La prima parte di questa selezione poetica con un’introduzione la trovate nel numero 20 di LMS, qui
VIII
Testimunio
Confesso di non saper odiare
mi arrabbio con intensità
talvolta provo anche furore
ma non so come si possa volere
il male di una persona
senza mancare all’amore.
Qualcuno dice che amare
sia la prassi delle famiglie
l’esclusivismo delle amicizie
le prelibatezze psico-erotiche delle coppie
o quelle pantomime nazionaliste
puntute di merletti acidi o razzisti.
Questo come, molte cose non so
ma oggi come – spero – domani
non riesco ad odiare né a dimenticare
i bianchi o i poliziotti che – ancora una volta –
hanno ucciso George Floyd
IX
Guardo al cielo ogni giorno
al mattino
nel pomeriggio
ed ogni notte.
Una voce sottile mi dice
che forse – lì – cerco me stesso
mentre io sorrido sapendo
che – lì – proprio lì
mi perdo
X
Eppure le guerre continueranno ancora
come i rancori che non si arrestano al sole
il sangue alternato alle parole
non per fame o disperazione
ma per mera ottusità fatta vessillo della ragione
eppure la domanda da porre
è quale sia lo spazio di noi dentro l’amore.
Non esiste infatti domanda più banale e fondamentale
per chi – come me – pretende di esistere
XI
Oltre la dipendenza
a Giulio
Ho molta gioia nel petto ancora
nei polmoni e nelle narici
che si estende poi a tutto il corpo
nonostante la noia, il dolore
la voglia di rinunciare
ed il rispetto che si frantuma.
Il mondo sembra sovente
un cerchio infuocato
dove non si muore – veramente –
ma si rinuncia per (ridicoli) assoluti.
Se il centro di una cosa
– qualsiasi – è un punto
con parti tonde e sfumature
che tendono all’infinito
credo di aver trovato il corollario
di chi si eterna in gratitudine.
XII
Dicono “Per aspera ad astra”
L’aria immobile riecheggia l’eternità
no non è vero
ma parla invece dell’affitto insoluto
per il lavoro soppresso
del prezzo della benzina
dei figli diventati alibi
alla disillusione e alla paura
delle comunità online
diventate orizzonti di ferro
di un mondo piccolo
con virtù decantate
in attesa d’aria
della magra consolazione politica
che sbatte nei confini
la sua frustrazione imperitura
del coraggio che manca
– ogni volta – alla diversità
all’eccezione ed alla laica solitudine
della quotidianità
svuotata del suo seme più dolce
e talvolta persino al sillogismo
di una direzione
delle mascherine colorate
– carissime – che confondono
il respiro con il fiato
per uno stordimento narcotico
solipsistico dell’io
e infine dei contatti negati o rarefatti
che parlano delle distanze
come forme tangibili
di un male sociale che ha ormai
superato i limiti organici e psichici
questo perché l’eternità immobile
ha ovviamente le sue leggi
le sue crepe ma – animula vagula blandula –
serve animo – appunto –
tempo e spazio
per poter distruggere
l’illusione di vivere
r.c (notte tra 31 Luglio e 1 Agosto 2020, Belgioioso, Saman-Anteo)
Postfazione critica: Lo spazio letterario nell’epoca della pandemia globale
di Filippo Menozzi
Nel leggere queste bellissime poesie, non posso fare a meno di notare un paradosso: queste parole mi conducono in uno spazio infinitamente intimo, mi portano ad immaginarmi, a fianco dell’autore, a perdermi e ritrovarmi nella visione del cielo nelle diverse ore del giorno, in mezzo ad un affollato silenzio. Eppure, al tempo stesso, queste sono poesie che mi giungono da una infinita lontananza, anche dovuta al fatto che la pandemia mondiale mi impedisce ogni sorta di vicinanza, di contatto. L’autore ci suggerisce come la visione del cielo sia lo spazio in cui, in questa condizione, dobbiamo cercare noi stessi e in cui, però, ripetutamente ci perdiamo. La mia lettura è segnata profondamente dal paradosso di questa intimità lontana, di questa ricerca che viene resa possibile solo nell’atto in cui si riscopre in quanto perdita.
In queste poesie, mi cattura questa immagine ricorrente di uno spazio che sembra essere superficialmente costretto e delimitato ma si rivela infinitamente grande, sublime, senza misura. Così la vita viene immaginata come un cerchio abbracciato da cerchi sempre più grandi, la persona come “incastonata nell’infinito,” il centro di ogni cosa un punto che tende all’infinito, la rabbia per il razzismo complice col potere si rivela il luogo di un più grande sentimento di amore e compassione. Allo stesso modo, l’eternità che sembra riecheggiare nell’aria è contenuta dalle miserie quotidiane: l’unica possibilità di trascendenza è nelle minuzie che turbano la nostra vita di ogni giorno. L’amore è precisamente questo spazio: una grandezza infinita avvolta in un contenitore che sembra incapace di contenerla, un po’ come una specie di nastro di Möbius: il prodotto di una torsione in cui interno ed esterno si scambiano il posto. Mi chiedo se queste poesie possano suggerire una riflessione sul tema del confinamento, come una sorta di risposta alla domanda se sia possibile scrivere una poesia durante una pandemia, forse riscoprendo uno spazio letterario che non sia semplicemente cronaca di un disagio globale, ma piuttosto un vero e proprio luogo eterotopico, un altrove realmente esistente ma capace di contestare la durezza e le determinazioni della realtà.
Nel suo capolavoro La Storia della Follia, il filosofo francese Michel Foucault descrive la condizione paradossale di coloro che, nell’Europa rinascimentale, venivano sottoposti ad un regime di allontanamento dalla società: mentre da un lato, il confinamento significava esclusione e distanziamento, solitudine e negazione del contatto umano, questa condizione apriva al soggetto uno spazio infinitamente più esteso, un crocevia infinito in uno spazio sublime, aperto da ogni lato. La cosiddetta “nave dei folli” rendeva coloro che venivano esclusi e “banditi” cittadini di uno spazio trasversale, un immenso intervallo nell’al di là dei luoghi abitati. Il confine non era una linea senza dimensioni ma uno spazio di estensione incerta e illimitata. Il vero confinamento, quindi, non appare tanto nella costrizione fisica, nel distanziamento, nella chiusura, ma proprio nell’essere prigionieri di questa infinita apertura. Foucault lo descrive come un essere “prigionieri del passaggio.”
Questi temi, nell’epoca di una pandemia mondiale, non possono essere più relegati ai margini e all’inconscio politico delle società contemporanee: il paradosso di questo “crocevia infinito,” l’essere “prigionieri di un passaggio” ormai sembra essersi diffuso universalmente, tra chiusure dei confini e biopolitiche di sorveglianza del movimento e del corpo umano. In questo contesto, le differenze prodotte dal capitalismo globale e le sue logiche di discriminazione ci rendono sempre meno uniti. L’immobilità prodotta dalla pandemia non è semplicemente geografica, ma sembra essere una chiusura dell’immaginazione: le lotte del ventunesimo secolo sembrano essere animate da un pessimismo dell’intelletto, si definiscono attraverso il loro nemico – il razzismo, l’estinzione e la distruzione ecologica, la discriminazione di genere – ma sembra mancare una grande narrativa, un nome positivo per il mondo alternativo che vogliamo, un contenuto affermativo e non solo la giusta e immancabile lotta contro la discriminazione e lo sfruttamento.
L’unica possibilità di ricostruire un’idea del futuro è racchiusa in questo spazio paradossale che queste poesie sembrano suggerire, nel riscoprire delle immensità nel dettaglio quotidiano, nello scoprire come il percorso a ritroso attraverso cui cerchiamo di ritrovare noi stessi sia, in fin dei conti, lo stesso crocevia infinito attraverso cui ripetutamente ci perdiamo. L’autore ci dice che la possibilità di trasformare l’ansia in speranza sia un’occasione mancata. Forse è proprio in quanto archivio di quello spazio e quella tensione che anima queste occasioni mancate che la poesia può aiutare a costruire un solido principio di speranza per il nostro secolo di conflitti e ingiustizie.
Filippo Menozzi è Lettore di letteratura post-coloniale e letteratura mondo all’Università John Moores di Liverpool, dopo aver conseguito il dottorato all’università di Kent. La sua prima pubblicazione monografica intitolata Post Colonial Custodianship: Cultural and Literary Inheritance (Routledge 2014) si confronta con il pensiero di studiosi e critici della levatura di Arundathi Roy e Gayatri Chakavorty Spivak per reimpostare la figura dell’intellettuale postcoloniale. Con il termine “custodianship” intende affrontare la formazione di un soggetto etico capace di andare oltre sia il ‘nativismo’ che l’appropriazione culturale. Il suo libro più recente World Literatures, Non-Synchronism and the Politics of Time, Palgrave 2020 ha ricevuto ampi consensi accademici e di critica.