Per darci la sorte di un’umana gioia, brani da “Comunità” di Reginaldo Cerolini, con nota introduttiva di Pina Piccolo

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Nota introduttiva di Pina Piccolo

La dipendenza da droga: esperienza umana che interessa fasce sempre più larghe della popolazione, specialmente giovanile, oggi in Italia ma che si preferisce ignorare, esorcizzare o relegare a fardello da addossare alle singole famiglie interessate direttamente. In questo scritto “Comunità”, che il macchinista Reginaldo Cerolini offre in anteprima ai lettori de La Macchina Sognante, egli attinge dalla sua attuale dolorosa esperienza personale utilizzando una densa scrittura e le sue doti analitiche per impedire la fuga delle nostre coscienze. Egli ci incalza sempre più da vicino con descrizioni e riflessioni stimolanti e strazianti allo stesso tempo su cosa significa “Comunità” nel senso di insieme di persone unite in una battaglia comune per riconoscere e superare un male (superficiale e profondo nel contempo), scandagliare le profondità del desiderio umano, svolgere indagini sul concetto e le prassi di comunità in senso lato, antropologico e storico, scrutando dal suo osservatorio privilegiato isolato dalla società ‘produttiva’, per arrivare forse a uno sguardo più cristallino.

Riuniti in uno Zibaldone da ventunesimo secolo, dalla struttura mista fra saggio, raccolta di aforismi, diario personale e comunitario, prosa poetica e memorialistica, questi stralci dall’opera in progress di Reginaldo Cerolini si alternano nello spalancare per chi legge finestre, fessure, spiragli, botole, lucernari su mondi di dolore, redenzione, complicità, tradimenti, esigenze dei corpi, sincerità, ribellioni, gioie che appartengono sì a un’esperienza umana specifica, quella della dipendenza sperimentata dallo scrittore e degli sforzi comuni, appunto in “Comunità”,  per il suo superamento, ma diventa anche metafora di un tentativo di creare senso in maniera più allargata. La ‘comunità’ più piccola, uno spazio ‘interno’ protetto dagli azzardi esterni per un tempo limitato proteso verso la guarigione, non può che essere nel contempo l’inevitabile specchio dell’esterno, diventa uno sperimento per arrivare a una ‘comunità’ come modo di stare in un mondo che, in questa fase storica, non si può non riconoscere che come malato e moribondo (un groviglio di sindromi morbose per dirla con Gramsci) affrontando insieme le sfide individuali e attingendo dai doni e talenti di ciascuno.

 

 

 

COMUNITÀ

“A tutti i nomi di una lunga storia”

“Io ho voglia di stare bene, guarire dal mio tetro male” Catullo 76.

1.

Uno siede composto sul letto, gomiti ai ginocchi e il ventre in avanti sulla sponda del letto mentre il viso di tartaruga -più che umano- fa scintillare nella stanza obliquamente fesa dalla luce dei mesti e stanchi occhiali. L’altro del tutto allungato, rigido, sul materasso con le estremità delle gambe intrecciate s’impone come un morto. E c’è De André che esce da un angolo oscuro, nell’aria, mentre le tonde mani dell’uomo seduto stringono alacremente una pagina del quaderno: legge il suo romanzo. Io gambe accavallate su una sedia, di poco discostato dal suo volto, con occhi chiusi di farfalla ascolto –disturbato dal canto- distrattamente l’intreccio districarsi nella sua parte germinale.

La stanza riverbera nei toni del silenzio storie di roba, festini, coca, notti lunghe, sensuali, miserie comuni e carcerarie, di euforici ostaggi della carne più che di umani. Nessuno direbbe che qui- nell’istante- c’è un rimedio al vivere: esistere nel tentare.

8.

Il cane è piccolo e più vecchio del pioppo sfiorito; è sordo da un orecchio e così pigro che getta tra cuccia e pavimento il suo piscio. Così ognuno ha una parola di rimprovero ‘sorcio’, ‘pulce’, ‘vecchio stronzo’ e ‘rattrappito!’

Io lo guardo con uno sguardo distratto, con la compassione di un desiderio tradito. Forse la semplice eterna attesa di un affetto che non sia per una volta compagno ma invece amico.

9.

Lui e lei – la ragazza e l’uomo adulto- sono stati avvisati di stare lontani perché, qui non si tollerano né illusioni né afflati d’ardore. La loro unione ha creato invidia, lealtà e tensione, quasi fossero loro il cataclisma del giorno infinito. Bizzarra sostituzione di dipendenza, trucchi e tranelli di una mente in assuefazione; ma io che senza sostanza non sono più capace di adattarmi un’illusione, guardo a loro come il mistero assoluto delle piccole cose: vivere comunque.

43.

Scendo per cena nel salone con un sibilo nel petto che rende ogni cosa sacra emanazione. Ho scritto a mia madre la prima lettera d’amore ed espiazione.

52.

Qui spesso l’amicizia degli uomini ha dolcezze impossibili d’intrecci di gambe, carezze alle orecchie ed abbracci gentili. Qui ciò che è femminile si declina al maschile, con la purezza corrosiva di una maschia abitudine a volersi bene per poter nel tocco degli istanti –anche- smettere di soffrire. Ed io solo come il tramonto di un’era osservo distratto questo linguaggio invidiabile.

 

 

 

  1. START UP

                                                       “Mi stupisco io stessa del poco di me che è restato” W. Szymborska in  ‘Discorso all’ufficio oggetti smarriti’

 

Resta la notte nel silenzio della stanza custodito da fioca luce artificiale per contare a sospiri quel poco che resta di me, svaniti i fasti posticci, gli arrembaggi andalusi e le gite dentro me stesso con la leggerezza di un triciclo. Qui quello che resta ha sbiadito il nome e la foga, ha arreso la speranza inafferrabile in pura forma.

 

75.

Accompagna l’uomo di mezz’età un uomo ottuagenario con spalle curve ed un grave guardare, lo lascia davanti alla nostra porta con due valigie grandi e la tristezza degli occhi, prima di andarsene svelto con la sua macchina. ‘Quell’uomo che ti ha accompagnato’ chiedo due giorni dopo seduti sulla panchina di un sole sfacciato ‘era tuo padre?’ ‘sì’ mi risponde ‘il vecchio è buono e non mi parla!’

76.

In fondo siamo senza vergogna, senza pietà e senza pentimento quando entriamo – per un evento o un altro- nella casa che ci foraggia di cura ed alimento. In verità, sogniamo di cambiare per avere un posto nel fasto futuro di qualche gloria perentoria che crediamo di meritare per la nostra storia. Fortuna le lacrime di buona memoria che ci lavano le ossa e la carne – con umiltà- per darci la sorte di un’umana gioia.

  1. IL MALE SUPERFICIALE I

Io non so se riuscirò a liberarmi dal male superficiale che ho cercato- incautamente-, se per le vie di un domani un –me- semplicemente sano sarà assente, se chiuderò gli occhi della mia storia con la purezza del dolore a farmi onore.

78.

Il male è sapere il dolore con esattezza.

  1. PASSEGGIATA FUORI CASA

Su un infinito selciato di fango e sterco camminano cinque corpi vaghi e sfumati. Sui due lati chilometri di risaie e tutt’intorno nebbia senza orizzonti.

A volte questo niente in forma naturale chiama la vita alla presenza, chiede all’assenza il pianto.

  1. IL MALE SUPERFICIALE II

Il male superficiale è fatto della stessa sostanza delle illusioni.

81.

Lui che tanto osava in pose di farsa e vituperi a man bassa è stato espulso dalla casa. Ha pochi giorni ancora. Io non sono più riuscito ad avvicinarmi al muro di dolore misto a rabbia e tristezza che lo divora. Eppure da questa libagione di malumore è nata una sua austera fierezza: la grazia sincera di chi soffre.

82.

Nell’interregno lo spazio non manca ma è il tempo ad essere traditore; corre, si sdoppia, rallenta, si ferma con un’arcana ragione che custodisce sempre. E non vi è salvezza che lo scalfisca, passione che lo sconfigga, desiderio che lo scompigli. Fermo in un’arcana ragione insegna a uomini e cose la legge dell’abbandono.

84.

Seduti nei logori divani, nel gruppo del mattino, ci raccontiamo piano; Io chiamato a prendere voce cado nelle parole senza un domani, quelle parole aride dell’antico dolore trasversale, e non so come inizio a ricordare io a cinque o sei anni nell’eterna estate del Brasile- logorato dal rancore comune di un padre che per allontanare l’orrore delle mie mani ‘sudicie’ sulla pelle di suo figlio, infante, spegne un mozzicone di sigarette sul mio nudo petto inerme.

 

86.

Siedo su una sedia accanto al suo letto e stringo in mano i fogli del tribunale, con gli anni e le sanzioni che lui –spaventato e solo- deve scontare. Le sue parole sono confuse, le sue mani –belle- concise davanti al tempo che gli resta da inventare. E a parte il male superficiale lui come me e tutti noi è qui in cerca di qualcosa, come un motivo, per rimanere nella vita.

88.

Qui oggi non riesce –o quasi- la parola a farsi strada e viatico sul molle petto dove alberga –rintanato- l’animo d’iniquità ma, il respiro che infrange questo silenzio ad ogni istante, invoca suono d’immensità.

89.

Mohamed -23 anni omosessuale- sarebbe dovuto venire qui a casa ma un dolore impronunciabile –lui rifiutato da tutti- lo ha spinto a suicidarsi con una corda sul verde collo dei suoi giovani anni. Qui, mentre lo scopro suonano le campane di una chiesa invisibile; il compagno che me lo dice è quello che ha preso il posto di Mohamed. Oggi voglio che sia plausibile salvarsi dal male superficiale, anche per lui.

92.

Ora del thè- 17’ in punto- tutti riuniti tra le tazze colorate in plastica, una fetta di panettone cioccolato e pane. Salgono le voci dal silenzio, le inquietudini di senso e il lento risveglio di un tardo pomeriggio crepuscolare. Salvo voglio questo pane per tutti i giorni a venire.

94.

‘A volte ci risuona dentro il vuoto’ dice un’educatrice secca ed essenziale mentre rintocca il suono delle campane. Qualcosa sembra svelare l’oracolo ed introdurre il prodigio nell’aria impersonale dell’infinito. E forse si potrebbe anche lacrimare di un’unica trascendentale forza rivelatrice, questo perché siamo –tremendamente- umani e fatti di pura luce.

  1. PSICOLOGA

Lei la psicologa percorre le vie incoscienti del mio sadismo adolescente, forse con molti silenzi incontrerà il bandolo dei miei sensi, disperso nel cappello del tempo degli stregoni irriverenti. Ed io le dirò una favola fatta denti, di gente distratta e lacrime come torrenti. Una storia magica e sfatata dove la grazia ha per regina l’attesa di una ciocca bionda su carne negra.

99.

Lui –il vecchio della casa- borbotta irritato sul ‘Gruppo Emozioni’ protratto oltre il tempo, ‘non siamo qui a parlare di minchiate’ dice sbattendo la porta del corridoio verso l’educatore che gli ha fatto girare i coglioni.

Io so che in realtà – oltre quell’impeto di bile- quello che lo fa soffrire è il tumore della madre, anziana inguaribile.

100.

L’onestà è stato l’ultimo baluardo di integrità prima di rovinare in un mare di impersonale iniquità.

  1. VOLONTA’

Recupero un pensiero -un tempo percussivo- scomposto e sporcato d’emozione tra un ventricolo polmonare e la fossa occipitale. Strano, mi dico, questo residuo integro deprivato di lirismo come è potuto sopravvivere?

  1. I CORPI

Noi qui ci muoviamo tra lunghi e stretti corridoi; le poche stanze ed una manciata avara di natura fuori dalla geometria scolorita di due cascine. Attenti tutti a respirare, a compattare il petto per non sbavare di emozioni il corpo vivo della nostra carne.

A volte silenziosi, più spesso rumorosi, tutto quello che sappiamo è la nostra voglia di travasarci in abbracci e carezze improvvise ed aliene che, fanno casa.

108.

Camminiamo in gruppo lungo le strade sterrate e bagnate, tra le risaie. Alziamo fango e parole -troppe- al cuore aperto di queste terre solitarie e a gennaio già madide di rugiada e sudore. Un solo casolare in fondo, spoglio di rifiniture, protegge l’arcano gentile e rurale di questi campi in divenire e lì io scopro che se quest’immagine fosse un’emozione, sarebbe di nostalgia in parole.

  1. RIFLESSIONE

L’angolo della camera è lineare continuo ed aperto tra due direzioni da iniziare; l’angolo del mio dolore è profondo e convesso proprio tra due esistenze: una da lasciare, l’altra da creare.

  1. CRASH O REALTÀ

Sistemo una panca gettata in terra, una sedia lanciata alle stelle e il tavolo divelto dalla parete. In testa le sue urla ancora ed ancora e le parole intimidatorie della polizia. Ho già rabbia mista a nostalgia forse per le botte troppe e per la polizia che tristemente agisce da polizia senza uno scorcio di umanità lungo la via. È stato allontanato dalla casa, come aveva previsto, con omertà.

Tutti parlano concitatamente tra il patio, la stanza di lui e i corridoi. E così stanotte in casa –traditi tutti- non c’è spazio per gli eroi e siamo soli in noi.

  1. ARCHETIPI

Sibilano incantesimi notturni e diurni di solipsismi tra rumori reali e fonde malinconie, bramano la carezza di un’istante a farci luce.

  1. PRESAGIO

C’è la presenza astuta delle finestre che mostrano i campi lontani ed uno spazio di cielo. C’è questa voglia di riforma interiore per fare di me con me stesso un uomo sincero.

  1. DIVENIRE

La verità delle parole può essere anche fatta di carne e pulsazioni, di respiro e visione per annunciare con fermezza e calore l’attrito interiore.

123.

Passa l’anziano in bicicletta con la barba perfetta ed un guardare calmo l’incerta stradina che lo aspetta e tutt’attorno profili di case basse fra i campi e l’aria aperta. Io l’osservo con aspettazione sentendomi umano fin dentro le ossa mentre mi accorgo che la vita risponde con un campo di grano ad una domanda ingenua di salvezza.

125.

Siamo seduti come piccioni su una panchina del giardino, avidi di sole e di carezze impersonali quando, lui –un compagno- mi parla con una domanda della sua donna transessuale, chiedendomi se pensi che si sia presa gioco di lui per quell’affetto e sesso negli anni coronato di denaro. Io lo guardo con rispetto. Se dico ‘sì’ lui si accorgerà di essere solo, se dico ‘no’ fra noi si presenterà la coda della menzogna o dell’evasione; con un respiro inalo un altro raggio di sole e rispondo senza pensare chiedendo se il suo per lei sia bisogno oppure amore.

  1. QUI

Qui una luce elettrica stanca ed umbratile affianca travi e specchi spogli di speranza mentre le lettere attendono altere di essere ancora amate per un tempo di gioia e godimento di minute ore per disarcionare i giorni –tutti- dalla certezza alla magra resa dei sospiri.

130.

Solo nella stanza osservo un brutto bucolico quadro sulla montagna eppure da giorni in quei pochi tratti di verde, giallo, azzurro lacustre e grigio montano fingo una vita possibile di uomo semplice.

  1. DOLORE

Soffro come un infante abbandonato e lasciato senza una mera lezione d’amore. Soffro per la violenza soffocante che mi ha visto bambino colpito nella carne dal male. Io soffro per la mia negra pelle che il mondo bianco non mi ha insegnato ad apprezzare; soffro per la nostra storia umana mai detta e che solo negli anni ho imparato ad amare. Soffro per il mio sesso dal gusto omosessuale che ha incorporato nei secoli il disprezzo originale. Soffro perché sono strutturalmente e violentemente tossicodipendente, per una fragilità presumibile ma evitabile. Soffro perché non ho mai smesso di sognare ed amare l’umanità per la sua eterna promessa di purezza, nonostante gli affondi coriacei ed aspri di realtà. E soffro perché la sofferenza è un diritto d’amore.

 

Immagine di copertina: Foto a cura di Alberto Guadagno.

 

 

 

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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