Profili di Clitennestra tra odio e amore (parte 1), di Caterina Barone

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Le origini del mito

Di tutte le eroine che abitano il mito greco Clitennestra è la prima a comparire nel panorama della letteratura occidentale. Ne troviamo testimonianza nel primo libro dell’Iliade, 113-15, quando viene nominata da Agamennone che la mette a confronto con la sua amata del momento, la schiava Criseide. Il sovrano rifiuta di restituire la giovane al padre, il sacerdote Crise, che ne chiede il riscatto, perché «mi è più cara di Clitennestra, mia sposa legittima, e non è a lei inferiore per avvenenza, senno e abilità».

Della Tindaride si fa menzione anche in Odissea III, 262-275, dove Nestore, parlando a Telemaco della tragica morte di Agamennone per mano della moglie e di Egisto, la definisce dia, divina, e riferisce come inizialmente la regina rifiutasse un’azione indegna aeikés (v. 266) per poi cedere al giogo della necessità. La radicalizzazione della sua perfidia e crudeltà si compie tuttavia nella stessa Odissea nel libro XI, quando Agamennone racconta a Odisseo, sceso nell’Ade, la propria uccisione (vv. 405-434) per le trame dell’infida consorte, dolometis (v. 422): una cagna, kynopis (v. 424), una donna perfida che, nel momento del trapasso, non gli ha chiuso nemmeno gli occhi e la bocca, e ha trucidato anche Cassandra, vergogna per se stessa e per tutte le donne a venire. (Cfr. anche XI, 196-202).

Prima di arrivare al compiuto ritratto fatto da Eschilo nell’Orestea (458 a.C.), troviamo tracce della sua fama negativa nel Catalogo delle donne di Esiodo (fr. 23a M-W, vv. 27-30), che la definisce uperenora tracotante, e nel fr. 176 M-W (di incerta collocazione) ne denuncia il comportamento dissoluto; nell’Orestea di Stesicoro (fr. 180 D), dove il poeta allude all’inquietante sogno della Tindaride, turbata dal peso morale dell’uxoricidio; nell’XI Pitica di Pindaro1, che al v. 34 la bolla come neles guna, donna spietata.

Clitennestra sulla scena tragica

I fertili rivoli della tradizione confluiscono nella trilogia eschilea dove il poeta di

Eleusi conferisce a Clitennestra una connotazione variamente articolata in cui sulle caratteristiche femminili si innestano tratti tipicamente maschili (gynaikos andoboulon kear la definisce la scolta al v. 11 di Agamennone) in un quadro di conflitto di genere. Ne emerge l’immagine di una donna autorevole e scaltra, abile nell’uso di un logos ambiguo e avvolgente, sposa e madre dai sentimenti forti, sia nell’odio che nell’amore.

Commovente è nell’ Agamennone la tenerezza dichiarata nei confronti della figlia Ifigenia, “frutto carissimo delle mie doglie”, sacrificata come se fosse un animale (vv. 1415-18); 1525-27, parole in aspro contrasto con la spietata allusione che da lì a poco fa alla morte di Cassandra per sua mano, la quale – dichiara senza remore – «a me ha portato in più un gradevole condimento del mio piacere» (vv. 1446-47). Una ferocia pari a quella con cui, nell’apparire sulla scena dopo la strage, rivendica davanti al Coro l’assassinio di Agamennone, descrivendo le sensazioni provate con accenti di esibita sensualità: «Così egli esala la propria vita cadendo a terra, e soffiando un violento fiotto di sangue mi colpisce con le scure gocce della rugiada di morte, di cui io godevo non meno di quanto il campo seminato gode della benedizione della pioggia mandata da Zeus quando sta per sbocciare la spiga» (1388-1392). Il suo gesto feroce, oltre che dalla volontà di vendicare la figlia, nasce anche da una rivalsa tutta femminile: Agamennone, definito con scherno «la delizia delle Criseidi di Ilio», l’ha pure oltraggiata nel ruolo di sposa portando con sé Cassandra come concubina (vv. 1438-43).

Quanto alla relazione con Egisto, in lui Clitennestra vede un modello di fedeltà e un baluardo d’audacia, così che mai la paura entrerà nella casa fino a quando egli accenderà il fuoco nel focolare domestico (vv. 1434-37). E più avanti, al v. 1654, si rivolge a lui con un appellativo, philtate, il più caro tra gli uomini, che ritorna in Coefore 893 nel suo grido di disperazione nell’apprendere la morte dell’amante: «Ahimè, sei morto, mio amato, forte Egisto!»

Il ritratto eschileo è imprescindibile modello di riferimento per le successive riscritture, come è evidente già nelle due Elettra dedicate al racconto del matricidio sia da Sofocle che da Euripide, che scavano nel rapporto madre-figlia e dal confronto diretto tra le due donne, assente in Eschilo, tracciano della Tindaride un profilo ad alta definizione.

La Clitennestra di Sofocle è una donna malvagia: spietata nei confronti dei figli, che ha privato dei loro averi, arrogante nella gestione del potere, sacrilega nelle preghiere agli dèi. Vessa Elettra trattandola come una schiava e sottoponendola a violenze morali e fisiche (cfr. vv. 310-13;) vv. 597-600; 1192; 1196) fino a progettarne la morte (vv. 378-82). Nella sua empietà arriva al punto di pregare Apollo (vv. 637-59) perché le conceda di mantenere il dominio sulla casa degli Atridi e l’opulenza di cui gode e a tal fine auspica che il figlio Oreste muoia senza poter compiere la sua vendetta. Sebbene la regina faccia riferimento a Dike nel prospettare le ragioni dell’omicidio di Agamennone (cfr. vv. 528-551), le sue colpe appaiono preponderanti ed

evidenti e, come le rinfaccia la figlia, è stato il fascino di Egisto, un uomo infame, a soggiogarla.

In Euripide la malvagità di Clitennestra appare per certi aspetti più sfumata: ha sì fatto sposare la figlia a un contadino per allontanarla dalla reggia e ridurla in una condizione miserevole, ma ha impedito Egisto di ucciderla per timore di incorrere nell’odio dei sudditi, commettendo un delitto crudele e ingiusto. Nell’aspro faccia a faccia che precede il matricidio, Elettra rimprovera la madre denunciandone l’avidità e la pochezza morale: Clitennestra è una donna frivola, corrotta, che, dopo aver tradito e ucciso Agamennone, si è impossessata di ricchezze non sue e le ha utilizzate per un turpe scopo, comprarsi un nuovo marito. Quello con Egisto non è un legame d’amore, se è vero, come insinua la giovane, che i due si sono traditi vicendevolmente. Il patrigno è stato stolto a ritenere che una donna fedifraga potesse essergli fedele (v. 918-24); quanto a lui, si è comportato in maniera dissoluta (vv. 945-8). Inaspettatamente, tuttavia, Clitennestra ammette i propri errori e confessa il senso di colpa che la tormenta: “Io non sono contenta, figlia mia, per ciò che ho fatto” (vv. 1105-6). Viene così alla luce una sensibilità affettiva a cui Euripide darà pieno risalto nell’Ifigenia in Aulide, portando sulla scena le radici del rancore della Tindaride nei confronti del marito: il sacrificio della figlia e, prima ancora, la violenza da lui esercitata nei suoi stessi confronti, quando la prese in moglie con violenza dopo averne ucciso lo sposo, Tantalo, e il figlio, ancora in fasce, nato da quell’unione.

Una più sfaccettata modulazione del personaggio viene tratteggiata da Seneca, che come Nestore nell’Odissea, ne descrive nell’Agamennone l’ondeggiare dell’animo tra opposti sentimenti: una vivida fotografia della passione amorosa alla quale non è estraneo l’influsso di Ovidio, in quel volgere di anni cantore per eccellenza dell’eros nelle sue diverse forme. Ciò che colpisce nella tragedia senecana è disperata volontà di Clitennestra di riguadagnare l’onore perduto. La sua coscienza è lacerata da impulsi contrastanti: divisa tra infamia e pudore, la regina rimpiange i buoni costumi di un tempo. Nel suo delirio emotivo vagheggia anche di uccidersi dopo aver ucciso lo sposo. Invano la Nutrice tenta di riportarla alla ragione (cfr. 108-225). Nel successivo dialogo con Egisto la Tindaride fa una disamina impietosa della propria colpa e delle colpe dell’amante, al quale non risparmia giudizi taglienti e parole forti. Lo definisce abile a conquistare con la frode i letti nuziali e capace di dimostrare una presunta virilità solo in amori illeciti. Gli intima perciò di andarsene e lasciare il posto a un vero re e a un vero uomo. Ma quando Egisto si dichiara pronto al suicidio se questo è il suo comando, Clitennestra cambia repentinamente atteggiamento e gli assicura lealtà e complicità (cfr. vv. 295-309). Al momento del delitto, al quale assistiamo nel suo compiersi attraverso la visione di Cassandra, la regina non ha esitazioni, dapprima imprigionando Agamennone in una veste inestricabile, e intervenendo poi armata di scure per assestare il colpo mortale che il vile Egisto, tremante, non è stato in grado di infliggere.

Tra le innumerevoli rivisitazioni del mito degne di nota, nell’impossibilità di ripercorrerle in maniera esauriente, vanno citate due tragedie di Vittorio Alfieri: Agamennone e Oreste. La prima fu pubblicata nel 1783 e più volte rimaneggiata fino al 1788. La seconda, concepita già negli anni Settanta, ebbe forma definitiva nel 1783. Entrambi i drammi offrono motivi di interesse per la prospettiva dinamica nella quale l’autore inquadra la relazione tra Clitennestra ed Egisto. È la passione il segno dominante della Clitennestra alfieriana, in balia dell’amore per Egisto e dell’odio per Agamennone. La regina vorrebbe fuggire col suo amante lontano da Argo, ma Egisto fa leva su i suoi sentimenti, che non contraccambia, per persuaderla a rimanere e a uccidere il sovrano. Un piano subdolo, attraverso il quale otterrà l’agognata vendetta e il potere che bramava. Nel seguito della vicenda, narrata nell’Oreste, Alfieri dedica gran parte del primo atto per raffigurare i rimorsi che lacerano l’animo di Clitennestra, pentita del suo gesto e ormai consapevole dell’estinguersi della passione che l’ha unita al figlio di Tieste. I due amanti litigano, divisi dallo stesso delitto che hanno compiuto. La Tindaride, ossessionata dalla propria colpa, accusa Egisto di averla indotta al crimine. Tuttavia, il suo destino è legato strettamente a quello dell’amante e quando il tirannico re verrà deposto dal popolo in favore di Oreste, rientrato ad Argo, Clitennestra si unirà a lui nella fuga. A ucciderla sarà il figlio, che la colpirà involontariamente, trascinato dalla furia contro l’usurpatore.

Dal saggio introduttivo alla tragedia Orestiade, di Walter Valeri, per gentile concessione

 

Immagine di copertina: fotografia dell’installazione luminosa per la salvaguardia dei popoli nativi, Corporación Traitraico e Delight Lab, Ngen Ko, spiriti dell’acqua.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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