Per un’appendice a un Corona (Parte II) di Reginaldo Cerolini con Postfazione critica di Filippo Menozzi

NEW YORK CITY USA 2012

La prima parte di questa selezione poetica con un’introduzione la trovate nel numero 20 di LMS, qui

VIII

 

Testimunio

Confesso di non saper odiare

mi arrabbio con intensità

talvolta provo anche furore

ma non so come si possa volere

il male di una persona

senza mancare all’amore.

Qualcuno dice che amare

sia la prassi delle famiglie

l’esclusivismo delle amicizie

le prelibatezze psico-erotiche delle coppie

o quelle pantomime nazionaliste

puntute di merletti acidi o razzisti.

Questo come, molte cose non so

ma oggi come – spero – domani

non riesco ad odiare né a dimenticare

i bianchi o i poliziotti che – ancora una volta –

hanno ucciso George Floyd

 

 

IX

 

Guardo al cielo ogni giorno

al mattino

nel pomeriggio

ed ogni notte.

Una voce sottile mi dice

che forse – lì – cerco me stesso

mentre io sorrido sapendo

che – lì – proprio lì

mi perdo

 

 

X

 

Eppure le guerre continueranno ancora

come i rancori che non si arrestano al sole

il sangue alternato alle parole

non per fame o disperazione

ma per mera ottusità fatta vessillo della ragione

eppure la domanda da porre

è quale sia lo spazio di noi dentro l’amore.

Non esiste infatti domanda più banale e fondamentale

per chi – come me – pretende di esistere

 

 

XI

 

Oltre la dipendenza

a Giulio

 

 

Ho molta gioia nel petto ancora

nei polmoni e nelle narici

che si estende poi a tutto il corpo

nonostante la noia, il dolore

la voglia di rinunciare

ed il rispetto che si frantuma.

Il mondo sembra sovente

un cerchio infuocato

dove non si muore – veramente –

ma si rinuncia per (ridicoli) assoluti.

Se il centro di una cosa

– qualsiasi – è un punto

con parti tonde e sfumature

che tendono all’infinito

credo di aver trovato il corollario

di chi si eterna in gratitudine.

 

 

XII

 

Dicono “Per aspera ad astra”

 

 

L’aria immobile riecheggia l’eternità

no non è vero

ma parla invece dell’affitto insoluto

per il lavoro soppresso

del prezzo della benzina

dei figli diventati alibi

alla disillusione e alla paura

delle comunità online

diventate orizzonti di ferro

di un mondo piccolo

con virtù decantate

in attesa d’aria

della magra consolazione politica

che sbatte nei confini

la sua frustrazione imperitura

del coraggio che manca

– ogni volta – alla diversità

all’eccezione ed alla laica solitudine

della quotidianità

svuotata del suo seme più dolce

e talvolta persino al sillogismo

di una direzione

delle mascherine colorate

– carissime – che confondono

il respiro con il fiato

per uno stordimento narcotico

solipsistico dell’io

e infine dei contatti negati o rarefatti

che parlano delle distanze

come forme tangibili

di un male sociale che ha ormai

superato i limiti organici e psichici

questo perché l’eternità immobile

ha ovviamente le sue leggi

le sue crepe ma – animula vagula blandula –

serve animo – appunto –

tempo e spazio

per poter distruggere

l’illusione di vivere

 

 

r.c           (notte tra 31 Luglio e 1 Agosto 2020, Belgioioso, Saman-Anteo)

 

 

Postfazione critica: Lo spazio letterario nell’epoca della pandemia globale

di Filippo Menozzi

 

Nel leggere queste bellissime poesie, non posso fare a meno di notare un paradosso: queste parole mi conducono in uno spazio infinitamente intimo, mi portano ad immaginarmi, a fianco dell’autore, a perdermi e ritrovarmi nella visione del cielo nelle diverse ore del giorno, in mezzo ad un affollato silenzio. Eppure, al tempo stesso, queste sono poesie che mi giungono da una infinita lontananza, anche dovuta al fatto che la pandemia mondiale mi impedisce ogni sorta di vicinanza, di contatto. L’autore ci suggerisce come la visione del cielo sia lo spazio in cui, in questa condizione, dobbiamo cercare noi stessi e in cui, però, ripetutamente ci perdiamo. La mia lettura è segnata profondamente dal paradosso di questa intimità lontana, di questa ricerca che viene resa possibile solo nell’atto in cui si riscopre in quanto perdita.

 

In queste poesie, mi cattura questa immagine ricorrente di uno spazio che sembra essere superficialmente costretto e delimitato ma si rivela infinitamente grande, sublime, senza misura. Così la vita viene immaginata come un cerchio abbracciato da cerchi sempre più grandi, la persona come “incastonata nell’infinito,” il centro di ogni cosa un punto che tende all’infinito, la rabbia per il razzismo complice col potere si rivela il luogo di un più grande sentimento di amore e compassione. Allo stesso modo, l’eternità che sembra riecheggiare nell’aria è contenuta dalle miserie quotidiane: l’unica possibilità di trascendenza è nelle minuzie che turbano la nostra vita di ogni giorno. L’amore è precisamente questo spazio: una grandezza infinita avvolta in un contenitore che sembra incapace di contenerla, un po’ come una specie di nastro di Möbius: il prodotto di una torsione in cui interno ed esterno si scambiano il posto. Mi chiedo se queste poesie possano suggerire una riflessione sul tema del confinamento, come una sorta di risposta alla domanda se sia possibile scrivere una poesia durante una pandemia, forse riscoprendo uno spazio letterario che non sia semplicemente cronaca di un disagio globale, ma piuttosto un vero e proprio luogo eterotopico, un altrove realmente esistente ma capace di contestare la durezza e le determinazioni della realtà.

 

Nel suo capolavoro La Storia della Follia, il filosofo francese Michel Foucault descrive la condizione paradossale di coloro che, nell’Europa rinascimentale, venivano sottoposti ad un regime di allontanamento dalla società: mentre da un lato, il confinamento significava esclusione e distanziamento, solitudine e negazione del contatto umano, questa condizione apriva al soggetto uno spazio infinitamente più esteso, un crocevia infinito in uno spazio sublime, aperto da ogni lato. La cosiddetta “nave dei folli” rendeva coloro che venivano esclusi e “banditi” cittadini di uno spazio trasversale, un immenso intervallo nell’al di là dei luoghi abitati. Il confine non era una linea senza dimensioni ma uno spazio di estensione incerta e illimitata. Il vero confinamento, quindi, non appare tanto nella costrizione fisica, nel distanziamento, nella chiusura, ma proprio nell’essere prigionieri di questa infinita apertura. Foucault lo descrive come un essere “prigionieri del passaggio.”

 

Questi temi, nell’epoca di una pandemia mondiale, non possono essere più relegati ai margini e all’inconscio politico delle società contemporanee: il paradosso di questo “crocevia infinito,” l’essere “prigionieri di un passaggio” ormai sembra essersi diffuso universalmente, tra chiusure dei confini e biopolitiche di sorveglianza del movimento e del corpo umano. In questo contesto, le differenze prodotte dal capitalismo globale e le sue logiche di discriminazione ci rendono sempre meno uniti. L’immobilità prodotta dalla pandemia non è semplicemente geografica, ma sembra essere una chiusura dell’immaginazione: le lotte del ventunesimo secolo sembrano essere animate da un pessimismo dell’intelletto, si definiscono attraverso il loro nemico – il razzismo, l’estinzione e la distruzione ecologica, la discriminazione di genere – ma sembra mancare una grande narrativa, un nome positivo per il mondo alternativo che vogliamo, un contenuto affermativo e non solo la giusta e immancabile lotta contro la discriminazione e lo sfruttamento.

 

L’unica possibilità di ricostruire un’idea del futuro è racchiusa in questo spazio paradossale che queste poesie sembrano suggerire, nel riscoprire delle immensità nel dettaglio quotidiano, nello scoprire come il percorso a ritroso attraverso cui cerchiamo di ritrovare noi stessi sia, in fin dei conti, lo stesso crocevia infinito attraverso cui ripetutamente ci perdiamo. L’autore ci dice che la possibilità di trasformare l’ansia in speranza sia un’occasione mancata. Forse è proprio in quanto archivio di quello spazio e quella tensione che anima queste occasioni mancate che la poesia può aiutare a costruire un solido principio di speranza per il nostro secolo di conflitti e ingiustizie.

 

 

unnamed (1)Filippo Menozzi

Filippo Menozzi è Lettore  di letteratura post-coloniale e letteratura mondo all’Università John Moores di Liverpool, dopo aver conseguito il dottorato all’università di Kent. La sua prima pubblicazione monografica intitolata Post Colonial Custodianship: Cultural and Literary Inheritance (Routledge 2014) si confronta con il pensiero di studiosi e critici della levatura di Arundathi Roy e Gayatri Chakavorty Spivak  per reimpostare  la figura dell’intellettuale postcoloniale. Con il termine “custodianship”  intende  affrontare la formazione  di un soggetto etico capace di andare oltre  sia il ‘nativismo’ che l’appropriazione culturale.  Il suo libro più recente World Literatures, Non-Synchronism and the Politics of Time, Palgrave 2020 ha ricevuto ampi consensi accademici e di critica.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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