Uno dei più importanti contributi di Giorgio Agamben alla filosofia politica contemporanea è il concetto di “nuda vita”, che ci permette non solo di rivedere la teoria foucaultiana del bio-potere ma anche di ripensare le contraddizioni politiche della modernità. Nonostante la sua importanza, tale teoria non fornisce, tuttavia, sufficienti indicazioni su due questioni cruciali: il problema della resistenza e quello della differenzazione negativa del concetto di nuda vita rispetto alle differenze razziali e di genere. Questi sono proprio i nuclei che, come sostengo nel saggio, stanno al centro di qualsiasi tentativo di affrontare in chiave di critica femminista la sua opera filosofica. Grazie alla revisione operata da Agamben al concetto di bio-politica, appare chiaro che la resistenza non può essere limitata alla contestazione della legge o delle strutture del potere; infatti, una delle più pressanti questioni politiche sollevate da Homo Sacer è se la nuda vita stessa possa essere mobilitata da movimenti di emancipazione.¹ Il secondo problema da prendere in considerazione sono le modalità in cui la nuda vita è implicata nelle configurazioni di genere, sessiste e coloniali della politica e, come tali implicazioni, la portino a subire diverse forme di violenza.² Il paradosso centrale che la nuda vita presenta per l’analisi politica non è costituito solo dall’annullamento delle distinzioni politiche, ma anche dalla differenziazione negativa, o privazione, che tale annullamento produce rispetto alle differenze usate per caratterizzare una forma di vita distrutta. Al fine di sondare possibili forme di resistenza e le determinazioni negative della nuda vita, integrerò le genealogie tracciate da Agamben attraverso l’esame di due casi politici – il primo rappresentato dalle analisi di Orlando Patterson delle forme premoderne e moderne di schiavitù,³ e il secondo dagli scioperi della fame delle suffragette inglesi all’inizio del XX secolo.
Per sviluppare i paradossi della nuda vita, partiamo dalla definizione offerta da Agamben. Rielaborando le distinzioni tracciate da Aristotele⁴ e Hannah Arendt⁵ tra esistenza biologica (zoē) e vita politica di parola e di azione (bios), tra mera vita e il vivere secondo il bene, Agamben introduce in Homo Sacer la propria interpretazione e genealogia, necessariamente selettiva, della nuda vita dall’antichità alla modernità. Spogliata di significato politico ed esposta a violenza omicida, la nuda vita assume il ruolo sia di controparte sia di bersaglio della violenza sovrana. A scanso di equivoci, vorrei evidenziare il concetto, a volte solo implicito nel lavoro di Agamben e non sempre sufficientemente sottolineato dai suoi commentatori: vale a dire, il fatto che la nuda vita – ferita, sacrificabile, soggetta a pericoli – non equivale al concetto biologico di zoē, ma piuttosto è il residuo di un bios politico distrutto. Come afferma Agamben nella sua critica dello stato di natura descritto da Thomas Hobbes, la mera vita “non è semplicemente la vita naturale riproduttiva, la zoē dei Greci, né il bios“, ma piuttosto “una zona di indistinzione e di continua transizione tra l’uomo e la bestia” (HS, 109-nell’edizione statunitense). Nella conclusione di Homo Sacer, Agamben sottolinea con ancora maggiore enfasi che “ogni tentativo di ripensare lo spazio politico dell’occidente deve esordire dalla chiara consapevolezza che della distinzione classica tra zoē e bios […] noi non sappiamo più nulla ” (HS, 209-210). Evocando Adorno, potremmo dire che la nuda vita, non solo referente, ma anche effetto della violenza sovrana, è vita danneggiata, spogliata del suo significato politico, della sua specifica forma di vita. Per Agamben, la nuda vita costituisce il “nucleo nascosto” originale della bio-politica occidentale nella misura in cui la sua esclusione fonda la sfera politica. La nuda vita viene catturata dalla politica in una doppia modalità: in primo luogo, in forma di esclusione dalla polis – è compresa nella sfera politica in forma di esclusione da essa – e, dall’altro, in forma di esposizione illimitata alla violazione, che non viene considerato atto criminale. Pertanto, le categorie fondamentali della politica occidentale non sono il contratto sociale o la coppia categoriale ‘amico-nemico’, ma nuda vita e potere sovrano (HS, 11-12). Come suggerisce per grandi linee dalla genealogia politica tracciata da Agamben, la posizione e la funzione politica della nuda vita cambiano storicamente. Questa genealogia inizia dalla memoria più remota e prima rappresentazione della nuda vita espressa nel diritto romano dall’oscura nozione di homo sacer, cioè la nozione di uomo bandito, che può essere ucciso impunemente da chiunque, indegno quindi sia di punizione giuridica sia di sacrificio religioso. Né criminale condannato, né capro espiatorio sacrificale e quindi fuori sia dalla legge umana sia da quella divina, l’homo sacer è il bersaglio della violenza sovrana al di sopra della forza della legge e tuttavia prevista e autorizzata dalla stessa. Bandito dalla collettività, è il referente della decisione sovrana sullo stato di eccezione, che nel contempo conferma e sospende il normale funzionamento della legge. Nella genealogia di Agamben, la più importante svolta nella politicizzazione della nuda vita si verifica nella modernità.
Con la mutazione della sovranità in bio-potere, la nuda vita cessa di essere l’esclusa al di fuori della politica ma in realtà diventa sua più interna norma nascosta: la nuda vita “a poco a poco comincia a coincidere con l’ambito politico” (HS, 130, ). Tuttavia, questa inclusione e distribuzione della nuda vita dentro la sfera politica non significa la sua integrazione nell’esistenza politica; piuttosto, si tratta della inclusione disgiuntiva di un residuo inassimilabile, che continua ad essere l’obiettivo della violenza sovrana. Come sostiene Agamben, “la politica occidentale non è riuscita a costruire l’articolazione tra zoē e bios “(HS, 11 (14). A differenza dell’antica forma di bando, o dell’esclusione inclusiva dalla sfera politica, la nuova forma di inclusione disgiuntiva della nuda vita all’interno della polis emerge con le moderne democrazie. Nei regimi democratici, questa incorporazione nascosta della nuda vita sia nell’ambito politico sia nella struttura della cittadinanza si manifesta, secondo Agamben, come l’iscrizione di “nascita” all’interno dei diritti umani, un’iscrizione che stabilisce legami pericolosi tra cittadinanza, nazione, e parentela biologica. Come la Dichiarazione del 1789 dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino proclama, gli uomini non diventano uguali in virtù della loro associazione politica, ma sono “nati e restano” uguali. I cittadini democratici sono quindi portatori contemporaneamente di nuda vita e di diritti umani; divenendo allo stesso tempo, obiettivi del potere disciplinare e liberi democratici soggetti. In una revisione politica della formulazione di Michel Foucault della soggettività moderna come doppio “empirico-trascendentale”,6 Agamben sostiene che il cittadino moderno è “un essere bifronte, portatore tanto della soggezione al potere sovrano che delle libertà individuali” (HS, 125 (138). Il soggetto democratico dei diritti è quindi caratterizzato dall’aporia tra libertà politica e sottomissione della mera vita, senza una chiara distinzione, mediazione o riconciliazione fra loro.
Poiché la nuda vita è inclusa dentro le democrazie occidentali come nucleo originario – anche se occulto (HS, 9 (9) e come tale non può marcare i loro confini, la politica moderna cerca nuovi obiettivi di esclusione razziale e di genere, per i nuovi morti viventi (HS, 130, nell’edizione statunitense). Ai nostri giorni, assistiamo a una velocissima moltiplicazione di tali obiettivi e alla loro infiltrazione nei corpi fino al livello cellulare: dai rifugiati, agli immigrati clandestini, dai detenuti nel braccio della morte sotto sorveglianza per prevenirne il suicidio, ai pazienti in coma tenuti in vita, dagli organi da trapiantare alle cellule staminali fetali. Per Agamben, questa inclusione della nuda vita nel corpo di ogni cittadino diventa catastroficamente evidente con l’involuzione degli Stati democratici in regimi totalitari, all’inizio del ventesimo secolo.
Come attestano i disastri del fascismo e del totalitarismo sovietico e come rivelano i continui episodi di genocidio, sospendendo una forma di vita politica umana, i regimi totalitari possono ridurre intere popolazioni a una forma di nuda vita usa e getta, anch’essa passibile di distruzione senza alcuna punizione per chi uccide. Secondo Agamben, proprio in questo consiste l’orrore senza precedenti dei campi di concentramento nazisti: l’estrema privazione e il degrado della vita umana alla nuda vita soggetta allo sterminio di massa. “In quanto i suoi abitanti sono stati spogliati di ogni statuto politico e ridotti integralmente alla nuda vita, il campo è anche il più assoluto spazio bio-politico che sia mai stato realizzato, in cui il potere non ha di fronte a sé che la pura vita, senza alcuna mediazione” (HS, 191). Se Agamben sostiene polemicamente che il campo di concentramento non è solo l’estrema aberrazione della modernità, ma il suo “paradigma biopolitico fondamentale” (HS, 181 (199), che mostra il “volto thanatopolitico” del potere (HS, 170), è perché il campo di concentramento per la prima volta mette in atto il pericolo implicito nella politica occidentale, vale a dire, il genocidio totale reso possibile dall’inversione dell’eccezione significata dall’ homo sacer in una nuova norma thanatopolitica. Il crollo della distinzione tra eccezione e norma, assieme all’assoggettamento “assoluto” e senza mediazioni della vita alla morte, costituisce il principio politico “supremo” del genocidio (HS, 142, nell’edizione statunitense).
L’aspetto più avvincente del lavoro di Agamben è rappresentato dalla sua diagnosi di come l’aporia di nuda vita e forma di vita nella politica occidentale dia luogo a nuove forme di dominio e a rivolgimenti catastrofici della storia, che culminano nella thanatopolitica del fascismo. Tuttavia, l’analisi di Agamben di tale aporia dall’antichità alla modernità trascura due questioni cruciali: la questione della resistenza e quella della differenziazione negativa della nuda vita lungo linee razziali, etniche e di genere. Innanzitutto, come sostengono molti commentatori e critici, in particolare Ernesto Laclau, ciò che manca nell’opera di Agamben è la teoria della “possibilità di emancipazione” della modernità.7 Eppure, volendo costruire una tale teoria, nei termini della filosofia di Agamben, il compito di concettualizzare la resistenza non potrebbe essere limitato alla contestazione della legge o delle strutture del potere; infatti, una delle questioni politiche più spinose rimane se la nuda vita stessa possa essere mobilitata da movimenti di opposizione. Con la sua focalizzazione su come la nuda vita funzioni da referente della decisione sovrana, Agamben, purtroppo, risponde a questa domanda in senso negativo: “Il ‘corpo’ è sempre già corpo biopolitico e nuda vita, e nulla in esso… sembra offrirci un terreno saldo contro le pretese del potere sovrano“(HS, 209); corsivo dell’autrice). Il secondo problema che Agamben ignora è come la nuda vita sia implicata nelle configurazioni di genere, sessiste, coloniali e razziste di biopolitica. Se vogliamo affermare che la nuda vita emerge come conseguenza della distruzione delle differenze simboliche di genere, etnia, razza o di classe – differenze che costituiscono forme politiche di vita – questo significa che la nuda vita continua ad essere determinata negativamente dalla distruzione di una specifica forma di vita storicamente determinata. Così facendo si introduce un altro paradosso della nuda vita, cioè simultaneamente si verrebbe a verificare l’annullamento delle distinzioni politiche e, in retrospettiva, la differenziazione negativa prodotta da tale annullamento.
Consideriamo queste due questioni – la differenziazione della nuda vita e il suo ruolo nei movimenti di emancipazione – una alla volta. Sebbene gli esempi di nuda vita offerti da Agamben siano eterogenei – ad esempio la relazione padre-figlio nell’antichità, i programmi di eutanasia nazista per i malati mentali, la distruzione dei Rom, i campi di stupro etnico nell’ex Jugoslavia, il corpo in coma di Karen Quinlan, e soprattutto il caso più importante dei Muselmann [ndt: persone all’ultimo stadio dell’inedia prigionieri nei campi di concentramento nazisti] – siano sempre diversificati lungo linee razziali, di genere e di etnia e storiche, la sua analisi concettuale non segue le implicazioni di tale eterogeneità. Si consideri, ad esempio, il suo breve commento sulla differenza tra campi di stupro etnico e i campi nazisti: “Se i nazisti non hanno mai pensato di attuare la ‘soluzione finale’ ingravidando le donne ebree, ciò è perché il principio di nascita, che assicurava l’iscrizione della vita nell’ordinamento dello Stato-nazione, era ancora, sia pur profondamente trasformato, in qualche modo funzionante. Ora questo principio è entra in un processo di dislocazione e di deriva… “(HS, 197-8). Inutile dire che la marcata differenza, sessuale e razziale, tra queste due forme di violenza sovrana – genocidio e stupro – non possono essere ridotte al solo principio di nascita. Agamben si astiene da ogni ulteriore esplorazione dello stupro come violenza politica sessuale, perché una tale analisi complicherebbe il suo stesso concetto di nuda vita, sempre definita in relazione alla morte e non alla violazione sessuale.
Per dimostrare la necessità di ulteriori integrazioni nella concettualizzazione di Agamben della nuda vita, sarebbe utile, a mio parere, considerare brevemente due casi storici – il primo rappresentato dalle analisi di Aristotele e di Patterson della schiavitù, il secondo proveniente invece dagli scritti di suffragette militanti britanniche sullo sciopero della fame. Nei termini della genealogia di Agamben della nuda vita, la schiavitù è un caso importante da considerare, perché le sue forme razziali antiche e moderne rappresentano istanze di nuda vita ugualmente estese sia nella polis Greca sia nella democrazia moderna e tuttavia irriducibili sia alla categoria di homo sacer che a quella del campo. Cominciamo sondando i concetti di nuda vita e schiavitù nel testo che si può considerare fondante per la teoria politica di Agamben, la Politica di Aristotele.8 Appena Aristotele introduce le distinzioni cruciali tra zoē e bios, oikos (casa) e polis, affronta i temi della localizzazione e della legittimazione della vita asservita, che non sembra però adattarsi facilmente a queste classificazioni. Così, non si tratta solo del fatto che, come sostiene Thomas Carl, nella polis greca la nuda vita “era abbandonata alla casa, l’oikos,”9 ma il problema fondamentale è che la difesa di Aristotele della schiavitù crea una aporia concettuale che mina la sua definizione di schiavitù come “strumento animato” appartenente alla casa (famiglia).10 Sottintesa nella rete delle differenze fondamentali per la differenziazione dello spazio pubblico della città – come ad esempio le differenze tra il corpo e l’anima, il maschio e la femmina, l’umano e l’animale, la passione e la ragione – la vita asservita, definita da Aristotele come proprietà, non ha un posto “proprio”. Nella sua apologia, Aristotele scrive: “L’anima governa il corpo con l’autorità di un signore: la ragione governa l’appetito con l’autorità di un uomo di Stato… Lo stesso principio vale per il rapporto dell’uomo con gli altri animali… Anche in questo caso, il rapporto tra maschio e femmina è naturalmente quello di superiore a inferiore… Possiamo quindi concludere che tutti gli uomini che differiscono dagli altri tanto quanto il corpo differisce dall’anima, o un animale da un uomo,… sono per natura schiavi.”11 Come dimostrano queste molteplici analogie, l’assoggettamento politico e l’esclusione del femminile come pure la schiavitù sono “come” la sottomissione del corpo alla ragione e dell’animalità all’umano. Forse a testimonianza di quanto fosse sentito il rischio della schiavitù come conseguenza della guerra, questa analogia rende potenzialmente il corpo del cittadino greco “come” il corpo schiavo o disumano. Al contrario, nel corpo reso schiavo sfuma la distinzione tra l’umano e l’animale, la famiglia e la città. A causa della sua posizione intermedia sulla “soglia” (per impiegare un termine usato frequentemente da Agamben in Homo sacer), la schiavitù nel testo di Aristotele comincia a tormentare la polis Greca dall’interno e dall’esterno, rendendo il cittadino greco, prima della sua controparte moderna, già “un essere bifronte, portatore” di asservimento alla ragione e un essere politico tra eguali (HS, 125, nell’edizione statunitense).
Sebbene sottoposti alla violenza del padrone, piuttosto che al bando del sovrano, nella vita in stato di schiavitù della Politica di Aristotele, come nella figura oscura di homo sacer nel diritto romano, sfumano i confini tra l’interno e l’esterno della politica. Nel saggio di importanza fondamentale scritto da Patterson sulla schiavitù dall’antichità alla modernità, si legge un resoconto completo della liminalità della posizione paradossale dello schiavo nell’ordine sociale. In Schiavitù e morte sociale, Patterson sostiene che l’enigma della schiavitù supera entrambe le categorie economiche e giuridiche della legge, della produzione, dello scambio, o della proprietà. Ciò che tutte queste categorie non riescono a spiegare è il dominio “totale” della vita asservita e, nel contempo, la liminalità della posizione degli schiavi. Come l’indistinzione, o la soglia, tra interno ed esterno segnata da homo sacer, la liminalità dello schiavo fa crollare entrambe le differenze, sia quella politica che quella ontologica, tra l’umano e l’inumano, il mostruoso e il normale, l’anomalo e la norma, la vita e la morte, il cosmo e il caos, l’essere e il “non-essere” (SSD, 42, 44). In uno dei passaggi più suggestivi, dedicato all’interpretazione della rappresentazione anglosassone di schiavitù e servitù in Beowulf, Patterson scrive: “Era proprio a causa del suo status marginale, né umano né inumano, né uomo né bestia, né morto né vivo, nemico interno, che non era né membro né vero alieno, che lo schiavo poté portare Beowulf ed i suoi uomini al margine mortale che separava l’ordine sociale di sopra dal terrore e dal caos del sottosuolo” (SSD, 48).
Qual è, quindi, il rapporto tra queste due espressioni di sottomissione e liminalità, rappresentata dal homo sacer, da un lato, e dalla vita ridotta in schiavitù, dall’altro? Il concetto che lega nuda vita e sovranità alla dialettica padrone/schiavo è la sostituibilità della schiavitù con la morte: o per la morte del nemico esterno o per la morte del membro “caduto” interno alla comunità. Secondo Patterson, sostituendo alla morte l’asservimento si riecheggia il significato “archetipo” di schiavitù come morte sociale (SSD, 26). Tale sostituzione non porta il perdono, ma, al contrario, crea l’anomalia dell’essere socialmente morti ma biologicamente vivi e sfruttati economicamente. Poiché l’esproprio della vita di uno schiavo rende lui o lei una non-persona o una persona socialmente morta, si produce un altro esempio di nuda vita, violentemente spogliata di genealogia, memoria culturale, distinzione sociale, nome e lingua madre, cioè, di tutti gli elementi del bios di Aristotele. Simile alla scomunica laica, la schiavitù in tutte le sue diverse formazioni storiche è stata istituzionalizzata come estrema distruzione della formazione sociosimbolica della soggettività. Questa modalità estrema di sradicamento e di esclusione dal processo simbolico, dalla polis, e dalla parentela ricostituivano la vita asservita come un non-essere senza nome, invisibile, “come pro nullo” (SSD, 40).
La nozione di schiavitù come sostitutiva della morte complica la tesi centrale di Agamben secondo la quale la decisione sovrana/nuda vita costituiscono il paradigma politico fondamentale in occidente. In primo luogo, anche se l’estrema delegittimazione e la nullità della vita asservita ne fanno un’altra esemplificazione della nuda vita, il fatto stesso che tale vita subisca sostituzioni di una forma di distruzione per un’altra mina fin dall’inizio la centralità di paradigma unico della politica. In secondo luogo, l’esistenza della schiavitù come istituzione induce a sollevare l’interrogativo se la distruzione della forma storicamente specifica della vita sia una “condizione” di scambiabilità in quanto tale.
Come sostiene Patterson, la distruzione delle forme politiche di vita trasformano gli esseri umani ne “lo strumento ideale umano… perfettamente flessibile, distaccato, e sradicato” (SSD, 337). A causa della sua sostituibilità, tale “”strumento umano più recente monouso”, (SSD, 7) è anche una merce perfetta, e in effetti, Patterson nota casi in cui la schiavitù ha funzionato come moneta. Possiamo sostenere, di conseguenza, che la produzione violenta di morte sociale abbia la funzione di territorio nascosto non solo della politica, ma anche dello scambio di merci.
Di conseguenza, la sostituzione della morte sociale per la morte biologica indica una possibile trasformazione della messa a bando sovrana in proprietà e scambio.
Come suggerisce la discussione di Patterson dell’antica dottrina romana di dominium, il potere assoluto si fonde con la proprietà assoluta di res (SSD, 30-32).
Ciò che accomuna schiavitù e homo sacer è la produzione di nuda vita spogliata della sua specifica forma storica di vita, ma ciò che li distingue è il contrasto tra l’espulsione sovrana e l’inclusione marginale della vita asservita. Se la decisione sovrana sullo stato di eccezione cattura la nuda vita al fine di escluderla, la biopolitica della schiavitù si trova a dover affrontare l’inserimento proficuo di esseri socialmente morti. Quindi, sostiene Patterson, che successivamente alla fase di spersonalizzazione violenta si assiste alla riduzione in schiavitù che introduce “lo schiavo nella comunità del suo padrone, ma comporta il paradosso di presentarlo come un non-essere” (SSD, 38).
Dal momento che, a differenza di quanto accade per l’homo sacer, l’essere socialmente morto che è lo schiavo prevede l’inclusione all’interno e la resa economica, questa seconda fase della biopolitica della schiavitù presenta il dilemma della “incorporazione liminale” (SSD, 45). Il paradosso dell’accorpamento liminale è l’opposto dell’esclusione sovrana, anche se crea effetti simili di indistinzione. Al posto di una decisione sovrana sullo stato di eccezione, abbiamo il contenimento istituzionalizzato all’interno della legge di un’anomalia permanente, che confonde le differenze tra vita e morte, distruzione e profitto.
In un capovolgimento del dominio assoluto dello schiavista in dipendenza parassitaria, Patterson riscrive l’hegeliana dialettica padrone/schiavo – che spiega tale dipendenza in termini di desiderio di riconoscimento – come “parassitismo umano” (SSD, 334-39). L’altra conseguenza cruciale di questa inversione che viene minimizzata nella teoria della sovranità di Agamben è la seguente: la dipendenza parassitaria fornisce un nuovo terreno su cui teorizzare la possibilità di resistenza e di emancipazione. Mettere in rilievo la resistenza, che nega una precedente distruzione di forme di vita e rivendica la creazione di nuove forme, culmina con l’affermazione di Patterson che la più importante scoperta politica dei popoli asserviti è quella della libertà: “I primi uomini e donne a lottare per la libertà, i primi a pensare a se stessi come liberi… erano liberti. E senza la schiavitù non ci sarebbero stati liberti “(SSD, 342). Sebbene Patterson sia profondamente turbato dalla conseguenza del ragionamento che farebbe della schiavitù perfino una condizione contingente di libertà, la sua insistenza sulla battaglia per la liberazione in corso da parte di persone dominate punta a un altro retaggio della modernità che Agamben sembra eludere: l’eredità dei movimenti rivoluzionari e di emancipazione.
Agamben ritiene a ragione che la prassi di liberazione richieda un’ontologia della potenzialità. Eppure non considera mai la potenzialità dal punto di vista della nuda vita – cioè dalla prospettiva dell’impossibile – concentrandosi invece sulla differenza spesso obliterata tra potenzialità e potere sovrano.
A rendergli particolarmente difficile teorizzare l’emancipazione in maggior dettaglio sono i paralleli che stabilisce fin troppo rapidamente tra potenzialità, evento, eccesso del potere costituente, ed eccezione sovrana.
Polemizzando, Agamben sostiene che non ci sono in realtà basi per distinguere tra prassi rivoluzionaria ed eccezione sovrana: “Il problema della distinzione di potere costituente e potere sovrano è, certamente, essenziale; ma che il potere costituente non promani dall’ordine costituito né si limiti a costituirlo, e che esso sia, d’altra parte prassi libera, non significa ancora quanto alla sua alterità rispetto al potere sovrano”(HS,(51). Forse Agamben non vede alcun criterio per distinguere prassi trasformatrice da violenza sovrana, perché si occupa principalmente dell’eccesso topologico della violenza sovrana vis-a-vis l’ordine politico. Come egli ammette, “Essenziale è la domanda ‘dove?’ dal momento che né le istanze costituenti, né il sovrano possono essere situati interamente dentro o interamente fuori rispetto all’ordine costituito” (HS, 49-50).
Tuttavia, se si scambiamo i termini dell’analisi da “dove” a “come” – vale a dire, dalla topologia di Agamben alla lezione più importante di Foucault sulle tecniche del potere – la differenza tra prassi di trasformazione e violenza sovrana diventa più evidente. Sebbene entrambi i tipi di potere oltrepassino l’ordine costituito, il loro modo di operare è diverso. L’eccesso di potere sovrano si manifesta come una sospensione della legge, come esclusione della nuda vita, come uno stato di eccezione che o conferma norma o, in casi estremi, collassa la distinzione tra l’eccezione e la norma. La modalità di funzionamento del potere trasformativo, invece, non è la decisione sull’eccezione ma la negazione delle esistenti esclusioni dalla politica seguita dal processo imprevedibile e aperto teso a creare nuove forme di vita collettiva, un processo che per certi versi assomiglia più strettamente a un esperimento estetico, piuttosto che a un’azione strumentale.
Come ho suggerito in precedenza, un altro ostacolo che impedisce ad Agamben di considerare la pratica della liberazione in modo più approfondito è il fatto che la sua ontologia del potere è stata sviluppata per minare la volontà sovrana e non per trasformare la nuda vita, la configurazione dell’ impossibile, in un terreno di contestazione e possibilità politiche. Per teorizzare il concetto di nuda vita come un territorio conteso, vorrei rivolgere la mia attenzione ora a un altro caso politico: l’utilizzo dello sciopero della fame da parte delle suffragette britanniche all’inizio del ventesimo secolo. Questo caso rivela ancora una volta tre aspetti interconnessi della nuda vita: la sua differenziazione negativa rispetto alla politica di razza e di genere; la sua sottomissione a diverse forme di violenza; e il suo ruolo in molteplici movimenti di emancipazione.
Iniziamo con i fatti che tendono ad essere troppo facilmente dati per scontati. A cavallo del ventesimo secolo, le soggettività razziali e di genere occupavano posizioni ancora liminali nelle democrazie occidentali, e come tali erano associati nell’immaginario politico alla esclusione inclusiva della nuda vita. Eppure queste soggettività sono state anche “portatrici” e creatrici di un corredo molto diverso della modernità, quello di molteplici movimenti di liberazione.
In questo contesto, gli scioperi della fame delle suffragette possono essere considerati invenzione di una modalità di contestazione politica, che mobilita la nuda vita per la lotta per l’emancipazione. Di conseguenza, utilizzando questo caso siamo in grado di integrare l’analisi di Agamben in maniera cruciale: lo sciopero della fame non serve solo a rivelare l’aporia nascosta della democrazia – l’aporia tra la politicizzazione della nuda vita come oggetto di bio-potere e libertà politica garantita da diritti umani – ma dimostra anche come questa aporia possa rendere possibile una trasformazione rivoluzionaria.
Sebbene la storia degli scioperi della fame sia spesso poco conosciuta, essi sono stati praticati nell’antica Roma, nell’Irlanda medievale, e in India come mezzo di protesta, spesso per esercitare pressione morale o per costringere un debitore a ripagare il suo debito.12
Dopo la Rivolta di Pasqua del 1916 in Irlanda, lo sciopero della fame fu adottato nel 1917 nella lotta per l’indipendenza di quel paese;13 più conosciuto l’uso che ne fece Mohandas Gandhi, che digiunò almeno quattordici volte durante l’occupazione britannica dell’India.14 Ciò nonostante, furono le militanti suffragette britanniche che nel 1909 ripristinarono e ridefinirono lo sciopero della fame come arma politica moderna di un movimento organizzato, collegandolo per la prima volta al discorso dei diritti umani. La pratica politica dello sciopero della fame in agitazioni a favore del suffragio fu avviata da una militante per il suffragio, la pittrice e artista Marion Wallace Dunlop, che fu arrestata e condannata a un mese di reclusione per aver scritto sul muro del Parlamento un estratto del Bill of Rights (Carta dei diritti) inglese.15 Dunlop iniziò uno sciopero della fame in protesta contro il diniego del riconoscimento dello status di detenuta politica, e dopo novantun ore di digiuno, fu rilasciata perché i funzionari della prigione, ignoranti circa gli effetti dello sciopero della fame, ebbero paura che sarebbe diventata un martire per le suffragette. Tempo che altre suffragette detenute furono rilasciate prima della scadenza della pena, lo sciopero della fame era stato adottato dai membri del movimento per il suffragio come arma politica efficace sia per porre termine alle pene detentive sia per creare nuove possibilità di rivolta all’interno dell’apparato disciplinare della prigione. In risposta a questo atto di protesta senza precedenti, dopo l’intervento personale del re Edoardo VII nel mese di agosto 1909, il Ministro per gli Affari Interni Herbert Gladstone ordinò che le suffragette scioperanti fossero forzatamente alimentate, una ritorsione punitiva brutale, che fino a quel momento era stata praticata principalmente nei manicomi.16
Come è possibile comprendere questa configurazione dello sciopero della fame come arma di resistenza e la brutalità sadica delle alimentazioni forzate?
Sebbene questo sia stato uno degli episodi più drammatici nella lotta per il suffragio femminile,17 gli scioperi della fame e le rappresaglie politiche di alimentazione forzata sono ancora mezzi di protesta democratica sottostimati dal punto di vista teorico. Nella sua ricerca sull’azione politica non violenta, Sharp classifica lo sciopero della fame come strumento di intervento politico che richiede una trasformazione dei rapporti di potere e un risarcimento per l’ingiustizia.18 Per Kyra Landzelius, lo sciopero della fame è una “sfida corporale” alle “pratiche discorsive del potere.”19 Come proposto nella lettera di Lady Constance Lytton al Times, scritta a proprio nome e di altre undici suffragette in sciopero della fame il 10 ottobre 1909, lo sciopero della fame è sia una protesta sia una richiesta di nuove libertà, un appello articolato attraverso uno strumento doppio, le cui parti sono nettamente divise: una lettera che circola pubblicamente annunciando lo sciopero e il corpo preda all’inedia, isolato in carcere e bandito dall’apparire in pubblico. Nella sua lettera, Lady Lytton afferma che i gruppi dominati ricorrono alla violenza contro i loro corpi quando falliscono gli argomenti razionali basati sulla legge, cioè, quando il linguaggio politico istituzionale è privato del suo potere performativo: “Vogliamo rendere noto che continueremo la nostra protesta nelle nostre celle. Sottoporremo al governo, per mezzo della sciopero della fame, quattro alternative: rilasciarci in pochi giorni; infliggere violenza sui nostri corpi; aggiungere la nostra morte come argomentazione dei paladini della nostra causa lasciandoci morire di fame; o, e questa è la migliore e l’unica saggia alternativa, dare il voto alle donne. Chiediamo al Governo di cedere, non alla violenza della nostra protesta, ma alla ragionevolezza della nostra richiesta.”20 Il richiamo di Lytton alla “violenza” dello sciopero della fame sembra paradossale: inflitta su di sé come obiettivo sostitutivo del potere politico, tale violenza, agisce rifiutando di agire; fa crollare la chiara distinzione tra passività e attività, azione e potenzialità, vittima e nemico. Da un lato, lo sciopero della fame ripete, imita, ed espone in pubblico la violenza irrazionale nascosta dello Stato sovrano contro il corpo delle donne. D’altra parte, usurpando il potere dello Stato sulla nuda vita, la “non-azione” di privarsi di cibo nega l’esclusione delle donne e rivendica la trasformazione della legge. Usurpando il potere sovrano sulla nuda vita, le donne in sciopero della fame occupano entrambe queste posizioni – sovrano e homo sacer -, allo stesso tempo, e questo è ciò che distingue il loro stato da quello dei pazienti in stato comatoso, i detenuti dei campi di concentramento, cioè, da tutti quegli esseri che, in condizioni di estrema indigenza, sono ridotti soltanto a nuda vita. Così ciò che viene implementato nello sciopero della fame è il crollo delle distinzioni tra sovranità e nuda vita, volontà e passività, potenza e atto, la lotta per la libertà e il rischio di autoannientamento.
Maud Ellmann giustamente definisce una tale performance un “gioco d’azzardo con la mortalità.”21 E, come suggerisce la parola gioco d’azzardo, la posta in gioco è la trasformazione della opposizione centrale tra decisione sovrana e nuda vita verso una contingenza radicale della vita politica.
Sebbene non sia stato analizzato da Agamben, l’accento sulla lotta politica collettiva per la nuda vita è un elemento importante del discorso della Lytton del 31 gennaio 1910, pronunciato a Queen’s Hall, solo una settimana dopo il suo rilascio dalla prigione. L’intervento definisce lo sciopero della fame come arma contro il nemico politico: “La gente dice, che cosa significa questo sciopero della fame? Essi non si rendono conto che siamo come un esercito, che siamo delegate a combattere per una causa,… e in ogni lotta o ogni combattimento, bisogna utilizzare le armi. Le armi che chiediamo sono semplici, una udienza equa, ma ce la rifiutano…
Quindi dobbiamo avere altre armi. Cosa scelgono le altre persone quando sono spinte agli estremi?… Esse ricorrono alla violenza.
… Queste donne hanno scelto l’arma dell’autolesionismo per attuare la loro protesta.22
In risposta alla propaganda anti suffragio, Lytton sostiene che gli scioperi della fame non sono attacchi irragionevoli di isteria, ma una scelta ponderata di ultima istanza da parte dell’”esercito” dei diseredati. In quanto atti di “guerra” con i mezzi paradossali di autolesionismo e rifiuto, gli scioperi della fame permisero alle suffragette di continuare la loro lotta rivoluzionaria senza impegnarsi direttamente in una guerra. Inoltre, estendendo la possibilità di militanza dalla sfera pubblica alla stessa prigione, lo sciopero della fame cambia la reclusione in nuovi significati di “combattimento per una causa,” trasforma la punizione in rivolta, trasforma la soggezione in una ambigua agency politica di autolesionismo.
Il modo più suggestivo con cui il discorso della Lytton evoca il concetto di nuda vita quale nuova arma dei movimenti di opposizione, è attraverso la contrapposizione figurativa di corpi femminili, animali e divini. Il suo discorso inizia con un’analogia tra il corpo degradato femminile, privato di diritti, e un corpo animale deformato, abusato nel suo cammino verso il macello, e conclude mettendo a confronto il corpo martoriato delle suffragette imprigionate con il corpo sacrificato di Cristo. Diversamente dall’agnello sacrificale cui Cristo viene spesso paragonato, la pecora deformata, una “creatura” impotente, maltrattata dalla “folla”, è l’esatto contrario di un sacrificio sia umano sia divino.23 Designando il passaggio tra l’animale e l’umano, la “vecchia e deforme”24 pecora è la figura della vita oltraggiata, privata di significato politico o religioso – una vita la cui sopravvivenza biologica è a rischio. Quando in una visione improvvisa Lytton scoprì questa analogia nascosta tra femminilità e vita animale deformata, decise di aderire al movimento delle militanti per il suffragio delle donne, una decisione che trasformò la sua vita e le diede significato politico e collettivo. Siamo in grado di scandagliare la profondità di questa trasformazione contrapponendo l’animale spaventato isolato, incapace di protestare contro l’abuso e l’”esercito” di donne che formano un movimento rivoluzionario, al fine di lottare per l’accesso alla politica.
L’usurpazione da parte delle suffragette della decisione sovrana sulla mera vita nella lotta per i diritti politici nega la loro esclusione e sospende la legge corrente, almeno sul piano simbolico. Eppure questo atto non costituisce uno stato di eccezione, che, attraverso l’atto di esclusione, stabilisce il quadro normale di riferimento o, come nel caso del fascismo, trasforma l’eccezione in una nuova norma. Piuttosto, la militanza per il suffragio rappresenta una chiamata rivoluzionaria per una legge ancora a venire. Come sostiene Landzelius, lo sciopero della fame mette in scena un processo politico i cui imputati sono la legge esistente e l’autorità politica. In questo “processo meta-giuridico”, l’atto privato di inedia inverte il verdetto di colpevolezza imposto alle suffragette militanti in condanna pubblica del governo.25 Così, lo sciopero della fame converte la punizione giuridica in un mezzo per interrogare la legge stessa e contestare l’autorità del governo. Invertendo i ruoli degli imputati e degli accusatori, lo sciopero della fame esegue un trasferimento chiasmatico doppio tra la nuda vita e la legge, tra il presente e il futuro. Da un lato, si trasforma l’atto privato della fame in una contestazione collettiva della legge; d’altra parte, chiama l’autorità ancora inesistente della nuova legge rischiando la vita fisica del corpo. In un movimento catacrestico, la nuda vita anticipa ciò che è imprevedibile e oltre l’anticipazione: una nuova legge e una forma di vita di corpi femminili. In questo modo, trasforma l’impossibilità in potenzialità.
Come contromisura alla decisione sovrana, le suffragette in sciopero della fame si appropriarono della propria nuda vita, strappandola alla decisione sovrana, e trasformandola in un terreno di costituzione di una nuova forma di vita. Poiché non portava più il significato represso di nuda vita e acquisiva invece una forma politica, la pubblica ridefinizione operata dalle suffragette del corpo femminile, non solo metteva alla prova la decisione sovrana sulla nuda vita, ma così facendo chiamava a una nuova mediazione di vita e forma, fuori dei parametri di tale decisione. In gioco c’è un nuovo tipo di legame tra nuda vita e forma politica generata dal basso, come infatti fu, piuttosto che imposta dall’alto da una decisione sovrana. Come sostiene Wall, è l’assenza del rapporto tra nuda vita e i suoi modi di vita politicamente qualificati che richiede la decisione sovrana: “La nuda vita non è relazionale e invita quindi la decisione. È lo spazio stesso della decisione… e, come tale, è perennemente casuale”.26 Grazie alla sua contestazione di una decisione sovrana sulla nuda vita, il nuovo collegamento tra nuda vita e forme di vita non si presta ad essere confuso né con una riconciliazione dialettica né con una celebrazione della vita prepolitica. Alla fine di Homo Sacer, Agamben accenna solo a ciò a cui questa nuova forma di mediazione potrebbe assomigliare, soppiantando la decisione sovrana: “Occorrerà, piuttosto, fare dello stesso corpo bio-politico, della nuda vita stessa il luogo in cui si costituisce una forma di vita tutta versata nella nuda vita, un bios che è solo la sua zoē… Se chiamiamo forma-di-vita questo essere che è solo la sua nuda esistenza, questa vita, che è la sua forma, e resta rimane inseparabile da essa”(HS, 210-211). Il punto chiave qui è l’inseparabilità e tuttavia non identità tra forma e vita, che rende sia la loro rottura sia la loro unificazione altrettanto impossibili.27
Come dimostra questa discussione della biopolitica di razza e di genere, tale riconsiderazione della nuda vita nel contesto della politica razziale e sessuale richiede alcune revisioni fondamentali di questo concetto. Come abbiamo visto, la nuda vita non può essere considerata in completo isolamento da tutte le caratteristiche culturali e politiche. Se la nuda vita emerge come residuo di una forma di vita distrutta, allora, secondo quanto sottolineato dallo stesso Agamben nel suo concetto di esclusione inclusiva nella politica, la sua formulazione deve fare riferimento, in modo negativo, alle differenze razziali, sessuali, etniche e di classe, che usano caratterizzare la sua forma di vita. In altre parole, la nuda vita deve essere definita come residuo di una specifica forma di vita che non è ancora o non è più. Inoltre, la nuda vita non può sempre essere considerata come il referente esclusivo della decisione sovrana, ma deve essere ripensata come un più complesso terreno conteso in cui nuove forme di dominio, dipendenza, e lotte di emancipazione possono emergere. Analizzando la nuda vita come l’obiettivo della violenza sovrana, Agamben ci permette di diagnosticare nuove forme di dominio e pericoli politici della modernità. Sebbene qualsiasi prassi di libertà dipenda da una tale diagnosi, al tempo stesso tale prassi supera le forme costituite di potere e richiede riflessione sul ruolo spesso occluso della nuda vita in un altro paradigma della modernità democratica, quello della lotta per la libertà. In tal modo, trasforma l’impossibilità in contingenza nella vita politica.
Note
1 Giorgio Agamben, Homo Sacer: il potere sovrano e la nuda Vita, trans. Daniel Heller-Roazen (Stanford, CA: Stanford University Press, 1998). (Nella traduzione abbiamo utilizzato il testo originale in italiano, l’edizione Einaudi del 1995. Nei casi in cui ci è stato impossibile rintracciare la citazione, abbiamo segnalato che si trattava della traduzione dal testo statunitense).
2 Catherine Mills è una dei pochissimi interpreti di Agamben a sollevare la questione della sessualità e della realizzazione sessuale, sia nel contesto della teoria della testimonianza di Agamben sia nella sua teoria della nuda vita. Mills, “Linguistica Sopravvivenza e Eticità”, in Politica, Metafisica e morte: Essays on “Homo Sacer” di Giorgio Agamben, ed. Andrew Norris (Durham, NC: Duke University Press, 2005), 215-8. Anche se Sidi Mohammed Barkat non si confronta direttamente con Agamben, la sua analisi de “i corpi d’eccezione” dei colonizzati può essere letto come una illuminante critica “postcoloniale” della filosofia di Agamben. Barkat, Le corps d’eccezione: Les artifici du pouvoir coloniale et la distruzione de la vie (Paris: Editions Amsterdam, 2005). L’accurata analisi di Diane Enns delle ambiguità di rivolta di i corpi occupati ridotti a nuda vita è un altra cruciale estensione del lavoro di Agamben nel contesto coloniale. Enns, “La nuda vita e il corpo occupato,” Teoria e Event 7.3 (2004), http://muse.jhu.edu/journals/theory_and_event/toc/archive.html#7.3 (accesso 23 Nov 2006).
3 Orlando Patterson, Schiavitù e morte sociale: uno studio comparativo (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1982). D’ora in avanti citato tra parentesi per numero di pagina come SSD.
4 In Politica, Aristotele fa una famosa distinzione tra mera vita e buona vita per definire la funzione di polis: “Anche se perviene all’esistenza per amore (in ragione) della mera vita, esiste per amore (in ragione) di una buona vita “. Aristotele, Politica, trans. Ernest Barker, ed. R. F. Stalley (Oxford: Oxford University Press, 1998), libro 1, cap. 2, p. 10.
5 Hannah Arendt segue la distinzione aristotelica tra zoē e bios in numerosi suoi testi, in particolare ne La condizione umana, dove identifica la vita politica non solo con parola e azione ma soprattutto con la condizione della pluralità umana. Arendt, La condizione umana, 2a ed. (Chicago: University of Chicago Press, 1998), 7.
6 Cfr la discussione di Michel Foucault di “l’empirico e il trascendentale” in L’ordine delle cose: un’archeologia delle scienze umane (New York: Vintage, 1973), 318-21.
7 Secondo Ernesto Laclau, l’assenza della teoria della resistenza si intreccia con la mancanza della teoria dell’egemonia. Laclau sostiene che Agamben non riesce a distinguere tra sovranità totalitaria e democratica, che emerge dall’egemonia dei movimenti democratici. Laclau, “Nuda vita o indeterminatezza sociale?” in Giorgio Agamben: Sovranità e la vita, ed. Matthew Calarco e Steven Decaroli (Stanford, CA: Stanford University Press, 2007), 11-22. Per una critica diversa della mancata attenzione alla resistenza nel contesto del corpo e la contingenza delle lotte politiche, si veda anche Andreas Kalyvas, “Il tessitore sovrano,” in Politica, metafisica, e morte, 112-3.
8 Sono grata alla mia collega Kalliopi Nikolopoulou per aver discusso con me la nozione aristotelica della schiavitù. Per la sua eccellente discussione del rapporto tra Agamben e Platone, vedere “Tra Arte e Polis: Tra Agamben e Platone” (inedito, Buffalo, NY, 2006).
9 Thomas Carl Wall, “Au Hasard”, in Politica, metafisica, e morte, 39.
10 Aristotele, Politica, libro 1, cap. 4, p. 13.
11 Aristotele, Politica, libro 1, cap. 5, p. 16.
12 Per una breve discussione della storia dello sciopero della fame, vedere Gene Sharp, The Politics of Nonviolent Action (Boston: Porter Sargent, 1973), 363-67.
13 Maud Ellmann sostiene che i nazionalisti irlandesi potrebbero essere stati ispirati dalle lotte delle suffragette, ma per celarlo, si sono richiamati alla pratica medievale del digiuno nei confronti dei debitori per costringerli a rimborsare i loro debiti. Ellmann, Gli artisti affamati: inedia, scrittura, e prigione (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1993), 11-12.
14 Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, 637.
15 Midge Mackenzie, Spalla a spalla: un documentario (New York: Alfred A. Knopf, 1975), 110.
16 Lisa Tickner, Lo spettacolo delle donne: immagini della campagna per il suffragio, 1907-1914 (Chicago: University of Chicago Press, 1988), 104.
17 Secondo Jane Marcus, è “forse l’immagine primaria nell’immaginario pubblico per quanto riguarda il ‘senso’ del movimento suffragio.” Marcus, “Introduzione: Rileggendo le Pankhursts e il suffragio femminile,” in Suffragio e le Pankhursts, ed . Marcus (London: Routledge, 1987), 2.
18 Sharp, Politica dell’azione nonviolenta, 359.
19 Kyra Marie Landzelius, “Scioperi della fame: la drammaturgia della fame politica,” in Einstein incontra Magritte: scienza, natura, azione umana, e società, vol. 3, Uomo e natura: un mondo in transizione, ed. Diederik Aerts (Dordrecht: Kluwer, 1999), 83.
20 Mackenzie, Spalla a spalla, 135.
21 Ellmann, Gli artisti affamati, 21.
22 Cheryl R. Jorgensen-Earp, Discorsi e processi delle suffragette militanti (London: Associated University Presses, 1999), 108-9.
23 Ibid., 108.
24 Ibid., 107.
25 Kyra Marie Landzelius, “Scioperi della fame,” nella Encyclopedia of Food and Culture, vol. 2, ed. Solomon H. Katz (New York: Charles Scribner’s Sons, 2003), 220.
26 Wall, “Au Hasard,” 39.
27 Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz: l’archivio e il testimone, trans. Daniel Heller-Roazen (New York: Zone Books, 1999). Nella sua discussione delle testimonianze dei sopravvissuti in Quel che resta di Auschwitz, Agamben definisce tale collegamento come il compito aporetico della testimonianza. Per la mia discussione della struttura etica della testimonianza dei superstiti in Quel che resta di Auschwitz, vedere “Il male e la testimonianza: l’etica ‘dopo’ il postmodernismo,” Ipazia 18 (2003): 201-3.
Per gentile concessione dell’autrice, l’articolo in lingua originale si trova al seguente link http://springtheory.qwriting.qc.cuny.edu/files/2015/01/Ziarek.pdf Traduzione dall’inglese di Marina Mazzolani, revisione di Pina Piccolo,
Ewa Plonowska Ziarek è professore di Letteratura Comparata all’Università di Buffalo, negli stati Uniti. Tra i corsi di insegnamento- teoria femminista, modernismo, filosofia continentale, etica e teoria critica. E’ autrice delle seguenti opere di saggistica: The Rhetoric of failure: Deconstruction of Skepticism, Reinvention of Modernism, (SUNY, 1995), An Ethics of Dissensus: Feminism, Postmodernity, and the Politics of Radical Democracy (Stanford 2001; ha curato il volume Gombrowicz’s Grimaces: Modernism, Gender, Nationality, (SUNY, 1998); e con Tina Chanter è stata co-curatrice dei volumi Revolt, Affect, Collectivity: The Unstable Boundaries of Kristeva’s Polis (SUNY, 2005) e Intermedialities: Philosophy, Art, Politics (in uscita). Ha pubblicato numerosi articoli su Kristeva, Irigaray, Derrida, Foucault, Levinas, Fanon e sul modernismo letterario.
Foto in evidenza di Teri Allen Piccolo.
Foto dell’autrice a cura di Ewa Ziarek.