Antologia poetica di Julia de Burgos
A cura di Rocío Luque Colautti e Carmen Rivera Villegas
Traduzione di Rocío Luque Colautti
Edizioni Arcoiris, dicembre 2014
Sintesi di un’espressione romantica contrassegnata da un “io” lirico che decanta la natura e il sentimento amoroso, del Modernismo di Ruben Darío e di tutti gli “ismi” dell’avanguardia che maggior peso ebbero nella prima metà del secolo scorso nei Caraibi di lingua spagnola, Julia de Burgos è forse la poetessa più amata e letta dai portoricani isolani e dalla comunità boricua negli Stati Uniti. La sua immagine è associata a quella della sua Porto Rico, diversi artisti l’hanno trasformata in icona pop, altri in simbolo di libertà. Ritratta da soldatessa in un murales dell’East Harlem mano nella mano con Frida Khalo, i suoi versi sono diventati nel tempo simbolo della lotta per i diritti civili della donna e, per estensione, degli Afro-caraibici.
Pellegrina in me stessa, pubblicato nell’anno del centesimo anniversario della sua nascita, il 2014, è un’antologia poetica in cui le curatrici Rocío Luque Colautti e Carmen Rivera Villegas ripercorrono la vita di Julia de Burgos e propongono ai lettori italiani una selezione della sua produzione poetica che ricalca cronologicamente la pubblicazione dei suoi libri a cui corrispondono poi le diverse sezioni del libro.
Nata nella cittadina di Carolina (Puerto Rico) nel 1914, Julia dei Burgos si è dedicata sin da giovane alla poesia e alla politica (tanto da aderire alle Figlie della Libertà, ramo del Partido Nacionalista de Puerto Rico). Fa il suo ingresso nel panorama letterario latinoamericano nel 1938 con la pubblicazione di Poema en veinte surcos (I sezione dell’antologia), dove è chiaro il suo grido di lotta e di opposizione nei confronti di ogni forma di sfruttamento dei lavoratori. È il libro dell’ideologia, dell’afro-antillania, della ricerca incessante dell’identità sua e del suo paese, del ripudio del classismo fino ad ergersi a icona della lotta contro i valori e i parametri che la società di stampo patriarcale in cui lei si trova a vivere ha imposto alla donna. Carmen Rivera Villegas, una delle curatrici dell’antologia, nella sua introduzione sostiene che «da una prospettiva politica, come intellettuale degli anni ’30, Julia de Burgos affermò una “portoricanità” che, oggi diremmo, decolonizzò lo spazio culturale sottoposto alle minacce di americanizzazione. Ma anche, e questo è ciò che è ammirevole, “decolonizzò” l’immagine tradizionale della donna e, nello specifico, quella portoricana, che, all’interno dell’immaginario nazionalista doveva rispondere contro l’assimilazione americana per mezzo di una creazione di “valori” portoricani da dare ai propri figli.»
Río grande de Loíza (Grande fiume di Loiza), il poema più iconografico dell’isola, incarna la spinta rivoluzionaria dell’autrice che riconosce nel suo popolo il marchio della schiavitù e innalza sentimenti di giustizia e di liberazione, sia essa razziale, operaia o politica.
¡Río Grande de Loíza!…Río Grande. Llanto grande.
El más grande de todos nuestro llantos isleños,
si no fuera más grande el que de mí sale
por los ojos del alma para mi esclavo pueblo.
Grande Fiume di Loiza!… Grande fiume. Grande pianto.
Il più grande di tutti i nostri pianti isolani,
se non fosse più grande quello che da me scende
dagli occhi dell’anima per il mio popolo schiavo.
E poi ancora la poesia Ay, ay, ay, de la grifa negra (L’ahi ahi ahi della capigliatura crespa e nera) in cui lei, discendente di schiavi africani, rivendica con orgoglio le sue origini:
Dícenme que mi abuelo fue el esclavo
por quien el amo dio treinta monedas.
Ay ay ay, que el esclavo fue mi abuelo
es mi pena, es mi pena.
Si hubiera sido el amo,
sería mi verguenza;
que en los hombres, igual que en las naciones,
si el ser el siervo es no tener derechos,
el ser el amo es no tener conciencia.
Mi dicono che mio nonno fu lo schiavo
per cui il padrone diede trenta monete.
Ahi ahi ahi, che lo schiavo fu mio nonno
è la mia pena, è la mia pena.
Se fosse stato il padrone,
sarebbe la mia vergogna;
che negli uomini, come nelle nazioni,
se l’essere servo è non avere diritti,
l’essere padrone è non avere coscienza.
Fino a Desde el puente Martín Peña (Dal ponte Martín Peña) grido di protesta e incitamento alla ribellione contro lo stato in cui versa il lavoro degli operai dell’isola.
¡Obreros! Picad el miedo.
Vuestra es la tierra desnuda.
Saltad el hambre y la muerte
por sobre la onda laguna,
y uníos a los campesinos,
y a los que en caña se anudan.
Operai! Abbattete la paura.
Vostra è la terra nuda.
Saltate la fame e la morte
oltrepassando la profonda laguna,
e unitevi ai contadini
e a coloro che alla canna s’afferrano.
Ma è probabilmente la poesia A Julia de Burgos (A Julia de Burgos) quella più conosciuta e che ha fatto di Julia de Burgos l’emblema del femminismo latinoamericano, permeata com’è della costante lotta tra l’essere e il dover essere. Nel testo l’autrice si rivolge a una se stessa altra, criticandone la vita che conduce e le restrizioni che le impone la società in cui vive. La Julia essenziale, quella intima, ribelle, libera e naturale, rimprovera alla Julia sociale e ipocrita di non lasciarsi vedere per quella che è a causa delle pressioni e dei pregiudizi sociali. La voce poetica (la Julia essenziale), rivolgendosi alla Julia pubblica, rivendica per sé la “maternità” dei versi e si ribella contro la maschera che la Julia pubblica indossa quotidianamente per mostrarsi al mondo. Una lotta interiore che diventa lotta comune delle donne dell’isola.
Ya las gentes murmuran que yo soy tu enemiga
porque dicen que en verso doy al mundo mi yo.
Mienten, Julia de Burgos. Mienten, Julia de Burgos.
La que se alza en mis versos no es tu voz: es mi voz
porque tú eres ropaje y la esencia soy yo; y el más
profundo abismo se tiende entre las dos.
Tú eres fria muñeca de mentira social,
y yo, viril destello de la humana verdad.
Tú, miel de cortesana hipocresías; yo no;
que en todos mis poemas desnudo el corazón.
Tú eres como tu mundo, egoísta;
yo no; que en todo me lo juego a ser lo que soy yo.
Tú eres sólo la grave señora señorona; yo no,
yo soy la vida, la fuerza, la mujer.
Tú eres de tu marido, de tu amo; yo no;
yo de nadie, o de todos, porque a todos, a
todos en mi limpio sentir y en mi pensar me doy.
Tú te rizas el pelo y te pintas; yo no;
a mí me riza el viento, a mí me pinta el sol.
Tú eres dama casera, resignada, sumisa,
atada a los prejuicios de los hombres; yo no;
que yo soy Rocinante corriendo desbocado
olfateando horizontes de justicia de Dios.
Tú en ti misma no mandas;
a ti todos te mandan; en ti mandan tu esposo, tus
padres, tus parientes, el cura, el modista,
el teatro, el casino, el auto,
las alhajas, el banquete, el champán, el cielo
y el infierno, y el que dirán social.
En mí no, que en mí manda mi solo corazón,
mi solo pensamiento; quien manda en mí soy yo.
Tú, flor de aristocracia; y yo, la flor del pueblo.
Tú en ti lo tienes todo y a todos se
lo debes, mientras que yo, mi nada a nadie se la debo.
Tú, clavada al estático dividendo ancestral,
y yo, un uno en la cifra del divisor
social somos el duelo a muerte que se acerca fatal.
Cuando las multitudes corran alborotadas
dejando atrás cenizas de injusticias quemadas,
y cuando con la tea de las siete virtudes,
tras los siete pecados, corran las multitudes,
contra ti, y contra todo lo injusto y lo inhumano,
yo iré en medio de ellas con la tea en la mano.
La gente mormora già che io sono la tua nemica
perché dicono che in versi do al mondo il tuo io.
Mentono, Julia de Burgos. Mentono, Julia de Burgos.
Quella che s’innalza nei miei versi non è la tua voce: è la mia voce;
perché tu sei una veste e l’essenza sono io;
e il più profondo abisso si stende tra noi due.
Tu sei una bambola fredda di menzogna sociale,
ed io, virile bagliore dell’umana verità.
Tu, miele di cortigiane ipocrisie; io no;
che in tutte le mie poesie denudo il cuore.
Tu sei come il tuo mondo, egoista; io no;
che mi gioco tutto per essere ciò che sono io.
Tu sei solo la grave signora signorona;
io no, io sono la vita, la forza, la donna.
Tu sei di tuo marito, del tuo padrone; io no;
io di nessuno, o di tutti, perché a tutti, a tutti,
nel mio limpido sentire e nel mio pensiero mi do.
Tu ti arricci i capelli e t’imbelletti; io no;
a me arriccia il vento; a me imbelletta il sole.
Tu sei donna di casa, rassegnata, sottomessa,
legata ai pregiudizi degli uomini; io no;
che io sono Ronzinante che corre sfrenato
annusando orizzonti di giustizia di Dio.
Tu in te stessa non comandi; a te tutti comandano;
in te comandano il tuo sposo, i tuoi genitori, i tuoi parenti,
il prete, la sarta, il teatro, il casinò,
l’auto, i gioielli, il banchetto, lo champagne,
il cielo e l’inferno, e il cosa diranno sociale.
In me no, in me comanda il mio solo cuore,
il mio solo pensiero; chi comanda in me sono io.
Tu, fiore dell’aristocrazia; ed io il fiore del popolo.
Tu in te hai tutto e a tutti lo devi,
mentre io, il mio nulla a nessuno lo devo.
Tu, inchiodata allo statico dividendo ancestrale,
ed io, un uno nella cifra del divisore sociale,
siamo il duello a morte che si avvicina fatale.
Quando le moltitudini correranno scompigliate
lasciandosi dietro ceneri di ingiustizie bruciate,
e quando con la torcia delle sette virtù,
dietro i sette peccati, correranno le moltitudini,
contro te, e contro tutto ciò che è ingiusto e inumano,
io sarò in mezzo ad esse con la torcia in mano.
Solo un anno dopo, nel 1939, Julia de Burgos pubblica Canción de la verdad sencilla (II parte del libro), che rappresenta un cambiamento rispetto al libro precedente. Alla voce di protesta che si erge in tutte le poesie della prima sezione, si contrappone una forma espressiva e di contenuto maggiormente orientata all’esaltazione del giubilo e dell’euforia che nascono dall’esperienza amorosa. In queste pagine si respira amore. Le parole inducono all’armonia dei sensi, spingendosi al limite dell’erotismo. In esse l’autrice definisce se stessa in funzione dell’amato, lei diventa una “verdad sencilla para amarte” (Poema detenido en un amanecer). Vagava sola, finchè…
Hasta que una mañana…
una noche…
una tarde…
quedé como paloma acurrucada,
y me encontré los ojos por tu sangre.
Madrugadas de dioses
maravillosamente despertaron mis valles.
Finché una mattina…
una notte…
un pomeriggio…
rimasi come una colomba rannicchiata,
e ritrovai i miei occhi nel tuo sangue.
Le albe degli dei
svegliarono meravigliosamente le mie valli.
Nell’intera sezione, Julia de Burgos si riferisce all’amore come un tutto che racchiude l’intera sua esistenza, impossessandosi anche del suo amato. E questi, a sua volta, diventa polo attrattivo che la magnetizza, facendo confluire tutta la sua attenzione su di lui.
Infine un terzo libro, postumo, El mar y tú (Il mare e tu), pubblicato nel 1954, sebbene la sua composizione risalga all’inizio degli anni quaranta. El mar y tú ripercorre le vicissitudini della storia tra Julia e Isidro Jiménez Grullón, politico dominicano contestatore della dittatura di Trujillo con cui la Burgos visse una storia d’amore tra New York e Cuba, e si compone di tre parti (anch’esse rispettate nell’antologia in analisi). Nella prima di queste il lettore rivive assieme all’io poetico l’incontro di Julia con il suo uomo che la fa sentire “más allá del sol” (al di là del sole), come afferma in Poema de la cita eterna (Poesia dell’appuntamento eterno), per poi passare alla seconda – Poemas para un naufragio (Poesie per un naufragio) – dove si registra già il sentimento di catastrofe che si avvicina. In Oh lentitud del mar (Oh, lentezza del mare), la Burgos dice:
Todo soñar se ha muerto en mis pupilas,
a mis ojos no inquietan las estrellas,
los caminos son libres de mi rumbo,
y hasta el nombre del mar, sorda me deja.
Qualsiasi sogno è morto nelle mie pupille,
i miei occhi non sono inquietati dalle stelle,
i cammini sono liberi dalla mia rotta,
e persino il nome del mare, mi assorda.
Julia, che aveva affermato di essere nulla senza di lui, deriva verso l’annichilimento, che cresce a seguito della rottura nel giugno del 1942, tanto che Dadme mi número (Datemi il mio numero) costituisce una specie di necrologio che lei scrive per se stessa nel compimento di un rituale di privazione di ogni emozione e di attesa della fine.
¿Qué es lo que esperan? ¿No me llaman?
¿Me han olvidado entre las yerbas
mis camaradas más sencillos,
todos los muertos de la tierra?
¿Por qué no suenan sus campanas?
Ya para el salto estoy dispuesta.
¿Acaso quieren más cadáveres
de sueños muertos de inocencia?
Cos’è che aspettano? Non mi chiamano?
Mi hanno dimenticata sull’erba
i miei compagni più semplici,
tutti i morti della terra?
Perché non suonano le loro campane?
Sono già pronta per il salto.
Per caso vogliono altri cadaveri
di sogni morti d’innocenza?
Julia de Burgos morì il 6 luglio del 1953 a New York in una strada di Harlem, a soli 39 anni. Per alcuni mesi il suo corpo rimase sepolto senza nome e solo in seguito, quando ne venne accertata l’identità, fu trasferito a Porto Rico.
La sua poesia è caratterizzata dall’analisi del sé, dall’anticonformismo e dalla ribellione. Julia è stata una donna che ha fatto della lotta attraverso la parola la sua missione. Conosce e combatte i ruoli prestabiliti: il suo, in quanto donna, che deve seguire il modello patriarcale e quello della sua terra, Porto Rico, assoggettata dagli Stati Uniti. Le sue poesie sono un grido che si leva contro l’ingiustizia ancestrale perpetrata nei confronti delle classi sociali più deboli a favore della libertà in ogni sua forma di espressione. La profondità e la qualità della sua produzione poetica, la sua straordinaria capacità di riflettere sulla condizione della donna, e poi anche le misteriose circostanze della sua morte avvenuta nell’East Harlem degli anni cinquanta, fanno di questa autrice una delle figure più affascinanti non solo della letteratura portoricana della prima metà del XX secolo, ma di tutta la letteratura ispanoamericana contemporanea.
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Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.
Foto della copertina a cura della casa editrice.