NORAH ZAPATA-PRILL (BOLIVIA-SVIZZERA): VITA E POESIA CHE MIGRANO

FOTO 16

(Foto: dalla fotogallery di Nicoletta Lofoco)

RIFLESSIONI SU EMIGRANTE DI NORAH ZAPATA-PRILL

a cura di Raffaele Urraro 

(da Capriccio umano, Gattomerlino, Roma – pp. 17-19)

 

   La poesia di Norah Zapata-Prill nasce da radici cui la poetessa è legata da un cordone affettivo che non è destinato a scomporsi: la sua condizione di “emigrante”, non per motivi economici, come lei stessa dichiara apertamente, ma per profonde esigenze sentimentali, esistenziali e culturali, le consente conoscenze di varia natura e di grande rilevanza e una particolare lettura delle cose del mondo, sicché il suo “emigrare” si pone come una grande avventura intellettuale e come un’autentica metafora della vita intesa come ulissiaca sete di partire, andare, magari fermarsi, per poi ripartire di nuovo. La sua emigranza, quindi, nasce da profonde esigenze spirituali: la vita non è fatta per fermarsi e darsi in pasto alle cose, ma è una sete che si placa proprio se sono le cose a darsi per estinguere quella sete di tutto, che può essere sete di niente, ma che comunque disseta la nostra poetessa, quando lei scopre il senso della vita e dell’esistenza “nel singhiozzo di una penna che copula col foglio”.

   Pertanto l’“emigrante” Norah ha preso sulla parola la vita, l’ha aperta, l’ha sdrucita nelle sue componenti più intime, l’ha esplorata ed ha capito: ha capito che bisogna andare e non fermarsi se si vuol rapire al mondo qualche cosa di più profondo; ha capito tutti i traumi del lasciare e tutte le emozioni del ritrovare; ha capito come, in questo alternarsi capriccioso e indolente di eros e thanatos, nei loro sussulti e nei loro trasalimenti, passa la vita e il tempo che ci è dato in sorte.

   Tutta una vasta gamma di sentimenti e di sensi si compongono e si scompongono nello spazio-tempo nel quale gli uomini si avventurano portando sulle spalle il peso di ciò che si lascia e i sogni che si proiettano sullo schermo del futuro.

   È per questo che il testo Emigrante mi ha colpito nella parte più intima della mia sensibilità, anche perché può essere considerato come l’emblema dei modi e delle forme del poetare di Norah, e mi ha costretto a riflettere sui problemi che esso solleva e a scrivere queste note che non hanno alcuna finalità se non quella di comunicare alla poetessa il mio amore per la sua poesia e per le sue parole.

EMIGRANTE

 

Separarsi con il margine intatto dall’albero al quale apparteniamo

 

e il seme

che si offre

prodigo

 

partire costruendo ponti con una sola mano

 

partire

essere presente e essere assente nei giorni che nascono

nei giorni che muoiono

 

nel disordine della valigia

come dimenticare le nuvole con le quali disegnava fiabe la nostra infanzia?

 

Partire nel concavo specchio degli occhi come mettendo il sole nelle tasche

 

partire

mandare tutto all’aria nonostante le erbe di palude

il campo seminato

la pentola sul focolare

 

partire senza confessare che l’oblio si accoppia alla memoria

che il ricordo oscura il fuoco

 

partire dando forma al vento

 

schiodarsi

separarsi dalla radice sapendo che è irrinunciabile saziare la sete

 

partire con l’interrotto sorriso di una madre

vestire il silenzio

sentire la vita che esce dal corpo quando in lontananza uno scialle traspira

 

partire con un segreto

sognare attraverso gli altri: non verranno più i giochi dei pini

lasciare  che il fico maturi

maturare attraverso l’albero sterile del fico

partire mettendo indietro l’orologio per ritornare a tempo

partire dicendo addio e lasciando Dio come supplente

andarsene

perché l’oggi si prosegua nel domani così disperino gli istanti.

 

   Emigrare è partire, sì. E già la prima lettura del testo ci comunica tutta la drammaticità dell’emigrare, del “partire”, segno che ricorre direttamente nella maggioranza dei versi (10 volte) o attraverso suoi sinonimi: “separarsi” (2 volte), “schiodarsi”, “andarsene”. Ecco: emigarare è partire, separarsi, schiodarsi, andarsene: da dove? È qui il dramma, che si consuma nel distacco da un mondo che non si può abbandonare a cuor leggero. E questo non dipende da chi se ne va, ma è nell’atto stesso della separazione. Partire, quindi, per colui che parte, significa una pluralità di cose, racchiude sentimenti, prospettive, tristezza, lacrime, sorrisi, illusioni e preoccupazioni: cioè tutto un crogiuolo di stati d’animo che Norah racchiude nei suoi versi espressi a volte con un pacato disincanto, a volte con intima sofferta partecipazione, come si evince dalla serie di esplicitazioni del pensiero attraverso le quali chiarisce che partire significa:

  • lasciare la famiglia alla quale apprteniamo, famiglia che non è un gruppo di persone indistinto e assemblato alla men peggio, ma è formato da singoli elementi a cui siamo legati da affetti reciproci di cui ciascuno è “prodigo”;
  • costruire nella propria mente e nella propria anima nuovi contatti e nuovi rapporti;
  • essere assenti, ma nel contempo essere presenti, dall’alba al tramonto, in coloro che restano, con lo spirito che ha pervaso quel mondo che si lascia;
  • prepararsi alla partenza senza dimenticare nulla, tutto immettendo nella valigia, sì, ma come si fa a mettervi pure quelle nuvole che durante tutta la nostra infanzia innescavano i meccanismi della nostra fantasia e della nostra aimmaginazione e ci aiutavano a costruire le nostre fiabe, i nostri sogni?;
  • tentare di nascondere le nostre lacrime, cosa molto complicata, come mettere il sole nelle tasche;
  • distaccarsi dal proprio mondo, mandando tutto all’aria, senza neppure preoccuparsi più di tanto del fatto che il campo già seminato era pronto a dare i suoi frutti e la pentola sul focolare era ormai pronta ad offrire la cena:
  • astenersi dal confessare che il ricordo di coloro che si lasciano può via via affievolirsi fino alla dimenticanza oscurando anche gli affetti;
  • dare forma e forza ai nostri sogni, ai progetti, a ciò che è aleatorio, e cioè, detto con il verso più intrigante e invasivo del testo: “partire dando forma al vento”, dar corpo concreto alle nostre illusioni;
  • separarsi da ciò che costituisce quell’universo emotivo al quale non è possibile rinunciare e al quale comunque si resta legati con il cuore pieno di sentimenti e affetti;
  • lasciare la propria madre che sorride ai nostri sogni e benedice le nostre speranze proprio mentre smette di sorridere e ci augura, con la tristezza nel cuore, tutto il bene del mondo e piange per il dolore del distacco, sicché in quei momenti è difficile coprire il silenzio con le nostre parole, mentre si ha la netta sensazione che non sarà facile staccarsi da quella persona che rappresenta più di tutte le altre il nostro mondo affettivo.

   E poi, nella parte finale della poesia, dove i versi non si separano più, ma si rincorrono con una forte insistenza, come a rappresentare tutto il crogiuolo di sentimenti e di rimpianti che urgono alla sensibilità della poetessa per esser detti, Norah, come in un moto liberatorio, ma che è contrassegnato da una forte malinconia e nostalgia, sembra avvertirci: si parte con un segreto nell’anima, forse per paura di confessarlo, proprio mentre si lascia agli altri il compimento di ciò che doveva ancora verificarsi, che il fico porti a maturazione i suoi frutti durante la nostra assenza; si parte con uno sguardo al tempo nella speranza, o forse nella promessa, di ritornare quanto prima, magari in tempo per assaporare i fichi maturi; si parte dicendo addio ma chiamando Dio a testimone della sincerità e della veridicità delle nostre promesse: il tempo presente diluisce nel tempo futuro mentre si vorrebbe proprio che il futuro venga presto e diventi il presente del ritrovarsi.

Testo di grande intensità, questo. C’è forse tutta la vita di Norah, certo. C’è un autobiografismo scoperto e sincero. Ma c’è anche la vita di tutti coloro che, per un motivo o per un altro, si apprestano a lasciare, o sono costretti a lasciare, la propria terra. E c’è anche la metafora dell’esistenza tout court: che cos’è la nostra vita, se non questo partire per ritornare, questo rincorrersi del tempo che tracima nella dispersione totale? Guai, allora, se non ci fosse la poesia per colui che, sospinto dalla volontà e dalla necessità di “vedere” per “conoscere”, si abbandona a un’avventura dell’anima per riempirla di vita e di esistenza, perché la poesia costringe a cogliere nelle cose e in se stessi la vera essenza delle nostre azioni e quindi della nostra vita.

   E Norah ha detto le sue cose penetrando in esse con l’occhio indagatore di chi ha la profonda sensibilità che scava al di fuori di sé e in sé per cogliervi tutti i battiti di un cuore che davanti alle scoperte si riempie delle impressioni, delle sensazioni, delle idee, e si svuota obbedendo agli stimoli della sensibilità e si fa poesia.

   Eccoci, dunque, al punto finale.

   Norah scrive in spagnolo, in quel castigliano ricco di sonorità e di parole agili e flessuose che danno al testo poetico una fluidità che s’imprime nella nostra mente lasciandovi tracce profonde. Ho analizzato il testo tenendo presente la traduzione in lingua italiana di Piera Mattei, ma sempre con lo sguardo sul testo originario, agevolato dalla simiglianza delle parole delle due lingue neolatine. E ho scoperto che i significanti (le parole) usati da Norah veicolano significati (i concetti) che vanno oltre la loro normale significanza come se le parole si dipanassero in tanti rivoli semantici di grande suggestione. Ecco qualche esempio:

  • pertenecemos: non vuol significare solamente «apparteniamo», ma indica una sorta di osmosi continua tra sensibilità diverse;
  • costruyendo pontes: l’espressione si dilata in significati allotri, perché «costruire ponti» significa fondamentalmente stringere rapporti umani, fare conoscenze, mettere in campo condivisioni;
  • partir dándole forma al viento: è una stupenda espressione che intriga fortemente: partire per dare alle illusioni e ai sogni una sostanza fatta di concretezza e di realtà è soprattutto una specialissima metafora, come anche la seguente;
  • vestir el silencio: vestire il silenzio, trovare le parole adatte a rompere quello strano disagio, sì, ma quel dare un abito al silenzio è una pregiata metafora che crea nel fruitore una sorta di forte straniamento.

   È per tutto questo che amo la poesia di Norah. Ed è proprio questa operazione che si richiede di effettuare a chi si dedica al difficile mestiere del fare poetico: saper usare le parole, sì, ma per dire le cose, cose importanti, quelle che ci servono per sapere vivere, ed anche per imparare a morire, trasportati sulle ali di un’intuizione particolare, di una parola usata in una sorta di verginità semantica che la fa scoprire nuova e diversa, di un guizzo della fantasia o dell’immaginazione che può mettere in moto nei lettori percorsi dagli approdi imprevedibili. Basta che le parole siano ben usate, perché, come ben dice Baudelaire, in poesia les mots font l’amour («le parole fanno l’amore»).

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Norah Zapata-Prill nasce a Cochabamba, Bolivia, nel 1946. Dal 2009 ha assunto nazionalità svizzera.

Dopo il diploma di studi classici, va in Argentina per intraprendere studi di medicina, ma un’inflazione economica in quel paese la costringe a tornare in Bolivia dove s’iscrive alla facoltà di Odontologia. Anche questo studio s’interrompe perché il presidente del paese, temendo la partecipazione degli studenti in un colpo di stato, fa chiudere le università. L’urgenza di acquistare una professione la conduce alla Normal Superior Católica Sedes Sapientiiae e nel 1970 completa i suoi studi di Letteratura e castigliano. Nel 1972 ottiene una borsa di studio per studi di Lingua e letteratura Spagnola a Madrid. Di ritorno in Bolivia lavora come insegnante e si dedica alla sua poesia, che aveva iniziato a pubblicare con incoraggiamenti e successi critici, dall’età di vent’anni. Vince il primo Gran Premio Nazionale Franz Tamayo, nel 1973 e nel 1977. Nel 1978 si trasferisce in Svizzera. Lavora e viaggia molto, invitata in Europa e in Messico a molti festival di poesia. Dal 1993 al 2009 dirige uno stabilimento geriatrico e dal 2009 al 2013 è co-fondatrice e direttrice, presso Losanna, della fondazione Donatella Mauri, che si occupa di anziani che soffrono di demenza. Attualmente è vice-presidente del Consiglio dei Fondatori di quella stessa istituzione e corrispondente dell’Academia Boliviana de la Lengua. Ha una figlia, e tre grandi passioni: viaggi, poesia, giardinaggio.

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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