Parampara, inedito di Leyre Villate Garcia (trad. di P. Piccolo)

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Parampara*

Fu Foucault a definire il ‘testo’ una collezione di segni che necessitano di interpretazione. Tale definizione servì a espandere il significato della parola fino ad accogliere cose che adesso vengono generalmente riconosciute come testi, ad esempio, film o dipinti, come pure spazi che abitiamo.

Che Calcutta esista è un fatto universalmente accettato. Ma che cosa sia Calcutta e come essa debba essere chiamata sono questioni ancora in via di definizione. Alcuni dicono che sia una città, altri invece la definiscono metropoli. Alcuni sostengono che si chiami Kolkata, altri invece la chiamano Calcutta.

Mi chiedo, che cos’è una città? Se mi trovassi a insegnare una lezione di spagnolo, definirei il termine usando esempi e controesempi: la città e la non-città. Direi ai miei studenti, “Kolkata è una città ma Bongaon non lo è; Varanasi è una città ma Chitrakut non lo è” e così via. E loro sarebbero in grado di capirmi.

Perché la parola città non è una città. La parola città è la rappresentazione di una città. Sono i suoi abitanti che scrivono la città e a loro volta sono scritti da essa. Che cosa dice la città dei suoi abitanti? Possono essi controllare ciò che essa dice?

Se la città è testo e la leggiamo, vi è sottinteso un linguaggio, un codice condiviso da chi partecipa nel processo di comunicazione, in modo che il testo possa essere scritto e lo si possa interpretare. La disposizione di un testo su una pagina bianca – seppure sia scritto in un alfabeto che non conosciamo, facciamo in cinese o in russo– l’ordinamento dei caratteri ci consente di identificarlo come prosa o come poesia; allo stesso modo gli spazi geografici si identificano come città o non-città.

Sono passati tre anni dal mio arrivo a Kolkata, da allora continuo a confrontarmi con quel testo che è Kolkata, e ancora non smetto di chiedermi di che tipo di testo si tratti.

Non parlo della sua forma (versi o non versi), ma del genere: poesia o prosa? Lasciatemi insistere sui concetti di base e dimenticare, per adesso, le fusioni e gli ibridi a cui ci siamo abituati dal Modernismo in poi, poesia in prosa e prosa poetica: dopo aver ascoltato quello che sto per dirvi tocca a voi decidere a che genere essa appartenga. La prosa e la poesia hanno caratteristiche ben distinte, in quanto il loro approccio alla lingua è completamente diverso.

La prosa è pragmatica. Essa è scritta per comunicare un significato in conformità a regole di carattere pratico in modo da rendere la comunicazione il più efficace possibile, per raggiungere un obiettivo. È per questo motivo che prosa è il linguaggio delle nostre conversazioni quotidiane, del discorso accademico, degli articoli di giornale., etc. È in prosa, con una breve domanda, che chiediamo una tazza di tè a chi ce lo vende, una domanda che va subito al dunque, evitando qualsiasi ambiguità nella nostra richiesta perchè vogliamo ottenere la nostra tazza di tè e berla al più presto. E il venditore risponde chiedendo “milk or liquor?” ‘(latte o liquore?), e sappiamo che la sua risposta deve essere pertinente al contesto della situazione – cioè la nostra richiesta di tè. Quindi non pensiamo che ci stia offrendo in alternativa o una tazza di latte o una bibita alcolica, ma piuttosto se vogliamo il nostro tè col latte o senza- cioè come liquido semplice- e non gli è necessario usare una frase intera per farsi capire. La quantità di parole che utilizza fornisce un numero sufficiente di informazioni, pertinenti e chiare. Funzionali.

Al contrario, la poesia, rifiuta l’uso utilitario del linguaggio: le parole vengono utilizzate per il puro piacere della lingua. La poesia disprezza le regole della praticità, quindi il procedimento per capirne il significato è molto più difficile rispetto a quello impiegato per la prosa. Spesso, in una poesia, la proporzione di significato è esigua, e in realtà questo non è nemmeno necessario dal momento che è proprio il piacere derivante dalla bellezza dell’espressione a rendere poetica la poesia.

Quindi, sono convinta che, se le città sono testi, alcune possono essere prosa, altre poesia, in base al rapporto di rilevanza tra utilità e disegno. Nelle città prosaiche, l’urbanistica viene definita e disposta per adeguarsi agli usi pratici intesi per gli abitanti, senza ambiguità, a differenza delle città poetiche, costruite per il puro piacere del linguaggio dell’architettura.

La verità è che alle città di prosa ci sono abituata. Sebbene io provenga dalla Spagna, per diversi motivi non posso dire che tutte le città dell’occidente siano prosaiche. Innanzitutto, il termine ‘occidente’ è molto ambiguo: qualsiasi paese è un occidente rispetto a un altro. In secondo luogo perchè non sono stata in tutte le città occidentali che esistono. E in terzo luogo, perchè alcune città ‘orientali’ nelle quali sono vissuta, come quelle giapponesi, sono anch’esse abbastanza prosaiche. Tutte le città di cui ho esperienza sono state prosaiche con un chiaro rapporto tra l’aspetto degli spazi urbani, gli edifici, le strade e il loro utilizzo. Una chiesa cristiana, un tempio buddista o shintoista sono luoghi tranquilli in cui intessere un dialogo privato e silenzioso con dio, e in cui meditare. Un biblioteca è un edificio accogliente pieno di file di scaffali che contengono libri che chiunque può prendere e poi sedersi per leggerseli comodamente. Un marciapiede è uno spazio in cui i pedoni possono camminare e spostarsi per la città.

Ma a Kolkata, ciò che si presenta come un tempio greco è in realtà un ospedale pubblico, un blocco di cemento grigio che assomiglia a una prigione è la biblioteca. Quello che sembra un museo è una casa privata, e quello che appare essere un semplice appartamento è una galleria d’arte. I marciapiedi sono centri commerciali che in realtà impediscono alle persone di camminare. Quello che sembrerebbe essere il mare è in realtà un lago, e quei veloci, ruggenti, animali selvatici a strisce, lungi dall’essere tigri del Bengala, sono taxi.

A prescindere da tutto questo, potrei però sbagliarmi. Forse cerchiamo di applicare i nostri codici agli spazi che sono nuovi per noi, e questo ci porta a una lettura sbagliata. Come quando ci troviamo in mano un testo scritto in una lingua straniera che non conosciamo ma che usa gli stessi caratteri del nostro stesso alfabeto. Cerchiamo di indovinare il significato di certe parole cercando somiglianze, parallelismi con altre parole di lingue che conosciamo. Alcune volte con le nostre ipotesi ci azzecchiamo, altre ci sbagliamo. Ad esempio, in Bengalese ‘saia’ significa ‘sottogonna’ e nella mia lingua madre che è il galiziano, la stessa parola significa gonna. Ma in spagnolo ‘dos’ significa 2 mentre in Bengalese significa 10. Alcune di queste letture errate possono essere un po’ pericolose: ‘boca’ in spagnolo significa ‘bocca’ ma in Bengalese è invece un insulto.

Non ho ancora trovato la stele di Rosetta che mi aiuti a decifrare il codice di Calcutta; quindi nell’affrontare quel testo che è Kolkata sono soggetta allo stesso rischio di interpretazione errata. Tuttavia, la disposizione dei suoi segni indica il suo essere città. Tale messaggio non può essere cambiato, a prescindere dall’intensità del nostro desiderio di riscriverla.

Nulla ci impedisce però di scriverci sopra. Possiamo graffiare la pagina e scarabocchiare i nostri segni sovrapponendoli a quelli vecchi, erosi. Potrebbe essere quello che sto facendo, dal momento che i segni non li so leggere e tanto meno comprenderli. Li sto graffiando, tentando di cancellarli per poter costruire la mia rappresentazione personale della città, e assieme a questa la mia propria rappresentazione della città, in parole mie.

Per me, Calcutta, non è una città. È un palinsesto.

*Parampara, parola di origine sanscrita  che denota la successione di maestri e discepoli nella cultura vedica tradizionale e nelle religioni indiane come l’induismo, il buddismo il giainismo e la religione Sikh.

 

Per gentile concessione dell’autrice, traduzione dall’inglese di Pina Piccolo.

 

Profile

Leyre Villate Garcia was born in Vigo, Spain, in 1986. In 2011 she moved to India to work as Visiting Lecturer at Calcutta University. She later studied an M.A. in Comparative Indian Languages and Literatures from the same university. She now translates Indian poetry, does independent research about Indian detective fiction and writes for several Bengali and Spanish online magazines. Recently, her work has been published in a Spanish and Latin American anthology of women’s writing, La desconocida que soy.

Foto dell’autrice a cura di Leyre Villate Garcia.

Immagine in evidenza: Foto di Aritra Sanyal.

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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