Girando per Barcellona, in quanto afro-discendente e, soprattutto, in quanto essere umano dotato dei requisiti minimi di curiosità ed empatia, non posso fingere di non vedere i segni ancora tangibili dell’eredità schiavista del Paese che ho scelto temporaneamente come casa. Mentre salgo sul treno che da Estaciò de Sants porta a Matarò, non posso dimenticare il fatto che quella ferrovia, la prima costruita in Catalogna, fu finanziata dal ricavato del commercio del tabacco, della canna da zucchero e degli schiavi nell’isola di Cuba, che allora veniva chiamata Hispaniola; mettendo piede nella Sagrada Familia, prima ancora di essere colto dalle vertigini per la sindrome di Stendhal, non posso non riflettere sul fatto che Gaudì probabilmente non avrebbe potuto nemmeno iniziare il progetto senza il supporto finanziario della famiglia Guell, una delle tante famiglie influenti catalane che in passato fecero fortune immense con la tratta dei neri africani; entrando nelle filiali della mia stessa banca, non posso ignorare che essa, come altri istituti di credito iberici, nacque in risposta al bisogno di depositare gli ingenti proventi dello schiavismo nelle colonie americane in un fondo di risparmio e investimento; camminando per strada, gli occhi non possono rifuggire quelli rassegnati dei ragazzi sub-sahariani senza documenti, o chatarreros, mentre si infilano nella spazzatura alla ricerca di rottami ancora buoni da rivendere, tra i negozi di lusso e i turisti appollaiati ai gastrobar.
In questo scenario, mi sorge una domanda simile a quella che James Baldwin si sarebbe posto ammirando la maestosità architettonica e artistica delle città che visitò durante il suo viaggio in Europa: cosa mi appartiene di tutta questa grandiosità, di tutta questa magnificenza? Posso dire di farne parte anche io, o dovrei acquietare il mio spirito negro tormentato e accettare passivamente il ruolo di osservatore esterno ai miti e ai fasti della luminosa civiltà europea? Eppure, io so da dove vengo, porto ancora il cognome di mio padre e in più sono cittadino europeo. Allora da dove nasce questo sentimento di assenza a ciò che mi circonda?
Con il libro Perdi la madre, pubblicato negli USA nel 2007, tradotto in italiano da Valeria Gennari e pubblicato nel 2021 per Tamu Edizioni, la scrittrice ed accademica afro-americana Saidiya Hartman è riuscita a mettere in parole tale sentimento di mancanza al mondo e a sé stessa condiviso da molti afro-discendenti, specie coloro che a causa dello schiavismo hanno perso ogni tipo di relazione con le proprie origini ancestrali:
Era per questo che a volte mi sentivo così stanca dell’America come se anch’io fossi sbarcata in quella che è oggi la Carolina del Sud nel 1526 o a Jamestown nel 1619? Era per questo richiamo di madri perdute e di orfani? O per il fatto che ogni generazione sentiva sempre in modo nuovo il giogo di una vita danneggiata e l’angoscia di essere un nativo straniero, un eterno alieno? Stavo vagando in una prigione di schiavi non tanto perché speravo di scoprire che cosa era davvero accaduto qui ma che cosa di questa storia era sopravvissuto. Altrimenti perché iniziare un’autobiografia in un cimitero?
Dal prologo al dodicesimo capitolo, Perdi la madre descrive in maniera egregia, oggettiva e spietata la vera natura della tratta euro-cristiana degli schiavi neri – o per meglio dire, dei neri schiavizzati – perpetrata dal XV sino alla fine del XIX secolo per soddisfare i futili appetiti e i desideri di guerra di re e mercanti africani in concerto con le crescenti necessità economico-industriali delle nazioni occidentali. Attraverso interessanti riferimenti autobiografici ed un vasto apporto di fonti e testimonianze dell’epoca, Hartman non solo ci offre informazioni dettagliate sugli eventi aberranti di cui i popoli africani sono stati vittime sacrificabili – eventi che continuano ad essere criminosamente riassunti in un paragrafo o due nei libri di storia nazionali e non– ma riesce a mettere in luce con successo anche le conseguenze attuali dell’esperienza disumanizzante e traumatica della schiavitù nella diaspora afro-discendente, i cui membri, malgrado i contesti culturali differenti, ancora oggi faticano a farsi riconoscere a livello globale come esseri umani per intero e, perciò, a godere a pieno di quei diritti inalienabili così ben specificati nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Ed è proprio l’inguaribile sentimento di assenza (o doppia assenza, come vedremo a breve) il motore che spinge l’autrice di Brooklyn, come altre migliaia di neri americani annualmente, ad affrontare il viaggio della memoria in Africa Occidentale, sulla rotta della schiavitù trans-sahariana e trans-atlantica. In questo caso particolare, il territorio considerato è la regione che prima del 6 Marzo 1957 veniva definita Costa d’oro e che oggi è il Ghana. Il castello schiavile di Elmina, quello di Cape Coast, il mercato di Salaga, la città fortificata di Gwolu, sono i luoghi nei quali l’autrice ci accompagna tramite le sue analisi e riflessioni; luoghi che furono teatro di orrori inenarrabili e che solo negli ultimi anni sono stati adibiti a centri di “attrazione” per i turisti del dolore.
Disarmante è la sottigliezza con la quale Hartman esamina le rispettive percezioni tra i neri della diaspora e gli autoctoni, come se diagnosticasse i sintomi di un’infezione, endogena ed esogena allo stesso tempo, della quale entrambe le parti non sembrano voler comprendere le cause né trovare una soluzione. Da una parte c’è una vocazione ad anelare il nostos e l’accettazione nei discendenti degli schiavi i cui bisogni appaiono “astratti e naif” se comparati a quelli più “concreti ed impellenti” dei ghanesi, i quali al contrario agognano la fuga da un contesto post-coloniale e, ahimè, pagherebbero pur di farsi deportare in Occidente come schiavi moderni. Questo rapporto conflittuale tra i due gruppi viene esplicitato dall’autrice nel passo che segue:
Il middle passage è stato il canale della nascita che ha generato la tribù. Il middle passage è stato il canale di morte nel quale «l’africano è morto a ciò che era e a ciò che sarebbe potuto essere… La tribù del middle passage era tornata in Africa, ma non possedeva stirpe, clan, o villaggio alcuno, tutti elementi essenziali che definivano l’appartenenza agli occhi dei ghanesi. L’arrivo di africani americani a Elmina non si poteva certo definire un ritorno a casa. Era piuttosto la continuazione della lunga tradizione locale di affittare la terra agli stranieri, iniziata già nel quindicesimo secolo con l’arrivo dei portoghesi.
Ciò che rende unico nel suo genere Perdi la madre rispetto ad altri libri sullo stesso tema è la visione che illumina l’investigazione dell’autrice: “è solo quando perdi la madre che essa diviene un mito”. Le investigazioni di Hartman non hanno come scopo la riscoperta del proprio lignaggio o di una linea di parentela nella Terra Madre, come nel caso di Alex Haley, dal momento che lei stessa è drammaticamente consapevole del fatto che la distruzione dei sistemi familiari causata dalla tratta euro-cristiana nel corso del tempo ha reso quasi impossibile per la maggior parte degli afroamericani tracciare un collegamento tra il presente e quanto accadde durante quei cinquecento anni. Accettando la realtà per quello che è, e con il pessimismo esistenziale che esso comprensibilmente comporta, Hartman specifica che l’obiettivo del suo viaggio è di ritrovare ciò che rimane di quei giorni bui, una voce o una testimonianza che possa riempire il vuoto abissale di una identità saccheggiata e trasformata in merce:
Ma la folla stipata in quella stanza sarebbe rimasta senza nomi e senza volti. Era quella la natura del crimine che aveva trasformato le persone in merci. Era ormai impossibile riempire gli spazi vuoti. L’amore agognava un oggetto, ma gli schiavi non c’erano più. Nelle segrete, sentire la mancanza dei morti era ciò che più poteva avvicinarmi a loro. E il fango sul pavimento era tutto ciò che esisteva tra l’artificio e l’oblio
Perdi la madre non è un’opera che aiuta a pensare in modo semplice, anzi l’opposto, non fa sconti a nessuno. L’esegesi approfondita che la Hartman offre del sistema schiavista va ben oltre la visione semplicistica con cui siamo stati abituati a leggere la Storia, la classica narrativa del bianco europeo, crudele e colonizzatore, che arriva sulle coste africane e “magicamente” rende schiavo l’uomo nero africano, innocente e inconscio di quanto stesse succedendo. L’autrice narra con precisione come la pratica della schiavitù, già presente in Africa seppur priva del concetto mortifero di razza, sia andata modificandosi nel tempo, a seconda della “mano d’acciaio della necessità” delle società coinvolte nel traffico, riprendendo la definizione poetica di Foucault. Ad esempio, da quando i primi mercanti portoghesi catturavano schiavi dal Congo per poi rivenderli ai mercanti e capi Asante. Solo in un secondo momento questi ultimi cominciarono a vendere i prigionieri di guerra e gli indesiderati delle nazioni limitrofe ai mercanti bianchi; quando la domanda di schiavi aumentò allora cominciarono a vendere la propria gente, ovviamente, persone già sacrificabili all’interno della società e per le quali solo una madre, dei fratelli o i figli avrebbe pianto il loro destino su una nave negriera in viaggio verso l’ignoto. Come menzionato nel libro, all’epoca era pressoché impossibile immaginare un mondo senza schiavi, tant’è che anche nei casi di rivolte riuscite contro padroni bianchi, spesso i ribelli – appartenenti alla classe aristocratica dei Paesi di provenienza, non tardavano a ristabilire rapporti di potere sul resto della popolazione schiavizzata simili a quelli vigenti tra europei e africani:
In Ghana la schiavitù non era un grido di battaglia contro i crimini dell’Occidente o le malvagità dei bianchi; al contrario, essa frantumava ogni illusione di unanimità di sentimento nel mondo nero, e rivelava la fragilità e la precarietà di quel grandioso collettivo noi che non era ancora stato realizzato.
Perdi La Madre è una lettura dolorosa, tanto che in alcuni punti può risultare addirittura fastidiosa, per come l’autrice riesce a raffigurare vividamente la realtà agghiacciante nella quale le genti africane erano obbligate a macerare. Non si tratta di porno della sofferenza, ma di pure giornalismo storico. Confesso di non aver saputo trattenere per più volte delle risate isteriche con la testa affondata nel cuscino come forma di pianto; non so come, ma davanti a certi crimini di massa annichilenti e meticolosamente studiati pure le lacrime rifiutano di mostrarsi. Allo stesso modo Perdi la madre è una lettura urgente, e sicuramente questa recensione non basterà a rendere grazie al lavoro monumentale di Hartman nel reperire tutte i dati presenti nel testo.
La sua opera apre gli occhi non solo su cosa fu la schiavitù dei neri – dalle cui ferite ancora gronda sangue copioso – ma anche sulle nuove forme di schiavitù sparse per il mondo (e presenti anche in Italia) con le quali, ora come allora, le nostre società civili hanno imparato spaventosamente a convivere.
Chukwuemeka Attilio Obiarinze: Sono nato a Como da genitori nigeriani, mi sono laureato in Lettere e Filosofia a Bologna e trasferito a Barcellona per frequentare un master in Turismo Sostenibile. Durante l’adolescenza ho scoperto nella scrittura e nella musica un modo per esprimere la mia prospettiva sul mondo e una soluzione per esistere finalmente.
Immagine di copertina: Michelle Angela Ortiz, “Se Siente el Miedo”.