Periplo delle Repubbliche Marinare – Parte Seconda (capitoli iV- Vi) di Giovanni Asmundo

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Capitolo IV. Esuli, affreschi, surfisti del tweet

18.06.2018

Tirrenia

Qui, alla fine di tutte le stanze, nell’ora più calda. Nell’antico porto sepolto di Pisa, tra mura accoglienti, riflettendo, leggendo, prendendo appunti. Un poster ondulato mi ricorda le ultime onde del mare su una battigia lontana. E penso a Charlie Chaplin in veste di Grande Dittatore, alla sua geniale parodia. E penso che una volta era necessario sbracciarsi da un balcone per animare una folla, mentre oggi non serve più alcuna fatica: basta un tweet. E penso che taluni uomini di potere abbiano ben imparato a cavalcare le onde mediatiche, quasi fossero dei surfisti della propaganda. E che le conseguenze negative delle loro strategie andranno ben oltre la loro stagione.

E tuttavia, osservando intorno, mi sembra che molte persone credano nella sopravvivenza di altri strumenti, tra i quali la penna e la voce; di certo meno dirompenti dei proclami ma, spero, efficaci a lungo termine.

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Intorno a una tazza di caffè, chiacchieriamo con A. di storie, di sassi materani, di libri, di pappe sul fornello, di architettura e linguaggio in filosofi morti felicemente – come ha scritto il nostro amico G. – di forcole veneziane, di viaggi mediterranei. A un tratto, apro una pagina a caso di “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar e mi ritrovo sotto il dito una frase secondo la quale l’imperatore “aveva portato le aquile romane su lidi inesplorati fino a quel giorno”. Ridiamo, le coincidenze intrecciano fili inattesi e pertinenti.

Partiamo per una spedizione, le tre generazioni ed io, incuranti del sole insistente. Questo periplo ci sospinge, è l’occasione giusta per entrare nella basilica di San Piero in Grado, non lontana da qui e a lungo immaginata.

Il toponimo deriva da gradus, scalo portuale annidato nel grembo del sinus pisanus del porto antico. Non così dissimile da quell’altra Grado, scalo lagunare del porto fluviale romano di Aquileia, in cima a un Adriatico multiculturale, crocevia di scambi e cruciale luogo liminale, di frontiera e di profughi, dall’età antica sino all’attualità.

Arriviamo in vista della chiesa volgendo le spalle alla costa attuale. Attraversando tomboli e lame formati dall’interramento del porto, mentre la linea di costa si spostava, lenta e inesorabile, verso occidente. Controcorrente e a ritroso nel tempo, attraversiamo il nuovo mare di grano dei campi, su onde di spighe mosse dal vento.

Il sole bagna l’abside occidentale. Così si sarebbe potuta scorgere giungendo dal mare e inoltrandosi lungo le vie d’acqua del porto, con la carena della nave accarezzata dalle fitte alghe molli e scure, le stesse che secoli prima avevano colpito Rutilio Namaziano, tanto da prenderne nota lungo il suo viaggio di ritorno in Gallia.

Giriamo intorno alla chiesa, parcheggiamo tra sabbie portate fin qui dal vento. Il Tirreno non si vede, ma è sempre presente. Il verde mare del prato è disegnato dal volume d’ombra dell’abside orientale. La basilica ha infatti un raro impianto a due corpi absidati speculari. Curioso che oggi, nell’accostarsi al manufatto, la situazione sia capovolta rispetto al passato e la vista privilegiata sia quella verso l’abside orientale, essendo quest’ultima lambita dalla strada principale.

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Mi incuriosisce il campanile, che appare a un solo piano, con una copertura che lo rende simile a i prismi elementari delle costruzioni di legno da bambini. La torre fu minata dalle truppe tedesche nel luglio del ‘44 per distruggere un potenziale punto di osservazione.

La mente colma il prato e il silenzio, figurando lo scalo portuale. Moli, magazzini sull’acqua, botteghe, imbarcazioni pigre, vociare pacato e abbondante.

1_san pietro in grado apostolo pisa porto sepolto antico medioevo

Vicino all’ingresso, mi soffermo su due marmi antichi di reimpiego, inseriti nella muratura di pietra. Due epoche differenti accostate fanno rintoccare il suono del tempo.

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L’interno è una meraviglia di semplicità elegante e pura, volumi scarni e decori minuziosi, tra colonne e capitelli di spolio, nella penombra sfondata dai fori di luce romanica.
Scintillano le onde e le acque verdi del mare, ancora un ‘verdemare’ oggi assente, che ritroviamo come presenza all’inizio e alla fine della parete esposta al meridione assolato, ne sentiamo gli spruzzi nelle narici, lo percepiamo al di là delle finestre.

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Soprendenti colori degli affreschi, moltitudini di pesci. Sono le “Storie della vita di San Pietro”, affreschi opera del lucchese Deodato Orlandi, commissionati dai Caetani di Pisa per il primo Giubileo, nell’anno 1300, voluto da Bonifacio VIII. Quello stesso papa le cui politiche tanto costarono a Dante: come non pensare al suo esilio, al suo viaggio senza requie, agli sconvolgimenti politici con ricadute sulle vite dei singoli, alla nostalgia. Come non pensare agli esuli contemporanei, al loro migrare. Porti aperti, siano essi luccicanti o sepolti: impasti di lingue e di merci, approdi di Santi, profughi, navi di pietra absidate e spiaggiate.

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Siamo salpati alla volta di questo periplo levando gli ormeggi dalla bocca di porto del Lido, a Venezia, osservando la chiesa di San Pietro di Castello al tramonto; e da una visione del sonno di San Marco, approdato in laguna. Eccoci in altro luogo d’approdo, nella laguna interrata di Pisa. Quanti Santi pellegrini per mare, portatori di parole, al di là di ogni aspetto liturgico o legato alle confessioni, quanti uomini giunti dal mare trasportando parole, lingue, saperi, fossero essi mercanti, profeti, viaggiatori o rematori; uomini del mare costruttori per secoli di apertura fondata su un dialogo dalle mille declinazioni – retorica, vendita, poesia – che ci auspichiamo non venga mai interrotto.

In chiusura del cerchio, torneremo anche alla cattedra di San Pietro, straordinario manufatto islamico-cristiano, a Venezia, ritrovato alla fine di questo viaggio.

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Ai piedi di navi dalle vele gonfie e porti di città bianche, appena la vista si riadatta al buio, si scorge un ciborio del XIV secolo eretto a racchiudere spazialmente il luogo nel quale San Pietro avrebbe predicato, cristallizzato in una modesta colonna-altare. Ma questa affonda le proprie radici in murature più antiche, un’abside paleocristiana e, ancora prima, nelle ossa di un edificio pubblico latino. Tutto ha continuità, tutto è continuità.

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All’esterno, fotografo ancora una volta dei bellissimi tondi ceramici tra gli archetti, poiché mi stupisce trovarli a questa latitudine, ricordandomi un uso bizantino, da patera, dal sapore levantino o meridionale, quella strana koiné d’inserti decorativi osservati dalla Grecia fino al nostro Appennino profondo o isolano e che, con stilizzazioni diverse, si diffonde lungo la sponda meridionale e occidentale del Mediterraneo. Preziosi motivi geometrici e figurati che rappresentano una migrazione di segni, in un dialogo non verbale aperto per millenni.

Scopro in seguito che in effetti si tratta di copie di tondi (gli originali sono conservati al Museo Nazionale di San Matteo a Pisa) di produzione islamica, maiorchina e siciliana, datati X-XII secolo; il sentore di familiarità trova conferma.

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Prima di ripartire, faccio una corsa per fotografare l’abside occidentale, indorata dal sole, come l’ho vista arrivando dal mare antico e assente. Su un pannello ho letto che quest’abside speculare fu forse costruita in seguito a una piena dell’Arno. Mi piace pensare che l’acqua abbia dato forma all’architettura, in qualche misura che non conosco.

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Marina di Pisa

Esploriamo Marina di Pisa, avanzando tra file di edifici parallele al mare, comprese tra onde e chiome di pini di dannunziana memoria e frequentazione. Le ville e gli edifici pubblici condensano una squisita volta di secolo modernista, sospesi tra eclettismo e liberty. Ci fermiamo in auto per scattare una foto a una tendina d’epoca, ricamata a mano da qualche bisnonna, avulsa dallo scorrere del tempo.

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Nei pressi del porticciolo è il momento dei saluti, ma ci rivedremo presto. Fotografo una villetta abbandonata, mi chiedo se a breve, a causa di un nuovo progetto per l’area, non possa scomparire.

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Superate palmette, barche a vela e finiture di un porticciolo caratterizzato da un restyling architettonico elegante, aiuole svizzere e toni esclusivi, arrivo ad affacciarmi sul panorama di Boccadarno.
Sarà per via della luce, dell’orizzonte morbido di macchia mediterranea e delle Alpi Apuane, ma sembra un olio dipinto. La liberazione del fiume. E il mare aperto, finalmente.

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Poco dopo mi raggiunge P. ed esploriamo la marina. Le bilance o retoni dei pescatori alludono a montagne capovolte e sospese, evanescenti come le spume che insistono sui frangiflutti.

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Sarà il clima offuscato dalle notizie di cronaca, ma il porticciolo mi appare particolarmente esclusivo. L’imbocco mi appare difeso, serrato nell’abbraccio rotondo delle alte muraglie delle dighe. Si inquadra l’isola di Gorgona, in lontananza.

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Alla foce, al contrario, i due colori delle acque del fiume e del mare si mescolano, così come le due correnti contrarie. Onde lunghe sembrano giungere da molto lontano, dal mare vecchio, con increspature scolpite.

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L’orizzonte è una pennellata netta, una polla di luce tersa, di spalancata apertura. Quasi una metafora.

Via dunque, alla volta di Livorno, porto franco del Mediterraneo.

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Capitolo V. Livorno, rayuela o il gioco del mondo

18.06.2018

Livorno

Ricalcando la via Aurelia, la strada litoranea discende tra i pini da Marina di Pisa a Livorno. Osservo il susseguirsi di eterogenei lidi novecenteschi, con vista delle onde spesso negata, a eccezione di qualche sprazzo fugace di spiaggia esposta all’orizzonte, al languore del Tirreno al tramonto.

Il panorama si schiude soltanto nei pressi dell’antica Calambrone, cala oggi interrata, allo sbocco del canale imperiale. E rivela il dorso duro della città portuale. Arterie viarie che si annodano e distendono, lunghe teorie di container chiusi e insondabili, negazione di una mercanzia vivace, lamierosi, corrugati e appena ingentiliti dalla luce radente. Dopo essersi attorcigliati tra infrastrutture cantieristiche e industriali, si arriva all’impatto contro le mura cinquecentesche, alte e brunite; una sorpresa divertita. I segnali stradali conducono per mano a costeggiarle, fino a una porta urbica. L’approccio alla città è necessariamente stratificato e progressivo. Mi incuriosiscono da lontano edifici di non immediata datazione, con una bizzarra sintassi nel montaggio di elementi architettonici all’antica. Neoclassici rivoluzionari, eclettici moderati o manieristi autoironici?

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E infine una piazza monumentale, oblunga. Si continua a piedi. Dopo pochi passi, estasiato, appunto velocemente alcune frasi sulle note del cellulare, non ho il tempo di estrarre il taccuino.

Livorno accoglie con un intenso profumo di pesce arrosto. Tramonto crostaceo, luce splendida sulla fortezza. Piazza della Repubblica è dominata da Granduchi vestiti alla Petronio, un po’ austeri e un po’ buffi in quest’aria croccante di gamberi.

E infine una piazza monumentale, oblunga. Si continua a piedi. Dopo pochi passi, estasiato, appunto velocemente alcune frasi sulle note del cellulare, non ho il tempo di estrarre il taccuino.
Livorno accoglie con un intenso profumo di pesce arrosto. Tramonto crostaceo, luce splendida sulla fortezza. Piazza della Repubblica è dominata da Granduchi vestiti alla Petronio, un po’ austeri e un po’ buffi in quest’aria croccante di gamberi.

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Affacciandomi dal parapetto la vista si apre sulla fortezza e gli scali di un porto interno. La sensazione è straniante. Una luce quasi da Mare del Nord, dei prospetti da alto Tirreno, delle barche da alto Adriatico, dei pescatori da mar Jonio, passanti di ogni lingua e cultura, nessun turista. Tutto è in bilico tra settentrione e meridione, tra oriente e occidente, in una miscela incredibile, immersa in in un silenzio morbido di gabbiani, chiacchiericcio e automobili. E in un profumo universalmente marinaro.

La piazzetta dietro l’albergo ha platani africani: i tronchi sono avvolti in tessuti colorati, somigliano a dei lavori a maglia. Uno strano contrasto. Non so perché, la piazzetta mi diventa immediatamente familiare. Qualcosa, in questo spazio, è particolarmente accogliente pur essendo taciturno. Con l’auto si fa un girotondo intorno a tutta la piazza, in un rituale che mi ricorda altre latitudini, compreso il passaggio a filo tra le auto strette.

 

Cala la notte. Piazza della Repubblica, principio e fine del centro città, è democratica. Nessuno sembra accorgersi dei Granduchi bianchi che fanno da contrappunto all’ampio sterrato.
In una città, un aspetto che mi piace osservare è la trasformazione d’uso dello spazio e della frequentazione delle piazze centrali a seconda delle differenti fasce orarie. Tra quelle che conosco meglio, piazza Ferretto a Mestre è uno tra gli invasi spaziali più riusciti che abbia in mente, in relazione alla convivenza pacifica di una pluralità di strati sociali e culturali. Ma torniamo allo sterrato che sto attraversando, mentre accoglie questi passi livornesi. A quest’ora la piazza è apparentemente suddivisa: sulle panchine a est chiacchiera l’Africa, su quelle a ovest l’Asia. Ma i bambini mescolati giocano tutti insieme al centro della piazza, lanciandosi la palla, saltellando a campana e rincorrendosi ad acchiapparello, strillando e ridendo nella stessa lingua, italiani come sono, in una rayuela che si fa veramente gioco del mondo.

La Via Grande, insieme alle aree limitrofe del centro storico, è stata ricostruite dopo la guerra ed è costituita da lunghi portici pilastrati, scarsamente illuminati, con sequenze di vetrine cinesi, bar aperti solo di giorno, qualche catena di negozi. In pianta quest’area del centro è ingannevole, sembra avere mantenuto la morfologia degli isolati antichi ma, camminando, gli edifici ricostruiti danno l’idea di essere stati estrusi verso l’alto per maggiore densità. Mi ricorda in qualche modo la Kalelarga di Zara e altre vie centrali dell’est, ma al tempo stesso Beirut nel riutilizzo di stili tradizionali razionalizzati. Non è qui, però, almeno mi sembra, la vera ricostruzione urbana, quella del suo tessuto sociale.

Attraversando Piazza Grande, una panchina è totalmente coperta dagli oggetti, ordinatissimi e senza alcuno spazio residuo, di un giovane ragazzo africano che riposa in piedi. Vende accendini di calciatori, braccialetti di pelle, magneti da frigo tricolore con la scritta “Italy” e perfino souvenir della Torre Pendente sotto la neve, in barba alle tradizionali diatribe. Cuoio plastica vetro legno metallo Made in Everywhere. La sua panchina è quasi un’opera d’arte che non abbia bisogno di esserlo, non ha nulla di estetizzato né di estetizzante, è esclusiva espressione di un acuto senso dello spazio, del commercio, dell’umana necessità. Questo piccolo patrimonio di chincaglierie sembra la merce stivata alla rinfusa in un container, con un’ottimizzazione perfetta di ogni centimetro cubico; la panchina di pietra sembra quasi una nave in miniatura, ormeggiata in questo porto aperto di piazza. Una collezione parlante di manufatti e oggetti industriali della contemporaneità che ci accomuna, un minuscolo quanto monumentale museo migrante, drammatico quanto vivente. Conversiamo con grande vitalità.

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Addentrandoci con P. nel quartiere detto della Venezia, la notte è tiepida, l’atmosfera è straniante: molto pacata e altrettanto vivace al tempo stesso. In via dei Pescatori, una pasta al polpo squisitamente mediterranea. Gli scali che scendono fino ai moli continui e all’acqua dei canali sembrano sospesi tra Genova e Milano, Pisa e Napoli.

Assisto a una scena surreale e, come arriverò a ipotizzare nei prossimi giorni, resiliente e attivamente resistente. Una coppia è seduta per terra a bere piacevolmente una birra, a bordo canale. A un tratto il ragazzo si alza, semplicemente è il momento di andare. Si salutano con un bacio e sale sulla sua barca, caricando di peso una ghiacciaia con gesti millenari, poi parte accendendo la lampada per la pesca notturna e si allontana tra i lampioni, verso il buio del mare aperto. La ragazza si risiede, a gambe incrociate, a finire la birra.

Ripasso per Piazza Grande, alcuni bimbi. Più tardi torno in centro alla ricerca di un gelato difficile da trovare data l’ora: questa città sorprendentemente non è stata ancora toccata dal turismo. Tra radi passanti che reinventano le strade, luci di qualche trattoria di mare napoletana e qualche bettola che frigge, mi spingo fino al porto, particolarmente abbuiato. Le narici inondate dall’aria carica di odori delle reti, tra i pescherecci ormeggiati. La quinta teatrale spenta è la sagoma oscura della fortezza.

Raggiungo la statua dei Quattro Mori, di cui scriverò meglio sul taccuino domani. Risalgo per la Via Grande finché, in una strada antica superstite, proprio in mezzo tra Madonne e Galere, tra una facciata barocca e l’altra trovo una situazione surreale e divertente, che provo a raccontare.

Un bar-kebab turco rivisitato confina con un bar-bottega cinese, senza frontiere, con le medesime sedie, plateatici e culture separate soltanto dal palo di un lampione. Trovo il mio gelato industriale al primo bar, la signora cinese ha un sorriso aperto e parole gentili. Mi siedo all’esterno. Al tavolino alla mia destra vi è il gestore cinese, che siede insieme a un cliente livornese conversando di cucina regionale; gli descrive, con forte accento toscano, la ricetta della zuppa di trippe cucinata da sua moglie e “cotta con molto aglio”. Il livornese, dal canto suo, racconta che “oggigiorno non si trovano più le trippe di una volta, i cuochi ti prendono per bischero; ma se te vai alla Festa dell’Unità, puoi trovare ancora quelle originali”.

Il gestore turco, alla mia sinistra, fuma sigarette dalle nuvole azzurre e, tra un tiro e uno sbuffo, scherza con il gestore cinese, anch’egli con uno spiccato accento del luogo. Lo prende in giro perché siede al tavolo

anziché lavorare, ma chi gestisce i soldi del locale? “Eh, mia moglie è la vera cassa vivente”, ammette il gestore cinese. Anche il cliente livornese ride, accenna alla medesima situazione in casa propria.

Continuano a scherzare coinvolgendo nella triangolazione anche l’ultimo tavolo nell’angolo a destra, occupato da due ragazze bionde originarie dell’est Europa, che parlano fitto fitto in un’altra lingua. Interpellate, rispondono ridendo con garbo e con accento altrettanto livornese, prima di tornare a bisbigliare nella propria prima lingua.

Dopo aver scambiato anch’io un paio di parole con i presenti, saluto questa sintesi d’Italia, augurandole un buon proseguimento in tutti i sensi.

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Rivolgo ancora il passo al quartiere della Venezia, lungo una via dedicata a Falcone e Borsellino, tra altre Madonne e Scali del pesce. Seguo un canale tra orecchie di stucco d’arte contemporanea sui muri, con un circolo antifascista dalla porta aperta e invitante – faccio capolino su una riunione, un cenno di saluto – ali di legno barocche sui portoni, paraste erose dal sale, l’aria ne è gonfia. Penso istintivamente alla città vecchia di De Andrè.

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Due bimbi giocano camminando in equilibrio su una cima d’ormeggio,

aggrappandosi agli anelli di ferro. Sul parapetto, candele di citronella e il cicaleccio morbido di una pizzeria. Schivo per poco una sigaretta lanciata da una finestra, alzo gli occhi e non posso fare altro che sorridere ai gesti estivi di scuse delle mani di una signora in grembiule alla finestra. L’acqua calma, un lampione. Questa semplicità ha una pace incantevole.

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Un signore dell’est Europa fa una videochiamata a bordo canale, con il telefono e i gomiti appoggiati sul parapetto. Parla piano, ha un viso radioso per la conversazione con qualcuno a cui tiene, lontano. A un tratto, solleva il telefono e lo ruota tutto intorno, descrivendo la scena. Attraverso i loro schermi, piccole finestre, si annulla anche la distanza, mi piace pensare che qualcosa di questo spazio sereno, di questo frammento d’Italia inclusiva in anticipo sull’estate, arrivi fino all’altro capo del continente e viceversa, in mutuo scambio.

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In questo strano porto, antico e contemporaneo, prende davvero forma il reportage che sto scrivendo – in un giorno in cui i porti sono interdetti alla Diciotti e alle navi umanitarie – in risposta all’ostilità crescente presso l’opinione pubblica e un razzismo tristemente dilagante; in un Paese che, sempre più condizionato dai media e dalla massa d’informazioni, inizia ad assuefarsi alla quotidianità delle dichiarazioni pubbliche – quali ad esempio quelle di oggi su un “censimento dei Rom” – ponendosi sempre meno interrogativi o perdendo di vista la complessità delle questioni. È questo il punto fermo della presente prosa: pur avendo una posizione dichiarata e sperando nello sviluppo di migliori soluzioni umanitarie, l’obiettivo primario del periplo resta il cercare di costruire una riflessione costante sulla vitale importanza del porsi quesiti, del non accettare verità assolute senza approfondire, dell’operare per il dialogo.

A tutto questo penso, mentre cammino, fermandomi ogni tanto per prendere nota. Questa città mi sembra sorprendente, accogliente, integrata, così viva, nonostante sia erosa dal tempo e dal sale. Torno in albergo tra gabbiani bianchi, esaltato. Lascerò sedimentare i pensieri durante il sonno.

***
Nota 4. In questi mesi sto ricevendo incoraggiamenti calorosi, in ogni angolo d’Italia, che mi sostengono nel continuare questo progetto. Grazie a tutti.

*** ** *

 

Introduzione al Capitolo VI

 

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Nota di attualità del 20/02/2019

Generalmente non amo essere così esplicito, preferisco forme più sfumate. Ma otto mesi fa, a Livorno, mentre annotavo sul taccuino questo capitolo come risposta alla vicenda in corso della nave Diciotti, tra incredula indignazione e desiderio di riscatto pacifico, non avrei mai immaginato che in questi giorni di febbraio 2019 avremmo toccato con mano una tale realtà di degrado politico, tra negazioni di responsabilità, impunità, tribunali del popolo su piattaforme dai nomi di filosofi francesi, grave screditamento indiretto del valore delle Istituzioni repubblicane.

Mi chiedo quando torneremo tutti, proprio tutti a difenderla, questa democrazia e i suoi fondamenti, al di fuori della gabbia dorata del web e dei suoi spazi privati, slacciando dagli occhi la benda di seta della finta democrazia online, che garantisce il palliativo di ogni sfogo politico privato di ricadute concrete; tornando nelle piazze a manifestare pacificamente, restituendo valore agli spazi fisici effettivamente pubblici in cui possiamo scegliere di vivere.

Continuo questo progetto, questo resoconto di viaggio tra i porti aperti, con l’obiettivo di resistere attivamente alla visione e alla percezione della realtà indotte e dominanti. E perché ritengo necessario tentare di costruire una narrazione alternativa della realtà, possibilmente veritiera e positiva, rispetto all’imperante “storytelling politico” costruito attraverso i media.

Non è ammissibile assistere alla demolizione progressiva (attraverso la svalutazione della pubblica istruzione, i balletti di disinformazione, le dichiarazioni contraddittorie a bella posta, le fake news) di ogni certezza legata alla verità dei fatti, così come alla giustizia dei principi, per ottenere un “regime di credenza” in un Paese privato di orizzonti.

Non è possibile accettare senza battere ciglio il coordinamento di un’informazione così manovrata, che concentri solo su fattori esterni o capri espiatori ogni attenzione, distogliendo l’opinione pubblica tanto da misure che passano sotto silenzio, quanto dai veri problemi che affliggono l’Italia, quali precariato, criminalità, abusivismo, dissesti ambientali.

Non si può restare impassibili di fronte all’elaborazione costante di un clima di insicurezza e di sfiducia, di cancellazione tanto della memoria recente quanto delle aspettative nei confronti del futuro, mantenendo un presente senza prospettive al fine di costruire quello che definirei un “regime di fatalismo” presso una popolazione in tal modo più governabile.

Non è possibile osservare impotenti la volontà di pochi di trasformare le coscienze in un bacino di utenza web, rendendole in tal modo più influenzabili.

Non è tollerabile assistere a un tale programmatico svuotamento di valore della democrazia a livello istituzionale, comunitario e culturale, per incompetenza o per ottenere forse una disgregazione sociale più manipolabile attraverso il populismo.

Gli strumenti che abbiamo per non perdere di vista in primo luogo l’ideale di un mondo più equo e sostenibile e in secondo luogo la sua realizzazione non sono cambiati, vanno solo ripresi in mano. Le piazze, il voto come diritto e dovere, il web open source, l’ascolto dell’altro e il dialogo, la lettura dei classici, la salvaguardia attiva dei fondamenti, la coscienza individuale e collettiva, il silenzio, la riflessione, la discussione, la partecipazione libera.

La visione dominante, manipolatrice di coscienze e fomentatrice di aggressività, costantemente e capillarmente indotta dai “surfisti del tweet”, può e deve essere contrastata. Senza retrocedere di un passo. Resistendo e riconquistando terreno. Contrasteremo questa deriva clic per clic, strada per strada, poesia per poesia.

 

***

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Capitolo VI. Livorno porto aperto, la Diciotti e il regime di insicurezza

18.06.2018

Livorno

Prima dell’inizio del convegno, c’è il tempo di fare due passi. Il grande edificio del mercato ottocentesco è ancora attivo, mi riprometto di tornarci appena possibile per osservarne l’uso dello spazio e le nuove dinamiche relazionali. All’esterno, mi sembra che esso sviluppi delle propaggini, come una piazzetta-mercato dall’interessante mix etnico e culturale e una serie di luoghi di ritrovo, quali un frequentatissimo bar rimasto in perfetto stile anni Settanta, con analogo sapore di torrefazione.

Sul fronte mare, vi è il gruppo scultoreo dei Quattro Mori, dove tutto converge – o meglio convergeva. Dove la stella delle fortificazioni del Buontalenti abbracciava l’incipit della Via Grande, di fronte allo scalo portuale cinquecentesco. Eppure la scultura appare oggi isolata, quasi ignorata dalla città. Circondata da un’anonima aiuola con prato e ringhierina, e da una pavimentazione ancor più anonima. Senza essere fulcro spaziale né prospettico. Soprattutto senza avere più, come emerge dalla deriva urbana di ieri e oggi, alcuna valenza politica, ma di mera testimonianza di un potere passato; o forse, addirittura, soltanto della sua volontà di espressione, ormai tramontata da secoli e superata da una realtà di grande accoglienza urbana che riscatta le sculture. Mi sembra quasi che la storia abbia metabolizzato questo elemento e ce lo restituisca scevro di qualcosa che non riesco meglio a definire, riconsegnandocelo soltanto come un interessante monito culturale, che però torna tristemente attuale in questi giorni resi drammaticamente aspri dalla chiusura dei porti.

Per quanto riguarda la concezione dell’epoca del monumento, pare che lo scultore Pietro Tacca nel 1623-26 abbia preso a modello dei prigioni ospitati nei vicini Bagni delle Galere: ne nacquero il greco-ionico Morgiano, il turco Alì Melioco, il maghrebino Alì Salettino; e un Africano sub-sahariano senza nome, cosa che trovo non priva di mesto significato.

Mi abbasso fin quasi a terra per fotografare da sotto in su il gruppo scultoreo, cercando di rileggerne la concezione originaria.

Tra moli e tramontane, sul fronte mare della Darsena vecchia mi trovo spesso a starnutire. «Sono i pollini africani trasportati dai container e dal vento», mi spiega con fare esperto il gestore di uno strano chiosco, a forma di edicola, che vende cozze impanate, porgendole a me e a un signore d’ebano d’oltremare.

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Il sole picchia con i propri dardi sul porto canale e gli scali sul lato sud della pianta stellata della città. Tutto è torrido, dagli Scali degli Olandesi agli scali Manzoni.

Decidiamo di esplorare un quartiere esterno, ottocentesco. Data l’ora e l’afa, la zona è deserta. Tra chiese Valdesi, gigantesche querce, archeologie industriali, meccanici e pescherie mescolati con kebab, esempi di modernismo, terrazze chic con bancali ridipinti, la città riassume in sé dei caratteri alla mano e modaioli al tempo stesso, con molte atmosfere familiarmente legate agli anni ’50-’60.

In queste aree centrali e semi-centrali, lo spazio non è per nulla toccato dalle dinamiche proprie di altre città vicine e più ricche, come l’altera Pisa e la classica Firenze. Il tenore di vita della città, portuale e non turistica, secondo certe analisi apparirebbe più basso. Ma nonostante questo, dalle eccezionali quanto quotidiane scene osservate fin dall’arrivo, la qualità della vita mi appare più alta, mi sembra ci sia meno ricchezza ma più democrazia. In questo porto c’è qualcosa di decisamente paritario e aperto, tanto nei rapporti interpersonali quanto nell’uso degli spazi pubblici. E tutti parlano con toni morbidi, scherzano anche mentre lavorano duramente, si abbracciano mentre stendono le reti in centro città, nei caffè sorridono con meno fretta che altrove, alle bancarelle mercanteggiano senza ostinazione.

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Raggiungiamo con P. una pizza vesuviana-bella-napoli, familiare ed accogliente. Con le finestre spalancate alla brezza di mare dal profumo brillante, parliamo a lungo di cosa stia accadendo, della radicale chiusura dei porti per la nave Diciotti, ferma a Catania da giorni con 177 migranti, persone, a bordo. Ci chiediamo cosa sia in nostro potere, in quanto cittadini, per reagire a tutto questo.

Conversiamo preoccupati per la situazione che si aggrava a livello mediatico, per la deriva populista galoppante a vari livelli. Ci interroghiamo sui rischi di una massa influenzabile capillarmente attraverso i nuovi strumenti web: tecnologie nuove ma dinamiche già viste. Per certi versi, scherziamo, siamo un Paese in cui non sono inconsueti i piccoli balconi affacciati sulle folle, così come le gestualità antiche delle mani e del corpo in scena, siano esse politiche, religiose, teatrali. Forse per fortuna abbiamo ancora l’Angelus della nostra ultima figura d’integerrima “sinistra”, in questo periodo, oltre a coloro che invece escono su balconi di sedi istituzionali per esultare in diretta sui social network.

Ah, quanta fatica in meno rispetto a un tempo!, una volta a qualsiasi ometto occorreva sbracciarsi su piazze gremite, sforzare la voce senza microfoni; oggi basta un tweet.

Una sosta in un ottimo caffè dal sapore neoclassico, che espone un attestato di “gran classe” di cui i nipoti sono ancora molto fieri. Un gentile cubetto di ghiaccio tuffato nella tazzina mi trasporta più a sud.

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Alla chiusura dei lavori di oggi del convegno, i piedi ci portano in un una delle zone che finora preferisco, dopo essere passati per quello che sembra un ginnasio del Ventennio baciato dalla luce radente e, appena più in là, un centro politico di “antifascismo militante”, fino alla solita “piazza dei platani africani”, nella realtà toponomastica piazza XX settembre, concepita nel primo Ottocento.

Mi colpisce la presenza, nelle piazze di questa città, di una declinazione di statue simili, monumenti puntuali eretti a segnare la rappresentazione del potere. Hanno in apparenza un’unità di tempo, luogo e ispirazione notevole, nonché perfettamente integrata con gli invasi spaziali. Eppure i punti di vista delle prospettive, nel tempo, sono nascostamente mutati, in un brulichio di moltiplicazioni degli stessi.

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Granduchi marmorei sovradimensionati, che restano ormai austeri e buffi testimoni del nuovo tempo, rispettati ma per lo più ignorati per abitudine. Rimangono metaforicamente sostegno per il riposo di qualche uccello migratore, come i principi e le rondini di una fiaba non ancora scritta.

In realtà, scopro dall’Enciclopedia libera online, la statua di Leopoldo II che osservo fu traslata qui a fine anni ’50, dopo essere stata tenuta nascosta per oltre cent’anni nell’antro dell’Arsenale del porto, poiché danneggiata durante le insurrezioni del 1849, nella scia del fervore rivoluzionario europeo. All’origine essa si trovava nello splendido luogo che ieri sera ho chiamato “piazza del gioco del mondo”, in verità piazza della Repubblica o del Voltone.

Ma torniamo qui, nella piccola piazza a misura d’uomo, tra i bambini italiani-africani e italiani-asiatici che giocano a palla, tra le famiglie di varie lingue sedute ai piedi di Leopoldo come di un nonno. Intorno alla piazza, piccoli bar, piccole scommesse, piccolo commercio cinese, piccoli internet point indiani.

Al bar mi raccontano un altro pezzo della storia, con una splendida dose di ironia: fino a dieci anni fa, la statua svettava sul “Mercatino Americano” e le sue lamiere. La piazza è ancora chiamata così dai livornesi, mi dicono, perché quel mercato si è tenuto qui dal ’44 fino a quando è stato spostato presso la Marittima. Il racconto al bar da parte degli “urbanisti inconsapevoli”, ridisegnando le assenze, ricostruisce il tassello mancante nella lettura di questo spazio.

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I piedi mi portano verso un’immancabile passeggiata nel rione della Venezia, che fa da coronamento al pomeriggio, con il suo languore.

Camminando e non sapendo dove andare, mi torna in mente un suggerimento di A., un’osteria dichiaratamente antifascista lì vicino.

Essa si rivela un posto straordinario, un vero toccasana in queste settimane di puro avvilimento politico. L’accoglienza è un esempio di umanità. Diventiamo subito amici con un cameriere, un ragazzo di nome G., che trova per me un angolo libero nonostante io sia da solo e il locale sia pieno, dicendo «dai, stasera ti faccio compagnia pensando a cosa farti assaggiare, te fidi?». Come dire di no?

Tra poster giganti di Che Guevara, vecchia musica di sinistra e accenni di buona compagnia improvvisata, passo una sera che direi beata. Dalla cucina mi arrivano piatti squisiti e chiedo di spiegarmene le ricette marinare, che continuerò a cucinare nei mesi successivi (sarà indimenticabile, in seguito, l’occasione in cui preparerò una mia variante di hummus siculo-livornese a Montmartre, in compagnia di amici parigini e marsigliesi, parlando di porti).

Ceci e aringhe con prezzemolo e poco aglio, baccalà impanato che scotta su un brodetto di aceto e rosmarino, ravioli al baccalà con olive taggiasche e pinoli. Meravigliose contaminazioni tirreniche e mediterranee del porto franco. Tutto innaffiato da vernaccia e, alla fine, un ponce. Il relativo racconto è meraviglioso: «Livorno è sempre stata un porto. Anche un porto di pirati, certe volte. Per scaldarsi di notte, all’addiaccio, i marinai preparavano il ponce a base di rumme o rum fantasia, caffè bollente e scorzetta di limone. Questo è veramente livornese, ora puoi dire di essere stato a Livorno». Mi racconta anche dei britannici nel porto e delle avanguardie artistiche novecentesche nei “cantucci di sinistra” dei caffè. Mi scrive su un prezioso tovagliolo di carta la ricetta del ponce – che conservo ancora nella scatola degli oggetti raccolti durante il Periplo delle repubbliche marinare, sempre più ricca di tesori.

Scambiando due parole, G. mi chiede «Da dove vieni?», io apro la bocca ma, per la prima volta in vita mia, mi fermo a metà e rispondo, ridendo «Eh: bella domanda». Mi rendo conto che vengo dall’isola del sud dove sono nato e cresciuto, dalla laguna del nord che tanto a lungo ho amato; ma tra me e me, penso che arrivo qui e “provengo” anche dai viaggi attraverso il Mediterraneo e l’Europa che mi hanno formato, dai libri e dai film che mi hanno segnato, da tutti i mari e genti che ho assorbito in tanti porti aperti antichi e contemporanei.

Racconto a G. del viaggio che sto facendo e del perché, gli prometto che gli spedirò un dattiloscritto del libro/reportage, un domani, quando avrò finito di trascriverlo. Lo ringrazio dell’ospitalità e torno a passeggiare, contento, nella notte buia e tranquilla lungo il porto canale.

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Scrivo questi appunti all’alba, dopo una notte insonne, passata mangiando arance.

La realtà della “piazza dei platani africani”, qui accanto, pone seriamente una questione: l’accettazione o meno della frase “ecco il mondo di domani”. Impoverito di certo, ma in qualche modo creativo, non rassegnato; e con del colore. Senza questa linfa sarebbe solo più triste, con bici rubate al palo, qualche bottega squallida e saracinesche arrugginite, una presuntuosa vecchia piazza vuota, dai platani spogliati.

Invece così il dato di fatto è una piccola economia che si reinventa, in qualche modo forse resiliente, e fa di una qualità della vita più morbida uno dei propri obiettivi.

Ripenso anche al gruppo scultoreo dei Quattro Mori: ha un significato e una presenza davvero forti. Di rado ho visto opere così d’impatto sul tema. Mi vengono in mente gli Schiavoni del monumento al Doge Giovanni Pesaro, di Baldassarre Longhena, nella basilica dei Frari a Venezia (Nota 5), ma quel caso mi appare diverso, i mori sono ritratti come schiavi, è vero, ma pur essendo schiacciati dal peso della dominazione, programmatico e figurativo, in quanto telamoni hanno un ruolo, sorreggono la trabeazione e la narrazione di Venezia soprastante, raffigurata da statue che impersonano Religione, Valore, Concordia, Giustizia, genii, donne virtuose e lo stesso Doge. L’immagine che la Serenissima volle qui dare di sé, all’interno della chiesa, mi sembra comunque ben diversa dal gruppo di un Granduca che si erga trionfale sulle quattro etnie sottomesse e incatenate ai propri piedi, ostentata dinanzi allo scalo della Darsena, così realistiche nelle torsioni dei corpi scuri di bronzo, posta di fronte a corsari e ottomani lontani così come mercanti e pescatori vicini.

Pensando a tutto questo, tra insonnia e dormiveglia sogno di trovarmi davanti ai Quattro Mori in compagnia di un bambino indiano, con il quale parlo delle popolazioni soggiogate e aggiogate con le catene, mi domando l’origine delle vere persone ritratte, le loro vicende umane; e il bambino mi corregge: «non si dice popolazione, ma etnia: c’è dentro il senso della nostalgia». Non capisco, ma mi sveglio.

Nelle ultime ore della notte ho ascoltato i gabbiani, ora il rombo non futurista della città che si desta. Mi sembra che questo porto sappia dare una lezione straordinaria. Rifletto sul fatto che mi ci sento libero dentro, è uno spazio decisamente collettivo e in qualche modo poco normato, quantomeno rispetto al mondo austroungarico del Nordest in cui vivo (con tutti i suoi adorati vantaggi). Uno spazio vissuto dal basso e in modo paritario, a dispetto delle moltiplicate statue neoclassiche (e se queste hanno perso senso politico, figuriamoci cosa resterà dei tweet). A dispetto delle sue ingombranti fortezze. Le sue piazze e i suoi scali lungo il porto, torno torno la stella del Buontalenti, raccontano ben altro.

Nota 5. Un’affascinante lettura fenomenologica, poetica e umana, dei telamoni disegnati da Longhena può essere letta nella poesia “Dockers/Scaricatori” di Yves Bergeret, con traduzione di Francesco Marotta, a questo link).

Fine capitolo sesto

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Testi e foto di G. Asmundo, per gentile concessione dell’autore, ripresi dal sito di Gianluca Asmundo.

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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