Palestina + 100 : brani dai racconti di Ahmed Masoud e Mazen Maarouf

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 Dal racconto di Ahmed Masoud “Application 39” (Domanda 39), pagg. 128-9

 

[…] Così fu annunciato che Gaza City sarebbe stata la prima città araba ad ospitare i Giochi Olimpici. Rayyan e Ismael uscirono dal municipio quel giorno sentendosi euforici. Non si dissero una parola mentre percorrevano il lungo corridoio verso l’uscita. Ma mentre scendevano in strada, circondati dl frastuono dei clacson delle auto, dal ronzio dei droni per le consegne, dallo sfarfallio degli schermi pubblicitari, scoppiarono a ridere. L’ilarità cresceva mentre si scambiavano occhiate e per un attimo lottarono per riprendere fiato. Adesso  avevano attraversato lo specchio; quello che era iniziato come uno scherzo era diventato una nuova realtà,  e poteva potenzialmente cambiare il futuro dell’intera città. Dopo un secolo di separazione dal mondo, ora, all’improvviso, era il mondo ad andare da loro. Per fare una visita a questa prigione, pensò Ismael; è la prima volta in assoluto, per vedere le persone correre, saltare e lanciare oggetti! Né Ismael né Rayyan avevano mai messo piede fuori da Gaza City. Anche solo essere ammessi in altri stati costieri all’interno della federazione palestinese necessitava di un visto e di una serie di permessi di transito di cui nessuno dei due era mai riuscito a fare richiesta. Quello che sapevano degli altri stati l’avevano imparato dai nonni. Da adolescenti, avevano sognato di visitare le Repubbliche di Ramallah e Nablus nella vecchia Cisgiordania, o di fare un’escursione un giorno attraverso le dolci colline della vecchia Palestina, respirare la sua aria fresca, respirare il profumo degli uliveti che si estendevano, nella loro immaginazione, da Betlemme a Gerusalemme.

Riprendendosi dalla loro momentanea crisi di ilarità, Rayyan e Ismael scesero la collina verso Talatini Street, in direzione di casa. Mentre passavano davanti all’ospedale Al Ahli, un drone israeliano volò basso sopra le loro teste e atterrò nelle vicinanze, solo per poi trasformarsi in un robot bipede. Con la sua strana faccia da cane, iniziò a scrutare le strade con i suoi occhi scuri e traslucidi, mentre i pedoni distoglievano lo sguardo. Il cane-robot quindi esaminò Rayyan e Ismael, che erano consapevoli di dover stare completamente immobili e fissarlo direttamente negli occhi. Distogliere lo sguardo avrebbe avuto come conseguenza essere colpiti dal taser. Su ogni lato del suo viso lungo e appuntito, appena sotto ognuno degli ‘occhi’ telecamera, improvvisamente apparvero due schermi su cui  iniziarono a scorrere le informazioni vitali dei due uomini: date di nascita, indirizzi, numeri di conto bancario, professioni, ecc. Mentre sul ‘torace’ del robocane si dispiegava la bandiera israeliana bianca e azzurra. Ismael avrebbe voluto prenderlo a pugni nel suo plesso solare, pur sapendo che probabilmente non ne aveva uno. Leggendo i pensieri dell’amico, Rayyan gli cinse le spalle con il braccio, e ridendo goffamente osservò: ‘Guarda! È una delle tue razze preferite!  Oh, ma si sarà forse scontrato con degli altri barboncini”,  aggiunse, notando un graffio orizzontale sul l’azzurro del suo petto. […] (traduzione italiana di Pina Piccolo)

 

 

Dal racconto di Mazen Maarouf “The Curse of the Mud Ball Kid” (La maledizione del ragazzo dalle palle di fango), tradotto dall’arabo in inglese da Jonathan Wright, pagg. 171-2

 

Il tizio morto

 

DA SEMPRE AVEVO VOLUTO essere un supereroe. Non volevo salvare il mondo e nemmeno tutti i bambini di Falasta. Volevo solo salvare mia sorella quando sarebbero venuti a rubarle l’immaginazione. Se mi avessi chiesto allora che tipo di supereroe volevo essere, avrei detto una creatura estremamente piccola, una che va a caccia di germi e batteri nel corpo dei bambini e li distrugge.  Il mio nome sarebbe stato “Robomicrobo”. Dicevo tutto questo perché ero sempre sicuro che quando mia sorella avesse perso la fantasia, sarebbe finita come tutti gli altri bambini intorno a noi. Per quanto mangiasse, avrebbe sofferto la fame fino alla morte. Quando ai bambini del mio quartiere rubavano l’immaginazione, venivano anche colpiti da difetti al cervello;  ad esempio il cervello stimolava lo stomaco facendolo sentire sempre affamato. L’ Aharon Kibbutz Institute non aveva bisogno dell’immaginazione dei bambini di Falasta in particolare. Ma il direttore dell’istituto, Ben Moshe il Vecchio, aveva escogitato un modo per mettere a frutto questa immaginazione. La sola menzione del suo nome qui era sufficiente per suscitare terrore. Le immaginazioni rubate erano raccolte insieme all’interno di un satellite artificiale che orbitava direttamente sopra di noi, chiamato la Stella di Dabraya, che prendeva il nome da “l’angelo della morte”. Non si poteva distinguere dalle migliaia di altri satelliti e stelle del cielo notturno, ma la Stella di Dabraya era in grado di scaricare e proiettare l’immaginazione dei bambini di oggi nel passato, dove assumeva la forma di giochi 3D che comparivano davanti ad altri bambini – bambini affamati, nudi con la testa rasata che si dice fossero tenuti in campi.  Ogni volta che si mettevano a letto, senza alcun preavviso, gli ologrammi lampeggiavano davanti ai loro occhi e continuavano a trasformarsi ed evolversi finché non si addormentavano. La notte successiva prendevano forma nuove immagini con cui giocare. E così via. Le loro madri dicevano: “E’ per questo che vi hanno messi qui. Per farvi avere i giochi più belli di qualsiasi altro bambino al mondo.“ Ma la Stella di  Dabraya sopra di noi  continuava a incutere terrore nei bambini del mio quartiere.  Provavano paura nel guardare il cielo di notte, o si sentivano spinti a lanciare pietre contro il cielo per la disperazione di essere sempre sotto assedio.

Io, a differenza di loro, non ero spaventato dagli oggetti nel cielo notturno. Infatti ogni giorno pregavo di diventare Robomicrobo, in modo da poter piantare una parte della mia immaginazione nelle cellule del cervello di mia sorella. Questo perché, vedi, io posseggo una quantità di immaginazione più che sufficiente per tutti. “O Signore, fammi diventare un supereroe quando mia sorella si ammala”, pregavo. “Solo quando si ammala, trasformami in Robomicrobe. In modo che io possa curarla. Dopodiché, riportami al mio stato normale.” Però ben presto mi accorsi che era solo attraverso l’esperienza che si capisce se uno è qualificato o no per essere un supereroe. Quindi a volte andavo dalla macelleria Samra e cercavo di sollevare le pecore che erano legate sul retro pronte ad essere macellate. Provavo a sollevarle un po’ da terra e correre per qualche metro tenendole in braccio. Oppure, per esempio, mi mettevo davanti al cancello dell’ospedale, accanto ai mendicanti e ai venditori ambulanti. Ogni volta che vedevo un ragazzo o una ragazza entrare in ospedale con la madre o il padre, chiedevo loro con entusiasmo: “Sei malato?” Se non rispondevano li seguivo ripetendo la domanda in varie forme: “Stai male, vero?”, “Anche mia sorella si ammalerà, ma io la salverò. Se hai fratelli o sorelle, forse sopravviverai”. La maggior parte dei bambini scuoteva la testa per la paura e, trionfante e sorridente, dicevo: “Sapevo che eri malato!” Questo faceva arrabbiare le loro madri e cominciavano a insultarmi. Ero disposto a fare qualsiasi cosa pur di dimostrare a Dio che avevo tutte le qualità giuste per essere un supereroe.

Una volta saltai addosso a un vecchio magro che portava degli occhiali molto spessi. Di solito, tornando a casa, passava davanti a casa nostra e ogni giorno inciampava sulla base di un palo di ferro che mia nonna aveva piantato nel terreno per segnare il confine tra la nostra casa e la sua. Non mi rendevo conto che lo stesse facendo apposta, per costringere mia nonna a togliere il palo. Lo aspettavo. Quando cadeva, lo faceva lentamente, come al rallentatore, portando le mani in avanti. Pensavo che se avessi potuto balzargli addosso, da dietro, non appena iniziava a inciampare avrei potuto girargli il corpo prima che toccasse terra, e così lo avrei salvato. Se ci fossi riuscito, significava che ero sulla buona strada per diventare un supereroe. Per cui, un giorno, lo aspettai fuori di casa. Non appena passò gli corsi dietro e poi, appena inciampò, gli balzai addosso. Ma questo provocò una frattura a una delle costole del vecchio e, per coprire le spese mediche mia nonna dovette ipotecare il toro Mukhtar, che era zoppo perché gli mancava un ginocchio. Mia nonna mi rimproverò duramente, ma io mi limitai a guardare mia sorella abbracciandola. […] (traduzione italiana di Pina Piccolo).

 

 

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Ahmed Masoud (nato nel 1981)  è scrittore e regista teatrale cresciuto in Palestina e trasferitosi nel Regno Unito nel 2002.  Il suo romanzo d’esordio Vanished: the Mysterious Disappearance of Mustafa Ouda (tradotto in italiano nel 2019 con il titolo Scomparso: la misteriosa sparizione di Mustafa Ouda, Lebeg 2019) ha vinto il Muslim Writers Awards..  Tra le sue opere teatrali, The Shroud Maker, Camouflage, Walaa, Loyalty, Go to Gaza, Drink the Sea e Escape from Gaza. È fondatore della compagnia Al Zaytouna Dance Theater per cui ha scritto e diretto molte produzioni per i palcoscenici londinesi.  e poi tour europei.  Nel corso della sua ricerca per il dottorato ha pubblicato  numerosi articoli accademici tra i quali il saggio  Britain and the Muslim World: A Historical Perspective (Cambridge Scholars Publishing, 2011). La sua famiglia proviene da Dayr Sunayd.

 

 

 

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Mazen Maarouf, scrittore, traduttore e giornalista palestinese e islandese nato nel 1978 in una famiglia di rifugiati palestinesi ha vissuto, studiato e lavorato a Beirut prima di trasferirsi in Islanda. Nel 2008 ha iniziato la collaborazione con il quotidiano  An-Nahar come critico teatrale e letterario  e da allora scrive per vari giornali e riviste arabe, tra cui  Al-Hayat (Beirut, Londra), Assafir, Al-Mustaqbal, Kalimat Cultural Supplement (Beirut), Al-Arabi Al-Jadeed (Londra), Al-Ayyam (Cisgiordania), Al-Quds-el-Arabi (Londra), Kika (London), Jasad Magazine (Beirut) and Qantara (Parigi).

La sua raccolta di racconti Jokes for the Gunmen, ha vinto il prestigioso  Al-Mutaqa Prize nel 2016, ed è stato pubblicato in inglese in Granta Portobello, con traduzione di Jonathan Wright e traduzioni in molte altre lingue in cantiere. Le sue tre raccolte di poesia sono  Our Grief Resembles Bread (Al-Farabi, 2000), The Camera Doesn’t Capture Birds (2004, 2010), e An Angel Suspended On a Clothesline (2012),  tutte successivamente  tradotte in altre lingue. Attualmente lavora ad un romanzo.

 

 

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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