Ad armare la mano di Clitennestra non erano stati i numerosi tradimenti del passato, fuggevoli e violenti come i lampi nelle notti d’estate, né la lunga vedovanza, dieci anni, alla quale l’aveva costretta Agamennone. La disturbava l’umiliazione subita e quella a venire: serva di una preda di guerra. Tuttavia, l’assassinio non l’aveva premeditato. Entrando nella stanza da bagno voleva semplicemente parlare al marito, chiedergli che le spiegasse quale ruolo avrebbe avuto Cassandra nella casa.

A innescare il raptus omicida fu il tono con cui Agamennone le ordinò di insaponargli la schiena, senza dolcezza, né tenerezza come avrebbe parlato a un caporale. «E io, nel sentire quell’ordine, comprendendo immediatamente ogni cosa, misurando la distanza sua da me, afferrai l’ascia appoggiata alla stufa dove ancora ardevano i ciocchi per l’acqua e mi avventai su di lui, lo colpii sulla spalla, sulla schiena, sulla testa, mentre lui mugghiava come un bue colpito a morte».

Non fu un delitto dettato dalla gelosia, ma dall’umiliazione. «Quel giorno, io non uccidevo Agamennone. Uccidevo la sua lontananza, la sua indifferenza, la sua freddezza. Quel che uccidevo serviva a tenere vivo l’amore con cui lui m’aveva rapita al marito adolescente e aveva fatto di me la sua sposa e la madre dei suoi figli».

Dal giorno in cui ha ucciso il marito Clitennestra patisce una sofferenza morale e fisica, ossessionata dai ricordi e dall’immagine di Oreste, che al momento di partire era entrato nella sua stanza e l’aveva guardata, fermo a gambe larghe, spavaldo, stringendo gli occhi omicidi.

Ma nel finale, che si intuisce tragico, Clitennestra appare pacificata e pronta ad affrontare il destino di morte che l’attende per mano del figlio, consapevole com’è della propria colpa e desiderosa di mettere fine al suo tormento amoroso.

 

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Alma Daddario in Clitennestra porta in primo piano le origini antiche dell’odio della Tindaride per Agamennone: l’assassinio del marito Tantalo e del figlio neonato e la forzata unione col re di Argo. Un dolore che la marchia a fuoco, reso più acuto dalla viltà del padre e dei fratelli che non vollero affrontare Agamennone per riportarla in seno alla famiglia. “Prima bottino di guerra e poi regina”, è stata Clitennestra, in un duplice status segnato entrambe le volte dalla perdita di due creature delle sue viscere per mano dello stesso uomo, crudele al punto di abdicare al ruolo di padre per ambizione e ansia di potere. La sua sofferenza di madre chiede vendetta, il solo sentimento che possa consentirle ancora di vivere, sostenuta dal pensiero dell’odore inebriante del sangue che verrà versato.

Accanto a Clitennestra Daddario porta in scena i personaggi protagonisti della saga micenea, prendendo le mosse dalla scelta esiziale di Agamennone (le cui speciose motivazioni vengono all’autrice dal modello euripideo dell’Ifigenia in Aulide) per arrivare al suo assassinio e al conseguente matricidio consumato da Oreste ed Elettra. È attraverso gli occhi di Cassandra che vediamo la Tindaride, stagliarsi nella reggia bella, fiera, piena di odio. Alla profetessa basta uno sguardo, non le servono le capacità divinatorie per capire che non l’avrebbe risparmiata: dopo il re, sarebbe toccato a lei.

La gioia feroce dell’omicidio travolge Clitennestra. Colpisce Agamennone nel bagno con un pugnale una, due, dieci, cento volte, e poi ancora, sotto gli occhi stupiti di Egisto, immobile e tremante. Il compiacimento del sangue la attraversa e la porta a uccidere anche la schiava troiana, la concubina, con un surplus di piacere. I nobili di Micene chi giudicheranno? La regina che ha tradito il suo ruolo? La sposa adultera? La madre vendicatrice? La donna? Partendo da quest’ultimo interrogativo Daddario mette a fuoco i rapporti di genere che legano Clitennestra a Agamennone e a Egisto, da lei entrambi disprezzati: la brutalità e la goffaggine; la belva e l’idiota. Uomini stolti, che hanno creduto di possederla, di imprigionare le sue passioni, ghermendole i fianchi.

Ma per Elettra il padre è un esempio di coraggio, di amor di patria, di difesa dell’onore, e affiancata dal Coro sostiene Oreste nella sua azione: Giustizia, non matricidio, nello spegnere una donna che l’ha sempre odiato, anche quando lo portava ancora nel ventre. Una visione opposta a quella di Clitennestra che parla del figlio con accenti di doloroso amore e rimpianto: «Ho nutrito dentro me il mio destino, / un regalo del mio re che mi trafisse / inseminandomi col seme della morte. / L’ho nutrito e amato: Oreste. / Qui giace la regina dai capelli d’oro / uccisa dal figlio, perché voleva vivere». E in questo suo desiderio di vita Clitennestra ingloba in sé, nel proprio destino, nella vita e nella morte tutte le donne mortali, rese immortali grazie al ricordo, ormai libere e danzanti, che attraverso di lei riacquistano corpo e voce. Ifigenie, Cassandre, Elettre, Medee, Arianne, Antigoni, Ecube, Alcesti / spose, sorelle, figlie, madri, serve e sovrane.

Donne da rispettare, donne da ascoltare.

 

 

 

(dal saggio introduttivo)

Orestiade, di Walter Valeri

 

per gentile concessione

Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, 2021

[1]

  1. Parrella, Il verdetto, Bompiani, Milano 2007.

[2]

Il testo, tutt’ora inedito, è andato in scena, in una produzione della Fondazione Teatro Piemonte Europa, al Teatro Astra di Torino dal 29 marzo al 2 aprile 2017 con la regia di Emiliano Bronzino. Interpreti: Patrizia Milani e Gisella Bein.  Scene di Francesco Fassone, costumi di Augusta Tibaldeschi, luci di Mauro Panizza.

[3]

Il monologo fa parte di una raccolta dedicata a personaggi del mito e della storia: A. Daddario, Oltre la quarta parete, ChiPiùNeArt Edizioni, Roma 2018.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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