L’ultima raccolta di versi di Giancarlo Baroni “I nomi delle cose” (Puntoacapo, 2020) si assume il difficilissimo compito di scandagliare e conferire unità poetica a una mansione che miti e religioni in molte parti del mondo hanno assegnato nei millenni all’essere umano: quella di dare il nome alle cose e agli altri esseri viventi. In tutto il Novecento, con l’importanza assunta dalle riflessioni sul linguaggio, abbiamo assistito a una problematizzazione del rapporto parola-cosa, basti pensare all’opera di Foucault “Le mots e le choses” che mette in evidenza i rapporti di potere nella genesi e storia delle istituzioni moderne, o ai presupposti su cui si basa “Il teatro e il suo doppio” di Antonin Artaud, nonché tutta la ricerca di Wittgenstein e diversi altri protagonisti del pensiero novecentesco.
Nella tradizione giudaico-cristiana il compito di ‘nominare’ è intriso dallo slancio del dominatore, basti rifarsi alle parole della Genesi ““Dio, il SIGNORE, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui” (Genesi 2:20-21).
Considerato però che la raccolta di Giancarlo Baroni esce nel 2020 in un periodo storico caratterizzato da movimenti che riconoscono l’importanza di un approccio ecologico ed olistico all’operato umano e tendono a decentrarne la posizione riconoscendo l’interdipendenza di tutti gli esseri viventi e no, e ponendosi in ascolto anche alle opere precedenti dell’autore che si interrogano anch’esse su storia e rapporti di potere, non c’è da stupirsi se il poeta apra la raccolta denunciando lo spirito di sopraffazione, e dandogli appunto un nome, quello di ‘conquistatore’:
I battesimi del conquistatore
Montagne laghi fiumi
mano a mano che procede li battezza
con i nomi della sua lingua.
Da domani sarà proibito
chiamare le cose in un altro modo. (pag.9)
Infatti, a mio parere, l’ironia e quell’‘arguzia’ che contraddistingue la raccolta, messe in evidenza da Ivan Fedeli nella nota critica al libro, nasce proprio dal divario tra ciò che l’essere umano si sente ‘autorizzato’ a fare, ciò che ha effettivamente fatto nel corso della storia e quella che potrebbe essere una visione alternativa, e che a volte intravediamo nella bellezza delle opere d’arte, opere della creatività umana, alle quali l’autore nella parte finale dedica una parte considerevole del libro.
L’opera è divisa in 8 sezioni, l’intenzione del poeta riportata nell’intervista realizzata per il sito L’Estroverso il 14 dicembre 2020, era quella di “scrivere un libro che parlasse della nostra esistenza nella sua varietà: l’amore, la morte, la violenza, le sopraffazioni, le speranze, la letteratura, le gioie della vita quotidiana, la bellezza”. Un traguardo indubbiamente molto ambizioso ma che però ha per chi legge lo svantaggio di risultare un po’ dispersivo, cosa che accade, per esempio, quando si arriva alle parti che occupano il centro del libro “Siete voi che amiamo”, “Solo chi rasserena amo”, “L’amore ha la stessa verità”. In una futura edizione, queste sezioni che sembrano un po’ esulare dal progetto unitario della raccolta potrebbero essere raggruppate in un libretto a sé stante, in grado di restituire meglio il loro valore intrinseco.
Procedendo con ordine cercherò di concentrarmi sulle sezioni che ritengo più incisive, cioè “La polvere di cavalieri amici”, “Un seme tra le mani”, “La partenza del padre”, “Le trappole di Rauschenberg”. Partendo dall’ambizione di dare un nome alle cose, nella prima sezione “Polvere di cavalieri amici”, la prevalenza di brevissimi componimenti in distici e terzine le conferisce l’effetto glossario, o per chi li ricordasse ancora, richiama i vecchi sistemi di catalogazione delle biblioteche, le schede sintetiche conservate in cassetti lunghi e stretti, che in pochissime parole, le più antiche scritte a mano, quelle più moderne battute a macchina, davano una descrizione del libro.
Questa sezione dal sapore aforistico, parte trattando proprio il tema della dominazione dell’essere umano sugli animali, portando subito il discorso sul loro sfruttamento a scopo economico, la loro mercificazione, la loro ‘cosificazione’ elefante = avorio, che già nel nome elimina qualsiasi riferimento all’origine vivente del ‘materiale’:
Avorio
La matriarca guida il branco
un elefante in fila all’altro
fino alla pozza dove sta versando
veleni un bracconiere. (pag. 12)
Da questa iniziale sopraffazione, anche linguistica, degli animali si passa quindi a quella dell’essere umano sui suoi simili tramite la guerra; poi tutto il glossario/nomenclatura delle parentele e delle gerarchie umane, proseguendo con una carrellata sui diversi sistemi di convivenza e conflitto, con tableaux molto incisivi sul feudalesimo, i suoi oggetti e tipologie umane, quindi Baroni ci presenta pennellate di versi su Duchi, Gendarmi, Il castello (con riferimenti a Kafka). Interessante che subito dopo vengano ‘nominate’ le separazioni e battezzate Frontiera, Confini, Limiti in quadretti poetici di grande concretezza. Il poeta esplora l’intero campo semantico dotandoci di metafore, immagini e situazioni ben differenziate, con una moltitudine di richiami alla nostra attualità:
Frontiera
Una striscia di terra ci separa
loro seppelliscono delle mine
noi trappole micidiali. (pag. 28)
Confini
Cade un chicco cresce una risaia
ai confini premete per entrare
in questo paradiso. (pag. 29)
Limite
Si sfiorano senza toccarsi
indice contro indice
una distanza incolmabile. (pag. 30)
Si passa poi ad altre nomenclature guerresche, Fronti opposti e Zona franca, e in conclusione la poesia che riporta lo scontro verbale tra due visioni del mondo incarnato nelle pronunciate nel ‘teatro’ di guerra: è una guerra di parole in corsivo, quelle del buon senso che inducono alla sopravvivenza pronunciate in un registro famigliare suggerite ai soldati in prima linea e quelle retoriche di chi riveste ruoli di autorità e che si intuisce siano che manipolano e puntano sulla paura).
Pietà in trincea
Basta non avanzate
smettete di farvi massacrare
ma alle nostre spalle gli ufficiali gridano
la pietà è il nemico peggiore. (pag. 37)
Seguendo con coerenza la struttura poetica della prima parte, anche la seconda, “Un seme tra le mani”, è caratterizzata in prevalenza da brevi tableaux, iniziando stavolta con considerazioni poetiche legate all’antropologia e alla storia. Quasi a riagganciarsi al presagio di morte dell’ultima poesia Trincea” che evoca i massacri di guerra, la sezione si apre con il componimento “Come fantasmi furiosi” che contrappone i morti ai vivi, introducendo paure e piccole ripicche per poi, in seconda battuta, offrire uno scorcio dell’intimità del mondo dei morti intenti a raccontarsi:
Che renda sopportabile l’aldilà
Detesti a tal punto il dolore
che del tuo hai scelto di non parlare.
Dici succederà anche troppo
quando da sottoterra
dovrai raccontare i motivi della tua morte
alle anime numerose che in ascolto
a turno riferiranno i loro.
Perlomeno ti auguri si possa
ogni tanto variare
inventando una versione inedita
immaginando qualche vicenda avventurosa
che renda più sopportabile l’aldilà.(pag. 42)
E il concetto di invenzione e creatività che viene introdotto in questa poesia avrà largo sviluppo nella sezione finale dedicata all’arte. La vivacità del mondo dei morti che caratterizza questa sezione, con una concretezza tutta sua, la propria galleria di oggetti e concetti da definire “Sarcofago” “La tomba del re” “Avviso ai saccheggiatori di tombe” (che con un voluto anacronismo riporta al digitale rimpiazzando le ‘maledizioni’ incise a quello scopo sulle porte delle tombe), ha dei precedenti nell’opera di Giancarlo Baroni: mi riferisco alla sua raccolta “Le anime di Marco Polo”, recensita alcuni anni fa in questa rivista da Reginaldo Cerolini.
Il seme nominato nel titolo della sezione è il tramite per riportarci nel mondo dei vivi, e in questo ultimo componimento della sezione, il ‘noi’ diventa meno spersonalizzato, la poesia assume toni elegiaci, potrebbero essere i membri di una famiglia raccoltasi in un giardino cercando l’alleanza della natura per lenire il distacco, dando nome a questa modalità di continuità nel tempo con uno spirito ben lontano da quello di sopraffazione :
Un seme fra le mani
Ti seppelliamo con un seme fra le mani
spunta dal suolo germoglia cresce
ti fa ombra d’estate
le foglie ti coprono in autunno
lo battezziamo col tuo nome gli parliamo (pag. 61)
Questa ricreazione di uno spazio intimo si sposta dall’esterno all’interno di una stanza nel primo e unico componimento della sezione successiva, “La partenza del padre”. Nella poesia “Con l’anima dentro la stanza” purtroppo si potrebbe descrivere le modalità di dipartita di gran parte di una generazione di anziani che abitava in prossimità del poeta, a causa del Covid. L’osservazione del trapasso, vissuta da una certa distanza (come non possiamo nemmeno fare più oggi) potrebbe apparire clinica in un primo momento, con l’annotazione del corpo che non esegue gli ordini del cervello, e la descrizione dei movimenti involontari, ma si conclude in maniera accorata con un’immagine molto suggestiva ed elegiaca. “Da quando ti sei placato / corre l’anima dentro la stanza” (pag. 55).
L’interno appare in uno dei componimenti della sezione finale, “Le trappole di Rauschenberg” come spazio però creato dall’arte e nella bellezza del quale potersi perdere:
[…] occhio al chiodo che ti punge
al vetro che riflette
le tue esperienze. Tocchi per credere
sei dentro al mio quadro. (pag. 121),
In questa sezione finale i mondi da battezzare si dipanano in una carrellata ecfrastica su 36 pittori che spaziano nei secoli, nelle località geografiche, nelle loro traversie quotidiane, e si dà nome e definizione anche ai loro sguardi e alle loro tecniche. Tra i tableaux più interessanti quelli che riguardano Giorgio Morandi, Lucio Fontana, entrambi componimenti che suggeriscono i varchi resi possibili dall’arte, e Basquiat, (quest’ultimo a conclusione della raccolta e con accenni molto espliciti al legame arte – denaro, ancora una volta un dispositivo di dominazione, quasi a chiudere il cerchio dei conflitti e delle contraddizioni suggeriti all’inizio della raccolta).
Morandi
Astri fissi dalle forme familiari
nel silenzio assoluto della stanza
in via Fondazza dentro l’infinito. (pag. 112)
Lucio Fontana
Vedi sangue che cola?
lacero lo spazio così affiora
il bisbiglìo del cosmo. (pag. 116)
Basquiat
[…] talento ereticovenire applaudito speculate
mercanti dollari dollari
mi compero la roba dormite sulle tele
incubi primitivi graffi
scarabocchi infantili occhi
gialli del lupo Aiuto urlo
da vivo esaltatemi (pag. 122)
Giancarlo Baroni è nato a Parma, dove abita, nel 1953. Ha pubblicato due romanzi brevi, qualche racconto, un testo di riflessioni letterarie (“Una incerta beatitudine”) e sei libri di poesia. Le ultime quattro raccolte di versi: “Cambiamenti” (Mobydick, 2001); “I merli del Giardino di san Paolo e altri uccelli” (Mobydick, 2009; nuova edizione illustrata e ampliata, Grafiche STEP, 2016); “Le anime di Marco Polo” (Book, 2015); “I nomi delle cose”, (puntoacapo editrice, 2020). Ha coordinato, assieme a Luca Ariano, l’antologia “Testimonianze di voci poetiche. 22 poeti a Parma” (puntoacapo, 2018). Nel 2009, 2010 e 2011 ha letto a “Fahrenheit” (Rai Radio 3) diverse sue liriche, alcune in occasione del Festival della Filosofia di Modena. Per quasi vent’anni ha collaborato alla pagina culturale della “Gazzetta di Parma”. Per la rivista on line “Pioggia Obliqua. Scritture d’arte” cura una pagina intitolata “Viaggiando in Italia”; collabora a “Margutte. Non-rivista on line di letteratura e altro”. Poeta per passione e fotografo per diletto, ha pubblicato tre piccoli libri fotografici: “Sguardi dell’arte”, “Bologna” e “Due volti di Parma”; tutti e tre fuori commercio.
Immagine di copertina: Illustrazione di Giovanni Berton.