Le tre poesie che riproponiamo per la loro profetica e drammatica attualità sono state consegnate dall’autore ai redattori della rivista Sul Porto, del fare cultura in provincia, nel mese di maggio 1974, e successivamente pubblicate a Cesenatico nel giugno dello stesso anno.
DOMANDE DI UN COMUNISTA COMUNE
Amendola in Belgio.
Di buon umore, a fianco
di Berlinguer e altri compagni
(nel rispettoso televisore).
Domandarsi perché ride.
Risate da congresso
(interno di una cerchia) ecc.?
I cattivi sono anche stupidi.
Ridere di loro con commiserazione.
Fasto del “compromesso storico”.
A Napoli i vecchi assassini fascisti
cercano di prendere in mano la situazione.
Non hanno niente da perdere. Sono realisti.
Io, comunista comune,
non tesserato ma rispettoso comunque
d’ogni istituzione, mi chiedo
se i fascisti siano al servizio
di qualcos’altro che il Capitale, ecc.
E al servizio di cos’altro
siano i democristiani al potere.
Impeto dello sviluppo.
Inserirsi nello Sviluppo storico.
Inserirvi la vita degli operai
e la cultura umanistica.
Imporre l’esigenza
dei beni reali,
sottoporre a inesausta critica
i profitti e gli investimenti.
Accettare la storia, insomma.
La storia del Capitale
che dilaga oltre la sua rivoluzione.
(Dimezzare dunque la lotta di classe).
Ma – anomalo sull’anomalo –
a una ricchezza anomala
forse succede un miseria anomala.
(Questa storia anomala che sia quella vera?)
No, Amendola e Berlinguer
Non vogliono la miseria,
non vogliono regresso e recessione:
la parola d’ordine è ”Avanti”,
naturalmente, ma se
regresso e recessione
diverranno realtà
batteranno i piedi per terra?
Prima, ciò che restava da fare
era salvare il salvabile,
integrare la civiltà tecnica
con l’umanesimo marxista.
(Integrare i profitti
con giusti salari,
integrare la corsa al consumo
con la coscienza politica).
Adesso, sull’orlo dell’abisso (?),
sembrerebbe trattarsi solo
di mantenere l’ordine
(o evitare disordini).
Diamo, diamo una mano
ai veri fascisti
contro quelli anacronistici
provocatori di disordini a Napoli.
I fis dai puòrs o a trimin
o a tazin coma i mej
fis dai siòrs. Opùr
a odin e a dispresin
coma i pèsul fis dai siòrs. (1)
Uomini di Potere
che non si curano di questo,
i leaders comunisti ridono nel Belgio.
- I figli dei poveri tremano o tacciono come i migliori figli dei ricchi, oppure odiano e disprezzano come i peggiori figli dei ricchi.
VERSI BUTTATI GIÙ IN FRETTA
Non sanno vedere
la trasformazione
degli operai, perché
non hanno alcun interesse per gli operai.
Non si accorgono
delle facce dei ragazzi
perché non hanno alcun interesse
per i ragazzi (non hanno neanche
occasione di vederli).
Spesso mi sento stringere
il cuore difronte alla santità
della gente: in fondo
accontentarsi di mille lire di più
in saccoccia, è una forma
di santità. Ma mi sento
anche stringere il cuore
di fronte alla paura
degli intellettuali comunisti
a essere anche un poco,
o solo idealmente, disubbidienti.
Guardano con uno spavento
misto di ammirazione e odio
chi osi dire qualcosa di opposto
all’opposizione istituita.
Mi chiedo cosa temono.
Si tratta dell’antica paura
di essere lasciati indietro dall’orda?
Si tratta di umiltà?
VERSI SOTTILI COME RIGHE DI PIOGGIA
Bisogna condannare
severamente chi
creda nei buoni sentimenti
e nell’innocenza.
Bisogna condannare
altrettanto severamente chi
ami il sottoproletariato
privo di coscienza di classe.
Bisogna condannare
con la massima severità
chi ascolti in sé ed esprima
i sentimenti oscuri e scandalosi.
Queste parole di condanna
hanno cominciato a risuonare
nel cuore degli Anni Cinquanta
e hanno continuato sino ad oggi.
Frattanto l’innocenza,
che effettivamente c’era
ha cominciato a perdersi
tra corruzioni, abiure e nevrosi.
Frattanto il proletariato,
che effettivamente esisteva,
ha finito col diventare
una riserva della piccola borghesia.
Frattanto i sentimenti
ch’erano per loro natura oscuri
sono stati investiti
nel rimpianto delle occasioni perdute.
Naturalmente, chi condannava
non si è accorto di tutto ciò:
egli continua a ridere dell’innocenza,
a disinteressarsi del sottoproletariato
e a dichiarare i sentimenti reazionari.
Continua ad andare da casa
all’ufficio, dall’ufficio a casa
oppure a insegnare letteratura:
è felice del progressismo
che gli fa sembrare sacrosanto
il dover insegnare ai domestici
l’alfabeto delle scuole borghesi.
È felice del laicismo
per cui è più che naturale
che i poveri abbiano casa
macchina e tutto il resto.
È felice della razionalità
che gli fa predicare un antifascismo
gratificante ed eletto,
e soprattutto molto popolare.
Che tutto questo sia banale
non gli passa neanche per la testa:
infatti, che sia così o che non sia così,
a lui non viene in tasca niente.
Parla, qui, un misero e impotente Socrate
che sa pensare e non filosofare,
il quale ha tuttavia l’orgoglio
non solo d’essere intenditore
(il più esposto e negletto)
dei cambiamenti storici, ma anche
di essere direttamente
e drammaticamente interessato.
Pier Paolo Pasolini, Chia 1974
P.P. Pasolini con i redatori di Sul porto, Chia 1974, dall’archivio personale di Walter Valeri.