Dopo una guerra nessuno può essere obbligato ad amare.
Amare, questa parola risuona vuota, fluttua nell’aria come se non la conoscessi, senza che possa entrare in te. Come se non l’avessi pronunciata mai. E un’altra appare e si ripete. Un tentativo affinché la tua terra nasconda e neghi. Polvere senza ossigeno. Fonte del suo potere la tua ferita, la ferita della figlia. Fonte della sua miseria il tuo sorriso, il sorriso della figlia.
Tutto il Perù sommerso da una pietra di carta.
Oh, innocente Resigaro! Chi sono io? Forse sono l’ombra di Caral che è venuta ad abbracciarti. O forse sono la fredda anima di Arana che è venuta a chiederti perdono dal Putumayo. So che le mie mani sono di polvere e il mio ventre è secco come le ossa dei miei antenati. So che ci fu un cronista che ci mentì su di noi. So che creoli, sacerdoti, viceré e presidenti urinarono su ciò che fummo. So che una denominata Repubblica ci ha consumato fino al punto dell’oblio. Ma adesso sono qui attraversata da tutte le mie generazioni conquistate e conquistatrici; schiave, servili e libere; eroiche e sagge; ancorate alla terra, al mare e al fuoco, accanto a tutti il loro sangue. Sono qui per ricordare la patria invisibile dell’infanzia. Sono qui per sapere finalmente chi siamo. Cosa è rimasto di noi in mezzo a tutta la foschia di Lima? Non sapere come ti chiami, né cosa sei stato, né cosa hai fatto. Camminare perduto come un corpo che sa solo iniziare e non impara niente. Sono state le eco della rovina il mio risveglio. Sappia il mio destino cucire i brandelli scoloriti della nostra bandiera. Darle materia e forma. Non scomparire.
La pietra è piccola e su di essa sono scritti milioni di nomi.
In Perù la sacralità pesa e ci fa male. Come un enorme ago invisibile ci cuce, uno alla volta. A quest’ora, in questo giorno, muore, come figlia dei secoli, la nostra solitudine. Il sale come uno stato di grazia. Non c’è un Dio che parli dentro.
Uno di quei nomi è quello di mio padre: Carlos Alfonso Orbegoso Velezmoro.
Sotto quale huaca nascosta, questo paese. In quale colore di pelle, la sua marcia da nessuna parte. Quali acque fenicottero e volpe bevono dallo stesso pozzo. Sul fiume viaggia l’indio sulla sua canoa. Albero della china, le tue foglie coprono la nostra mancanza. Pronuncia questo nome. Birú Perú. Non lo riconosciamo. Quanto nulla abbiamo costruito. Quanti huaycos di parole, come bambini che imparano a scrivere.
Lui è morto come gli altri. E mi ha chiesto di parlare, di raccontare la sua storia.
Ripeti la parola Perù fino a dimenticarla. Patria, assenza di metafora. I nostri libri sono scritti per non riconoscerci. I nostri libri così bianchi e noi così rossi. Se qualcuno, forse qualche figlia, potesse affondare l’asta nel colle nuovo. Se qualcuno, forse qualche figlio, volesse mostrarci il mare nostro. Aggiungi il tuo nodo al quipu, entra nella sua poesia.
Non c’è riposo per colui che lavora, per colui che non ha saputo fare altro in tutta la sua vita.
Il corpo peruviano. Rammendo complesso, trapanazione, foschia umida di quelli senza nulla e i loro quattro venti. Il nostro embrione non deve essere solo muscolo. La forza annienta i migliori. Bisognerà fuggire dal suo temperamento sordomuto. Passeranno i secoli e il nostro spirito divagherà all’interno del lento sangue del polso militante. Ora torno. Venivo dall’averno e ti incontrai cielo sepolto sommerso come molte altre anime che si erano perse nella loro preghiera. Adesso come il fiume che parla starò zitta e mai più accenderò la musica della nostra ucronia.
Nell’altra vita padre, continui a lavorare, non sai dipingere, né comporre, né scrivere una poesia.
Perù, avanzo con i tuoi vivi, con i tuoi morti. Sul Pacifico, che raccoglie il fiume di coloro che pronunciano parole private di amore. Cammino a issare la bandiera del nostro castigo, esco da te, cado sul peso del mio esilio. La mia anima trafitta da pecora, scimmia e avvoltoio. Una sillaba la trattiene. In essa, più grande il seme del mais verso il sole. La bambina comunica da sola. Senza parole, si pensa e si immerge.
La fotografia dei tuoi cinque figli cade in un pozzo scuro e profondo. Hai dimenticato le loro facce, il loro modo di camminare, di mangiare, la loro età, ma il tuo amore è ancora intatto.
Perù no: le tue culture ti camminano: arrivano insieme, serene, insolate e tremanti, vengono tenebrose le tue culture.
Le tue culture spezzate, come il nocciolo tarlato e amaro, come un cielo sepolto nel seme del mais, senza verbo, senza tracce europee, senza compassione: lievi, liquide, imbottigliate, sanguinate culture. Culture foschia. Culture guano. Quasi culture.
Padre, sono la donna che fu schiacciata da un suono.
di Teresa Orbegoso, per gentile concessione dell’autrice editorial Buenos Aires Poetry, 2016
Teresa Orbegoso è nata a Lima nel 1976. Ha una laurea in giornalismo, è una ricercatrice sociale e scrittrice. Attualmente sta conseguendo un master in scrittura creativa presso l’Università Nazionale Tres de Febrero di Buenos Aires, Argentina. Ha pubblicato diversi libri di poesia: Yana Wayra (Urbano Marginal, Lima, 2011), Mestiza (Edizioni del Dock, Buenos Aires, 2012), La mujer de la bestia (Trópico Sur, Maldonado, 2014); Yuyachkani assieme all’artista Zenaida Cajahuaringa (La Purita Carne, Lima, 2015) y Perú (Buenos Aires Poetry, 2016). È stata invitata a vari festival internazionali di poesia. Le recensioni ai suoi libri di poesia sono apparte su numerose riviste latinoamericane.
Traduzione di Roberto Giovanetti. Nato in Italia nel 1966, ha vissuto trent’anni nel suo paese natale. Attualmente vive a Buenos Aires. Traveler, insegnante, assistente sociale. Lavora come traduttore ed educatore popolare. È autore del libro di poesie “Trapianto”, edito da Editoriale Clara Beter (Buenos Aires, 2015).
Foto in evidenza di Teri Allen-Piccolo.
Immagine dell’autrice tratta dal sito Fundación Arte de las Américas.