Periplo delle Repubbliche Marinare: Un viaggio nell’epoca della chiusura dei porti PARTE PRIMA – Giovanni Asmundo

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Periplo delle Repubbliche Marinare

Un viaggio nell’epoca della chiusura dei porti PARTE PRIMA (work in progress)

Da Venezia ad Amalfi, attraverso Firenze, Pisa, Livorno, Genova, Milano, Monselice, chiudendo il primo cerchio a Venezia

 

Premessa

Questo progetto di viaggio/libro nasce da un’indignazione iniziale e da successive riflessioni, come desiderio di risposta civile alle politiche neorazziste e neopopuliste alle quali assistiamo, ma soprattutto alla disumanizzazione dilagante tanto nel mondo reale quanto nella sua risacca virtuale.

Il giorno prima di una partenza per la partecipazione a un convegno che si sarebbe tenuto a Livorno, straordinario porto franco del Mediterraneo, si è affacciata alla mente un’idea che mi ha subito entusiasmato. Un periplo delle Repubbliche Marinare, iniziato ad aprile 2018 e tuttora in corso.

Ho sentito l’impellente desiderio di costruire un itinerario di viaggio e rilettura della realtà che tentasse di restituire una precisa presa di posizione e un’immagine della complessità attuale. E man mano che attraversavo l’Italia, sentivo l’urgenza di narrarne i porti aperti, antichi quanto contemporanei, in un’epoca che li vorrebbe chiusi.

Un viaggio su mezzi lenti e a piedi, riflessivo e quanto più possibile attento, il quale – tra un intero taccuino di appunti e centinaia di fotografie – si è presto trasformato in un reportage in forma di racconto. Viaggiavo tra le polemiche mediatiche legate all’Aquarius e alle ONG di soccorso nel Mediterraneo, al censimento dei Rom, alle dichiarazioni sulla scorta di Roberto Saviano et similia. Sono partito vestendo l’umore degli ultimi mesi, desolanti e disarmanti dal punto di vista politico e sociale; ma sono tornato rincuorato dalle realtà attraversate.

Adesso, dunque, sento la necessità di trasmettere ad altri il senso di apertura provato dopo settimane di avvilimento politico, né mitizzando né demistificando, semplicemente raccontando una storia. Trascriverò il mio taccuino per capitoli, come un libro. Consapevole dei limiti di una visione parziale, ma spero il più possibile approfondita e disincantata; di certo sincera.

Ringrazio di cuore le amiche e gli amici senza i quali questo periplo non sarebbe stato possibile. Nota: tutti i testi e le foto del presente reportage sono di Giovanni Asmundo, riutilizzabili in copyleft ma con obbligo di citazione dell’autore e della fonte, preferibilmente corredata da link.

 

Capitolo I. Venezia

16.06.2018

Venezia

Ebbene, prende corpo questa nuova avventura, ricevuti i migliori auspici di vento in poppa. Levo l’ancora e salpo a gonfie vele. L’idea del periplo ha preso forma parlando con F. prima di una traversata da San Giuliano al Lido (la collina aromatica, la luce che si specchia sulle acque della laguna e sul rame dei campanili). E si è concretizzata fra il tramonto e il crepuscolo, nei pressi della bocca di porto di San Nicolò, parlando con D., C. e P., quando, piuttosto affaticato dalla giornata, seduto sul bordo del canale, i colori arancio e viola del sole morente tingevano le due acque mescolate del mare e della laguna, scolpendo le nuvole più terse che avessi mai visto in estate a Venezia. Tra giorno e notte, tra passato e futuro, con le palme delle mani aperte sulla pietra d’Istria che rilasciava il suo calore, confine tiepido e morbido tra terra e acqua, tra due sponde d’Adriatico, condizione liminale racchiusa già nella massa carbonata e bianca di sole e di tempo.

 

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Qui, all’ultimo lembo di mondo, in finis terrae. Di fronte alla cupola di San Pietro di Castello, alla bocca dell’Arsenale che non accoglie più galeazze ma è confluenza di opere d’arte e d’architettura, un delta di flussi d’idee nel mondo globale; poco discoste altre bocche, le fauci dei leoni e dei cannoni del forte Sant’Andrea, con la sua porta di mare di Sanmicheli che si ricongiunge idealmente con la Porta di Terraferma di Zara. E alle mie spalle la caserma Pepe, ritaglio quadrato di luna e stelle, accampamento popolato di fantasmi; e le dune buie e la spiaggia fresca di brezza, su cui brillano i brocchieri dei crociati moderni, in attesa di salpare per la battaglia di Lepanto. Non prima, tuttavia, di avere trascorso dei mesi nel porto di Messina, insieme a tutte le flotte del Mediterraneo europeo che si apprestavano allo scontro con quello asiatico, eterno destino dal finale di tragedia eschilea. Il grande carenaggio di Messina, storia poco narrata, occasione eccezionale e irripetibile per la mescolanza di canti, sapori, lingue.

Messina. Per una curiosa coincidenza, oggi ho ricevuto delle belle foto di Scilla e Cariddi, con una carontica nave-traghetto diretta al porto di Zancle omerica, sicula e greca, poi divenuta la Messene degli stratigoti, cuore dei commerci mediterranei e delle loro contaminazioni prima dell’avvento delle Repubbliche Marinare. Ammiccano le stelle sul bianco campanile codussiano di San Pietro, che a sua volta ammicca al faro di Alessandria. Accanto a noi quello di San Nicolò che, illuminato, ricorda la funzione di landmark alla bocca di porto per i naviganti da accogliere, mi riporta alla mente il campanilefaro di Madonna dell’Angelo a Caorle, di qua dal fiume e dagli alberi, faro laggiù ancora in uso, lambito dalle spume ed eroso dalla brezza salsa. Quante ignote Madonne lignee giunte dal mare, quanti Santi in casse di legno o nascosti in carene! Sbarcati sui lidi delle coste bizantine dell’Adriatico, dell’Egeo, del Tirreno… vorrei leggerli quali metafore della sacralità dell’approdo, della corporeità del legno naufragato. E poi il ritorno tiepido nella notte, dalla bocca di leone marina della Serenissima verso le isole e il periplo nascente. Nei giorni dell’Aquarius, del furente dissociarmi dalla propaganda antisoccorsi e antiaccoglienza del Governo e della folla neorazzista, man mano che lo progetto e lo improvviso, quello che ho iniziato mi appare un viaggio sempre più simbolico.

Sento il mare, la sua risacca, mi accontento della laguna placida sul vaporetto a luci spente; e poi la notte, da un tavolino di fronte a bronzi, marmi e ori antichi, seguendo il primo raggio di un’alba nuova.

 

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Un’alba che bagna le colonne d’Ercole della Piazzetta, scolpisce le statue di San Teodoro e San Marco, drago e leone, la porta del mare e dei plurimi Occidenti, così come del Levante e del vasto e lontano Oriente. Sciabordano le onde sotto le gondole odierne e scricchiolano le cime degli scomparsi mercantili ormeggiati, in quest’ora pre-turistica, mentre si affievoliscono le voci dalmate, armene, ebree, tedesche, egiziane, greche, siriane, ungheresi, olandesi e turche, sulla Riva dei Schiavoni, tra casse e animali, fango e preziosi, tra pittori, mercanti, marinai e scaricatori giunti da ogni dove. Le catene sul Canal Grande sono slacciate, il libro è aperto tra le zampe del leone, pax tibi Marce eccetera, il Santo è addormentato sulle barene, tra i canali salmastri di un paesaggio vuoto, silente, intonso. Con la luce ignota che scivola sulle colonne giungo da Istanbul, Costantinopoli, Nea Roma, Ilio, Atlantide. Dal confine spalancato alla brezza di ogni mare e alterità, salpo idealmente, ancora una volta.

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Capitolo II. L’Arno, Firenze, Pisa

17.06.2018

Venezia e Mestre

Sospinto dal grecale e dall’alba, attraverso lentamente Venezia a piedi e la laguna in tram, quindi il paesaggio della realtà metropolitana della città, complessa e articolata. Recuperata la valigia, scivolo accanto al mercato di Mestre, ancora silenzioso, agorà multiculturale quotidiana, costruita sulla coesistenza pacifica, tra i più interessanti e vivacemente integrati mercati del PaTreVe. Cuore della città incuneato tra i due bracci del fiume Marzenego, ma lontano dai riflettori, spazio collettivo in cui pessàri e frutaròli, le mani tinte di dialetto ed eredi delle marinerie e dei contadi veneti, oltre la conflittualità della vendita scherzano con pescivendoli e fruttivendoli bengalesi e pakistani, nella reciprocità di risa e pacche sulle spalle. E salgo sul primo treno del viaggio, alla volta di Firenze.

Firenze

A Santa Maria Novella, tra le care barre d’ottone della stazione di Michelucci e l’ancora più cara vela di pietra dei Rucellai, gonfia di vento fortunato sulla facciata albertiana della chiesa, mi si riempiono gli occhi e la bocca storta di sale.

Per un’incredibile coincidenza riesco a incrociare, in questa Firenze nodale, il mio amico C. e sua sorella M., originari di Palermo e che attualmente vivono a Milano, i quali stanno per ripartire verso nord; li raggiungo per un saluto in via Nazionale, arteria della città contemporanea, le cui bocche più o meno ottocentesche di porte e vetrine si aprono su una mescolanza di salottini, negozi di catene globalizzate, androni anodizzati e condizionati, locali vegani per centrifughe, sprazzi di vecchio e selvaggio west, trapiantati angoli di Cina. Salvato, stamattina, dallo zucchero dei miracolosi Savoiardi di C. (la mente che vola al Gattopardo), giungo alla pietas d’ottone del Battistero, alla genialità della Cupola e ai marmi tenui del campanile di Giotto. Non scenderò in dettagli rispetto al peregrinare per la città tra molte memorie personali.

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Riesco ad arrivare, come da tradizione, fino al lampredotto preferito, in via degli Albizi, consigliatomi anni fa dall’amico G. Lì divido una seggiolina d’appoggio per un bicchiere di rosso con una coppia toscana, chiacchierando e viaggiando dalla sòpa de trìpe veneta e friulana fino alla frittola e al pani ca’ meusa della Vucciria palermitana.

Adoro Firenze, la sua umanità residua e nascosta agli sguardi lungo le vie del centro, le sue meraviglie semplici e accuratamente piegate e riposte come vesti di seta e fiori. Le vite delle persone di ogni colore della pelle, scandite dal respiro dell’Oltrarno. La città ruscella ovunque ricchezza, una bellezza altera, sospesa nel tempo, così come attuale e plurale. A volte, percorrendone le strade, si percepisce quasi il pulsare di un petto di marmo bianco, cuore artistico, ma anche consumistico, di questo Paese. E con una nota amara, pensando agli Scritti Corsari, cammino tra il mercato ottocentesco, rivisitato in chiave “food” più o meno all’epoca dell’Expo di Milano, e le lunghe teorie di bancarelle di pelli, anno dopo anno più simili a plastiche. Trovo la città colmata da un’indicibile calca turistica, sotto un cielo azzurro con nuvole hopperiane, quasi finto anch’esso.

San Lorenzo si riposa senza facciata. Orsanmichele tace. Tra colori stupefacenti di Benozzo Gozzoli e pagine di Ruskin impolverate, assisto a mattinate fiorentine perdute tra maree di coni gelato. Piazza della Signoria è cotta dal sole, con le sue stratigrafie medievali volontariamente occultate sotto la pavimentazione. Ho visioni notturne…

E poi le Gallerie degli Uffizi piacevolmente rinnovate, ma forse afflitte dalla necessità di perpetua novità: nuove ali inaugurate, nuove mostreevento, nuovi militari a presidio, nuovi cocktail sul Lungarno. Eppure, una brezza piacevolissima risale il fiume da ponente, si inchina sotto le botteghe di lusso di Ponte Vecchio, accarezza le acque, il paesaggio smeraldino di cipressi e marmo verde di Prato, raggiunge i rioni non turistici, dimessi, marziani, grondanti serena o afflitta umanità, tra acciottolati tranquilli, pergole, dimensioni familiari.

Non riesco a guardarla, lassù, San Miniato, scrigno di tante meraviglie. Respira, Fiorenza la bella, respira.

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Pisa

 

Sono dunque diretto alle origini, a Pisa, verso la sua bianca riverenza romanica, le sue memorie pasoliniane e dantesche, i mercanti sodali del Gran Conte normanno, il fitto tessuto urbano medievale e, ancora oltre, la linea di costa conosciuta a memoria, grazie alla carta nautica “Da San Rossore a Portofino”, fondo della scrivania di legno di casa, laggiù a Palermo, sostegno delle mie sudate carte, ricalcata per anni, traguardando oltre le curve di livello che sfumano dall’idrografia all’orografia, i toponimi lontani, i fari disegnati e immaginati.

Corre fluido il treno, senza fischi, scorre come le acque dell’Arno che rincorriamo, rapide. Adesso tra Santa Croce e Fucecchio; chiome di pini romani e concerie lungo tutta la valle, prima di approdare nel porto sepolto, nella vasta laguna antica e scomparsa, alla confluenza con il fiume Serchio.

Giunto a Pisa, ritrovo gli amici A. e P. in compagnia di C., con i quali facciamo un’indimenticabile passeggiata, tra la gioia grande del nuovo incontro e la bellezza condivisa e abbagliante di ogni cosa.

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Una signora su una panchina sembra scappata dalla superficie bidimensionale di un’opera di Keith Haring. Percorrendo Corso Italia, A. mi racconta di Livorno, mi introduce già al suo cospetto, differente rispetto all’eleganza di Pisa; non vuole influenzare le mie prossime impressioni o sorprese, ma descrive il suo fermento e tratteggia la sua vitalità, a cui inizio ad accostarmi progressivamente.

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Al Ponte di Mezzo, sbuchiamo sull’Arno abbacinante. Mi fermo, scusate, mi affaccio, è una meraviglia, sono stato qui così tanti anni fa che ho ricordi precisissimi ma sotto forma d’immagini isolate, che riscopro poco a poco, come un album di fotografie. Respiro la brezza che arriva dal mare, sento il calore sulla pelle, strizzo gli occhi per il chiaroscuro, controluce.

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Sorrido ai palazzetti simili a fondaci, tra poco ne osserverò uno con avancorpo e polifore, li immagino brulicanti di vita. Il fondaco parla un’unica lingua, simile in pianta, simile in sezione, simili le ogive, da qui fino al vicino Oriente e a tutte le sponde del Mediterrano, trovo incredibile l’ostinazione di una tipologia che si ritrova costante, pur con tutte le sue variazioni, tra pàndokoi, fonteghi e funduq: corpo architettonico fondato sulla parola.

Tipologia di edifici mediterranea che, accostata fianco a fianco, spina a spina, nel suo moltiplicarsi e declinarsi ha intessuto le trame diverse, eppure così simili, delle singole tele di un’unica stoffa composita, le città costiere di questo bacino, di questo “continente liquido”, di un medioevo salso e luminoso.

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Ci fermiamo davanti a San Michele in Borgo stretto, rubo delle foto della facciata beatamente in bilico tra massa ponderata romanica e merletti gotici, tra due epoche e concezioni, influenzata da riferimenti a scale geografiche diverse, ampliate.

Un grappolo di palloncini molto contemporaneo mi riporta ad oggi e cerco di includerlo nell’inquadratura. Mi incuriosiscono le iscrizioni dipinte, che in seguito scopro essere cinquecentesche e dedicate all’elezione di un Rettore universitario; mi diverte la variante goliardica di un’usanza medievale celebrativa che ho ritrovato altrove lungo l’arco tirrenico.

9_IMG_1275_pisa chiesa san michele in borgo stretto iscrizioni facciata

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Ed eccolo, il Campo dei Miracoli che abbaglia. È ancora più stupefacente di quanto lo ricordassi. In questa luce pomeridiana, l’invaso spaziale è commovente, l’equilibrio delle masse altrettanto. Le superfici di pietra, che ricordo prima dei restauri, sono splendenti, forse troppo ripulite e sabbiate dagli interventi, ma tutto è meraviglioso. In particolare mi colpisce ancora una volta l’unità di tempo, luogo e ispirazione, quantomeno apparente, che può avere prodotto lungo un arco secolare questo manifesto politico-culturale della Repubblica Marinara. Gli archetti, le modanature, le decorazioni geometriche delle facciate che si animano come le onde di una cultura mediterranea e la riassumono, cristallizzandola.

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Il Campo è invaso dal turismo di massa, ma al di là della consunzione consumistica del senso del luogo, generata dai rituali esperienziali da souvenir e dalla superficialità del nuovo mondo dell’immagine usurata, nonostante ciò la scena può apparire comunque come un incredibile brulicare di vita. E forse in questa luce e in questo pomeriggio fortunato si può perdonare tutto e sorridere e sentirsi parte della sconfinata marea di innumerevoli braccia di ogni angolo di mondo qui confluite per simulare, individualmente ma tutte insieme, la correzione della Torre pendente. In più grazie al cielo, una volta tanto, questa è una foto che non si può scattare come un “selfie”, avendo le braccia impegnate, e richiede un’interazione sociale, il che mi mette ancora più allegria.

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Il prato del Campo Santo è un verde mare, puro, intonso. E racconto della Medea di Pasolini e della sua Corinto reinventata attraverso la giustapposizione di Campo dei Miracoli e Aleppo, nella scena in cui Glauce impazzita fugge da questo candore intercluso in cui ci troviamo e si proietta all’esterno del palazzo, ritrovandosi sulle mura della cittadella di Aleppo, con naturalezza di montaggio esemplare e perfetta continuità concettuale. Il pensiero corre alla Siria, che in queste settimane non va più di moda presso l’opinione pubblica.

Ma intanto i miei amici trasmettono gioia, ci raccontiamo capitoli di vite, sono radiosi, li osservo e danno la speranza concreta di un mondo più sorridente e aperto.

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Girando torno torno alla Torre, cerco un bassorilievo sulla superficie, strizzando gli occhi per l’abbaglio del sole. Finalmente lo scorgo, appena scolpito da una linea d’ombra. Una meravigliosa rappresentazione del Portus Pisanus, aperto all’approdo e ripartenza di navi e merci, nell’epoca del suo massimo splendore in quanto porto aperto. Lo fotografo incantato, diviene subito per me un’immagine emblematica del periplo che sto compiendo.

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Nota

Come scritto in premessa, questa narrazione desidera avere un intento politico. In alcuni passaggi, mi soffermo sulla bellezza e l’equilibrio ancora oggi leggibili nella ricchezza spaziale delle antiche Repubbliche Marinare, con uno stile narrativo ma senza alcun fine estetizzante o edonistico; bensì con l’idea che essi vadano salvaguardati in quanto testimoni fondamentali di una passata e presente complessità interculturale. La bellezza delle città in cui viviamo mi appare sempre più come un esito di tale complessità, che mi sembra sia stata consentita e generata non certo dalla chiusura, ma dall’apertura alla contaminazione e metabolizzazione culturale di cui le identità si sono nutrite nei secoli, consapevolmente o meno.

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Interludio. Palermo giardino e tutto porto

Palermo, 31 ottobre 2018. Attraversare l’Italia in lungo e in largo ma ritornare sempre. Reinvertarti qui come altrove, Palermo cara. Tornare a una città pulsante, saporita e aperta. Le tue contraddizioni sono acerbe, stridenti come sempre, forse anche più del solito; ma sei più viva che mai.

E di questo devo provare a raccontare la storia.

Le balate sono lucenti di pioggia, in bilico tra clacson, mormorio pedonale e allegra caciara in ogni lingua. Si liberano, progressivamente, i tuoi spazi urbani. Guadi i torrenti in piena delle tue difficoltà. Gridi e sussurri la tua resilienza. Tutto è in fermento, sei rigogliosa. Si aprono gli androni prima chiusi, fioriscono le piante della parola, dello scambio, del desiderio di riscatto. Si ricordano e onorano i giusti. Si pensa al futuro e si costruisce un presente migliore.

Panormo, sei “tutto porto” aperto e contemporaneo. Si mescolano le culture in un’unica pentola, come questa che ascolto, battuta a colpi di martello, in via dei Calderai. Le tue chiese barocche vibrano, colmate dal canto di cori asiatici. I tuoi mercati intessono banniate e lingue centrafricane. Nelle arterie principali del tuo vecchio centro marinaro scorre una complicata libertà in cui le sponde del Mediterraneo si fondono.

Zyz, fiore punico, i tuoi petali resistono, rinasceranno. Cerchi armonia ovunque, si piantano semi e tentativi concreti, dal cuore del tuo Teatro del Sole fino al laboratorio della Costa Sud e alla tua più complessa periferia, la Zona Espansione Nord.

Palermo, effimera quanto duratura. Sei necessaria in questo momento storico. Liberi e crei spazio e parola. Dolorosamente, offri e richiedi poesia.

 

Capitolo III. Porti sepolti e rose dei venti

17.06.2018

Pisa

Lasciata dunque alle spalle la piazza del Duomo, passeggiamo lungo vie squisitamente croccanti di brigidini, le famose cialde all’anice che avevo dimenticato in chissà quali meandri di memoria. Scopro solo in seguito che esse presero il nome da alcune suore di Pistoia devote a Santa Brigida; sorrido all’idea di antichi conventi famosi per le produzioni dolciarie e in un lampo capitombolo all’altro capo dello specchio d’acqua tirrenico, verso i frutti di martorana, la pasta riali di mennule, ricetta che si narra inventata dalla badessa Eloisa Martorana in un perduto chiostro della Palermo normanna. E la mente vola ai dolci dei monasteri ortodossi, sulle sponde egee di questo mare. La koiné del biscotto. E passeggiando lentamente chiacchieriamo di vie romane, torniamo a Pisa percorrendo l’Egnatia dall’Anatolia a Brindisi, l’Appia, e infine rieccoci qui, tra la via Aurelia e l’est.

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Tra brigidini e memorie galileiane, riattraversiamo il borgo e partiamo. Seguiamo il corso dell’Arno, accompagnati da platani, lunghe code di macchine bloccate nel traffico in senso opposto, ‘battiali di civette’, invernate sui campi e ponticelli narrati dall’amica A., boschi costieri di un mare che profuma ma non si scorge.

Inoltrandoci nel porto pisano sepolto, il paesaggio si percepisce sottotraccia come ricco di trasfomazioni intercorse. Indossa un vestito, ma suggerisce di averne indossati altri che non esibisce. Verde di pini e dorato di grano, è denso soprattutto di tempo. Sembra riassumere in sé le stagioni. E sembra raccontare senza parole dei capitoli antichi a ritroso, navi medievali attraccate, anfore di vino romano, cocci etruschi e prima ancora lagune mute, attraversate da lente migrazioni di uomini, il silenzio rotto solo da versi isolati di uccelli dallo stesso destino.

Navighiamo in auto, spalle alle Alpi Apuane. Quando mi volto e le scorgo – prore ormeggiate nella luce assorta – dipingono d’indaco il paesaggio. La sera, attraverso il racconto, viaggiamo tra le paludi Pontine, i campi Flegrei e Pozzuoli. La notte, tra squisite marasche, visciole ed erbe aromatiche.

Mi addormento al dolce sciabordio di navi assenti.

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18.06.2018

Tirrenia

Dopo un sonno ristoratore, mi sveglio pensando al porto sepolto. Il panorama qui ricorda una savana, lo sguardo può correre orizzontalmente libero sotto le fronde degli alberi, tutti perfettamente potati dai daini fino alla stessa quota, triangolari come vele. È impossibile proibire al mio pensiero di volare alle isole Brioni, in Croazia, dove ci eravamo immersi in un paesaggio analogo, ne posso sentire addosso il profumo e la luce radente come fosse ieri. L’arcipelago giace appena un po’ più a sud, ma la vegetazione è simile. Resto qui a pensare, estendere gli orizzonti, tastare una più ampia latitudine.

La sottrazione dello sguardo che corrisponde a un ampliamento della percezione. Il respiro si dilata, è questa la sensazione di un porto aperto.

Passeggio con P. attraverso la macchia mediterranea. I mirti in fiore risparmiati dai daini a causa dell’aroma dolceamaro, i biancospini assaggiati con prudenza. Gli olivastri, che accarezzo con gli occhi, mi riportano alla mente Vincenzo Consolo e la Sicilia di questa stagione, lontana.

La prima cicala sancisce l’estate.

Dopo pranzo, assisto a un ricongiungimento gioioso di generazioni che si tuffano in un abbraccio, istantaneamente mi ritrovo di fronte un meraviglioso trittico per niente paratattico, che provo a incorniciare in foto.

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Mi sposto in camera a prendere appunti. Dalla finestra, è un tripudio voluminoso la nuvola smeraldo di pini e arbusti mediterranei, che trascorre sul cielo del prato. Il profumo dei campi incolti nel sole. Il vortice di polvere di un trattore lontano mi ricorda “la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”, con una goccia all’occhio. La luce calda, a chiazze, è scolpita ad olio come quella di un quadro dei Macchiaoli. La terrazza in disuso sembra una fotografia di Luigi Ghirri. Gli steli gialli e la pergola verde somigliano a una risacca, sospinta da questo vento intercluso del porto interrato. Esco di casa.

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Cammino entro scarpe che giungono dalle acque alte, da indimenticabili episodi veneziani. Hanno viaggiato molto, arrivano da lontano nel tempo e nello spazio, sorridono con me.

Una piscina in cui ha principio e fine il mondo intero. Eccolo, il Mediterraneo che concettualmente continuiamo a nominare Mare Nostrum, che senza ammetterlo ci ostiniamo a definire tale, assisi in una sedia di plastica scolorita. Eppure quella stessa sedia può trasformarsi nel riposo e nelle braccia aperte di una nonna, aperte a una piccola speranza che giochi ridente.

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Torno in casa, un piccolo specchio e un drappo di stoffa mi riportano alla Tunisia dei miei ultimi peripli. La forma stellata mi fa tornare in mente le decorazioni geometriche della Torre Pendente fotografate per il capitolo di ieri. Ancora una volta mi perdo tra le onde del sincretismo mediterraneo, fra le tracce di questa Repubblica Marinara un tempo spalancata sul mare.

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Nel porto interrato non si percepisce il mondo, ma se ne coglie la presenza, il senso spaziale si amplia al globo terraqueo, alla ragnatela dei portolani, ai porti inanellati come collane lungo le rotte, alla Carta Pisana, la prima carta nautica: possiamo accarezzarla dal Mar Nero all’Atlantico, con le due rose dei venti disegnate sull’alto Tirreno e sull’Egeo, possiamo avvitarci seguendo il circolo delle correnti di brezza e onde di questo bacino antico, unitario. E la navigazione notturna, le stelle per misurare questo mare grazie a sapienze giunte da Damasco a Pisa, con gli astrolabi, con gli occhi, con le braccia. E ruotano i petali dei venti e delle correnti, mentre sboccia e fiorisce anche la rosa della lingua sabir o dei porti franchi.

E saltello fino a Lampedusa, batto il piede sulla costa-impronta della Tunisia, mi inoltro attraverso colline-granaio fino alla fine del mondo, alla “Piazza della rosa dei venti” di Dougga, distesa prima di quell’ultimo arco di trionfo, di fronte a una relativa fine dell’orbe, oltre la quale solo i leoni.

Se per la rosa dei venti la piazza
fu incisa al limitare del deserto
sordo orizzonte di terra sgranata
al rimpianto di un mare di pietra
fu una traccia d’indomabile vuoto
per insegnare a immaginare il mondo
lontani dalle schiume, dalle nevi.

Tornammo al giallo e al rosa delle sponde
roccia più antica delle svelte nubi.
Partimmo, pur privati di ogni stella
alla volta del vasto oriente onirico.

(da “Trittico tunisino”, 2017)

E inseguendo perdute stelle torniamo indietro nel tempo, dal Medioevo all’età antica, e poi fino alle rotte arcaiche della protostoria, spinte dai primi commerci di metalli, di pietre, e ancora indietro, fino alle migrazioni lungo gli archi costieri o alla volta di fertili isole di vulcani e nominate dai venti.

Nel grembo dei concavi fasciami
riluceva appena l’ancora d’argento.
Le notti seguivano notti
barbare alle brume del mare turrito.
Per casa ormai soltanto l’occhio spento
come pesce affogato sulla prora.
Sbarcati tra i resti dei fiumi
zoppicando ci sembrava di lasciare
orme sulla sabbia delle dune infrante.
Fuggendo dagli arbusti, tornavamo
ad affondare i piedi in una torbida laguna
protetta dai cordoni delle spiagge.
Oltre, la schiuma muta del mare mangiava
le nostre polene perdute.
Le stelle erano tutte spostate.

(da “Viaggio metafisico nella Toscana archeologica”, 2016)

Dalla finestra traguardo il mare, è una mano di grano nascente, al di là del rovente muro d’orto di questo nostro europeo meriggiare. Disteso, sento passare qualcuno per strada che parla arabo, l’effetto è straniante, ascolto e visualizzo i grafemi per me indecifrabili come onde. Aspiro il mare che non vedo, profumato di questa e altre terre, il sale asciugato sulla carta bagnata anni fa a Caorle.

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Vento che entra nella stanza, si mescola agli oggetti presenti con volute e convezioni, attraversa libero le porte (quelle socchiuse si accostano e discostano con suono ovattato d’infanzia, come sciabordio di paratie affiancate lungo una banchina). Passato il corridoio, inonderà tutte le stanze, per metà giornata. Poi, puntuale secondo un ritmo dimenticato, sarà la volta della brezza di terra, frescura notturna, tenera alternanza di soffio reciproco e perpetuo. Sarà alito costante, bava o refolo, palpito tiepido notturno. La casa mediterranea vive di ventilazione incrociata, ci insegna il mutuo scambio.

Si ostinano a chiamarli sbarchi, ma non hanno ormeggio, solo frangersi di legni come schiuma vaporosa.

Per gentile concessione dell’autore.Rilanciato dal blog personale di poesia a cura  di Giovanni Asmundo “Peripli -Topografia di uno smarrimento”.

 

P1020478-300x225Nato a Palermo nel 1987, architetto, Giovanni Luca Asmundo vive a Venezia e svolge attività di ricerca presso l’Università IUAV di Venezia. Sue poesie sono state pubblicate su riviste online tra le quali “Poliscritture” e in alcune antologie de La presenza di Èrato. È tra i curatori del progetto di poesia e fotografia “Peripli. Topografia di uno smarrimento” e di “Congiunzioni Festival di poesia e videoarte 2015”.

 

 

 

 

Immagine in evidenza: Foto di Giovanni Asmundo.

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Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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