Perché Israele ha giustiziato Shireen Abu Akleh? – Steven Salaita

AP_22133144897717-1300x500Shireen

Subito dopo che i soldati israeliani hanno giustiziato la giornalista di Al-Jazeera Shireen Abu-Akleh e sparato su un gruppo di suoi colleghi, molti hanno iniziato a interrogarsi sulle motivazioni dietro a un atto tanto terribile. Perché Israele aveva deciso di uccidere una giornalista acclamata in tutto il mondo arabo? Una non combattente che aveva addosso il distintivo appropriato che la identificava come membro della stampa? Una palestinese di alto profilo con cittadinanza statunitense? Nella migliore delle ipotesi, si poteva giudicare una mossa spregiudicata dal punto di vista delle relazioni pubbliche. La cosa non aveva alcun senso.

Eccetto che in effetti un senso ce l’aveva: da un certo punto di vista l’uccisione di Abu-Akleh è dolorosamente sensata.

È naturale cercare spiegazioni razionali per quelli che sembrano atti di violenza insensati. La spiegazione dipende dalle condizioni materiali, e quindi dobbiamo comprendere la situazione nel contesto della colonizzazione dei coloni sionisti. Utilizzando il metro della logica umanistica che prevale nella maggior parte delle società civili, la condotta di Israele è stata perlomeno sconcertante: i suoi soldati hanno ucciso una civile in piena vista di persone il cui compito è riportare notizie. Quei soldati erano pienamente consapevoli di non poter mantenere segreto il loro atto e che prendere di mira i giornalisti avrebbe suscitato indignazione in tutto il mondo. Eppure lo hanno fatto comunque.

Come mai?

Per arrivare a una risposta, dobbiamo discernere i tratti della psiche del colonizzatore. In primo luogo, non abbiamo a che fare con standard normali della società civile. Il contesto di riferimento è quello dell’occupazione militare, in cui la violenza di Stato gratuita è normale. Ovviamente, l’uccisione di Abu-Akleh ha l’immediato vantaggio di mettere a tacere una voce di spicco della resistenza palestinese, che da tempo denunciava i crimini di aggressione israeliani.

Tuttavia c’è molto di più in questa storia.

Dobbiamo anche esplorare quali siano i presupposti che stanno alla base del desiderio di arrivare a spiegazioni lineari. Interrogandosi in continuazione sulle motivazioni, gli osservatori finiscono per cercare risposte a domande incongrue che li portano a implicare tacitamente le vittime nella loro stessa sofferenza.  Il presupposto è che i giornalisti devono aver fatto qualcosa. Ci doveva essere stata una provocazione. I soldati israeliani non si limitano a sparare a persone innocenti per il gusto di farlo.

Invece ciò descrive esattamente le azioni abituali dei soldati israeliani. Negli ultimi due decenni Israele ha ucciso una cinquantina di giornalisti. Se fossero solo uno o due potrebbe trattarsi di un’aberrazione. Cinquanta è una prassi.

Per avere risposte sulla violenza del colonizzatore non è necessario dirigere lo sguardo verso il comportamento della vittima. È la colonizzazione la causa della violenza del colonizzatore.

Quindi non c’è bisogno di ‘leggere’ le ragioni per l’omicidio di Abu-Akleh seguendo la strada della logica di una sorta di decenza civica. Il colono non ha bisogno di una “motivazione” per uccidere il nativo. Il colono uccide perché sradicare la popolazione indigena è il presupposto della sua identità sociale. È una funzione del suo status giuridico e della sua posizione di classe. Le forze israeliane hanno ferocemente attaccato la folla che trasportava la bara di Abu-Akleh, abusando la nostra amata martire anche nella morte, il che conferma solo il fatto che il colono uccide proprio quando è messo di fronte alla vulnerabilità dei nativi. Lo scopo più ‘alto’ nella sua violenza non è uccidere semplicemente per produrre morte bensì uccidere per negare l’esistenza dei nativi.

Le forze israeliane hanno attaccato il cadavere di Abu-Akleh perché ucciderla non era sufficiente; sentivano il bisogno di cancellarla da una terra da essi rivendicata per mandato divino in quanto il suo stesso corpo è un ostacolo al diritto di nascita mitologico che sta alla base dell’intero senso di sé del colono. In altre parole: deve essere resa inesistente affinché il colono sopravviva. Questa è la logica che li induce a profanare gli antichi cimiteri musulmani e a piantare fiori sulle rovine di villaggi palestinesi etnicamente ripuliti.

Di conseguenza, le stesse forze di polizia israeliane hanno attaccato centinaia di persone in lutto non perché fossero ribelli, ma perché non erano anche loro nella bara.

La violenza del colono, insomma, è infinita. È l’unico modo in cui tale soggetto sa essere un buon cittadino. Ed è l’unico modo in cui, alla fine, può immaginare un’esistenza che abbia un senso.

Tradotto dall’inglese da Pina Piccolo dal post  Why Did Israel Execute Shireen Abu-Akleh  apparso nel blog dell’autore No flags No Slogans il 13 maggio 2022,

 

81T-ZHsNvoL._UY200_

Steven Salaita è uno scrittore, studioso e conferenziere di origine palestinese e giordana nato negli Stati Uniti, e che ha a suo attivo otto libri su decolonizzazione, studi nativi americani, migrazione, razzismo (particolarmente anti arabo) e letteratura. Nel 2014 è stato al centro dell’attenzione statunitense quando per i suoi tweet a favore della Palestina e che denunciavano  l’occupazione, l‘assedio e la guerra contro Gaza messa in atto da Israele, l’Università dell’Illinois gli ritirò la cattedra di studi nativi americani che gli era stata appena assegnata.  È blogger nel suo sito Steve Salaita – No Flags, No Slogans.

 

 

 

 

 

Immagine di copertina: Foto di murales  ripresa dal sito di Columbia Journalism Review

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

Pagina archivio del macchinista