Progetto in progress di Giuseppe Pensabene Perez (intervistatore, testo) e Alfredo D’Amato (foto)
Parte I : Non ho una storia, ho un problema, Sabah si racconta
Sabah (29)
Shihab (6)
Husam (5)
Zannùn (3)
Ingresso in Sicilia: | 17/8/2017 |
Porto di Pozzallo Nave Aquarius (SOS mediterranee / MSF) |
Primo Incontro (Giuseppe) | 16/7/ 2017 | Mar Mediterraneo, nave Phoenix (MOAS) |
Secondo incontro | Giugno 2018 | Hildesheim (Germania) |
“Le donne sudanesi non viaggiano da sole con i bambini, mio fratello non mi parla più da quando sono partita. È come se la mia tribù mi avesse espulso. Poco mi importa, tanto non erano stati in grado di proteggermi nemmeno quando ero in Sudan.”
“Sto scrivendo un libro che racconta la mia esperienza, si intitola Maqābir al-Mutawassiṭ (I cimiteri del Mediterraneo). “Io, da rifugiata che scappa dai problemi, ritengo che dovrei avere la possibilità di scegliere il paese dove chiedere asilo, non devono obbligarmi lasciare le impronte, non deve esserci un dispositivo come quello del diniego e del rimpatrio (verso il primo paese di ingresso o verso il paese di provenienza).”
“La cosa che ho odiato di più dell’Europa è il dispositivo dell’impronta, del diniego (della richiesta d’asilo) e del rimpatrio (sia al proprio paese, che al paese di primo arrivo, cioè l’Italia o la Grecia)” . Quando mi hanno dato la risposta positiva e il passaporto, non ero contenta, perché pensavo a tutti quelli che ricevono il diniego e il rimpatrio, tra cui tantissimi fratelli sudanesi, ma non solo”
Sabah si imbarca con i suoi tre bambini piccolissimi su un gommone nella cittadina di al-Khums in Libia a luglio del 2017. Il 16 Luglio, dopo 10 ore di navigazione, l’imbarcazione viene intercettata e salvata dalla nave Phoenix, dell’ONG MOAS. Sono un centinaio di persone, in prevalenza sudanesi. Gli uomini singoli sono sistemati sul ponte superiore della nave, sotto un tendone e le donne e i bambini nel ponte coperto inferiore. Sono in prevalenza sudanesi, circa 100 persone. Sabah e i suoi tre figli si notano subito. Lei è bellissima, ha un ‘abaya nera e un hijab grigio, i bambini sono piccoli piccoli.
Le donne sudanesi sono rare, quella sudanese è quasi unicamente una migrazione di uomini giovani singoli, è raro trovare famiglie, ancor più raro trovare donne sole. I sudanesi hanno una percentuale di riconoscimento dello status di rifugiato abbastanza alta, circa il 60% a livello europeo. Si tratta in prevalenza di uomini appartenenti a tribù africane, provenienti da zone del Sudan con forti problemi di instabilità, violenza e discriminazione razziale; Darfur, Sud Kordofan, Nilo Azzurro (Blue Nile). Hanno un progetto migratorio molto chiaro: quasi tutti ambiscono ad arrivare in Inghilterra, dove c’è una consistente storica comunità sudanese e nei confronti della quale sentono un legame per via della colonizzazione. Molti hanno un livello di istruzione universitario e parlano bene l’inglese. Ormai, raggiungere l’Inghilterra è quasi impensabile (eppure qualcuno di loro ci riesce sempre), così come è molto difficile passare dall’Italia alla Francia. Non lasciare le impronte digitali con il sistema hotspot, inoltre, è diventato impossibile. Tutto questo i Sudanesi lo sanno. Sanno che in Italia saranno foto-segnalati, saranno picchiati se provano a rifiutare, sanno che entrare in Francia sarà difficilissimo, e dovranno provare anche decine di volte, con la consistente possibilità di essere rimandati a Taranto o Trapani da Ventimiglia, o addirittura rimpatriati in Sudan, ma non desistono.. Sanno anche che una volta raggiunto il paese europeo in cui chiedono asilo, l’impronta italiana spunterà fuori e dovranno lottare contro l’eventuale decisione Dublino sul paese di competenza per studiare la domanda. Sanno tutto ciò, ma ci provano lo stesso. Diventa una battaglia personale contro il sistema europeo. Non possono non provarci fino alla fine. A Ventimiglia, i Sudanesi, si sono guadagnati tutto il rispetto e l’ammirazione dei militanti NO Borders, proprio per la loro ostinazione e per il livello di consapevolezza politica.
Intervista realizzata da Giuseppe
Sabah, già sulla nave, comincia a raccontare parti della sua storia.
“No, non ho chiamato a casa. Non potevo. Ho dovuto chiamare una persona di mia conoscenza che ha mandato i soldi e ci hanno liberato. (…) Il viaggio è stato orribile, temevamo di morire, non so descriverti i sentimenti provati quando vi abbiamo visto arrivare. Quando è passato sopra di noi l’aereo, ho alzato uno dei bambini e l’ho sventolato in alto! Non ci potevo credere che foste arrivati così velocemente.
I miei sogni in Europa sono di trovare finalmente sicurezza e stabilità, che i miei figli possano studiare in maniera appropriata, che crescano in un ambiente sereno, senza guerre e problemi, lontani dalle armi, dalla violenza. E continuare a studiare anche io, in Sudan ho studiato legge nell’Università di al-Nilayn. Non ho potuto completare i miei studi, come avrei potuto? Non potevo stare sicura neanche a casa, ero minacciata. Il governo non ci protegge. Io appartengo alla tribù dei Borgo, una tribù africana, vittima di discriminazione. La discriminazione razziale è un problema in Sudan, ti fanno di tutto… Alla domanda “cosa speri per i tuoi figli”, risponde accarezzandoli uno per volte sulla testa: Questo (il più grande) deve assolutamente studiare legge, come me; quest’altro medicina e diventare dottore; il più piccolo, con il permesso di Dio, diventerà pilota. Poi queste sono le mie ambizioni, vedremo cosa vogliono loro, la cosa più importante è la sicurezza e la stabilità.
Dopo poche ore arriva un’indicazione del Coordinamento della Guardia Costiera di trasferire le persone salvate sulla nave Aquarius che aveva già compiuto altri salvataggi e stava facendo rotta verso l’Italia, noi invece saremmo dovuti rimanere in zona SAR (Search and Rescue), in caso di nuove imbarcazioni in pericoli. [Secondo il Codice di Condotta di Minniti, questi trasbordi di persone salvate, tra navi di soccorso, sarebbero dovuti avvenire – come già succedeva – sotto il coordinamento della Guardia Costiera. I trasbordi erano comunissimi per motivi operativi, non solo tra navi ONG, ma anche tra le stesse e le unità della Guardia Costiera, della Marina o dei mercantili] Prima di salutare Sabah le scrivo il mio numero su un foglietto di carta minuscolo, “se hai problemi in Italia, chiamami”.
A inizio giugno 2018 ricevo una chiamata da un numero tedesco. È Sabah. Non avevo saputo più nulla di lei da quando lei e figli erano stati trasbordati sull’altra nave. Mi dice che dei suoi parenti sono partiti dalla Libia la notte prima e che non sa se sono arrivati, se sono stati salvati, mi chiede informazioni. Io non lavoro da tempo sulle navi, da quando l’ONG per cui lavoravo, ha cessato le operazioni nel Mediterraneo per via del clima politico ostile, in realtà ho semi cambiato vita e insegno a scuola, ma ancora ho contatti. Su twitter vedo che la Aquarius di Sos Mediterranee ha compiuto due operazioni di salvataggio nella notte. Ottengo il numero delle referente comunicazione a bordo della nave, le passo i nomi dei parenti di Sabah. Dopo due ore mi riscrive: sono a bordo con loro. Richiamo Sabah, la informo, si commuove, piange al telefono, mi ringrazia. Il governo Conte si è appena insediato e il Ministro dell’Interno non ha ancora avuto tempo di cominciare la guerra contro i salvataggi in mare. Neanche dieci giorno dopo, la stessa nave, l’Aquarius con a bordo 630 persone, sarà costretta a un estenuante navigazione fino a Valencia, perché ogni attracco in Italia le è stato interdetto.
Continuo a sentire Sabah ogni giorno, seguo a distanza il destino dei suoi due cugini in viaggio. Sbarcano a Pozzallo, vengono trasferiti in un CAS a Siracusa, dopo due giorni sono già a Roma, una settimana dopo sono entrati in Francia. Con Alfredo stiamo maturando il progetto di andare a trovare i siriani in Belgio conosciuti nel 2014 sulle navi Mare nostrum. Decidiamo di provare a inserire nel viaggio anche una visita a Sabah, che si trova in una cittadina tedesca vicino a Hannover. La chiamo e glielo propongo: “sarebbe un onore per noi, se ci venissi a trovare”. Mi risponde. Le spiego che verrei sia per amicizia, ma anche per una sorta di progetto che sto scrivendo con un amico fotografo, che consiste nel ritrovare una serie di persone conosciute agli sbarchi o in mare e vedere come stanno messi, come li ha trattati l’Europa, che tipo di pacchia stanno vivendo. Accoglie positivamente la mia idea, dice che non c’è problema.
E così giovedì 21 giugno del 2018, arriviamo a Hildesheim, una città di centomila abitanti, situata nella Bassa Sassonia, a mezz’ora di macchina da Hannover. Sabah abita in un complesso per nuclei familiari richiedenti asilo. È un grosso edificio di quattro piani, forse un ex scuola, formato da micro appartamentini con bagno. Ci abitano circa 300 unità familiari. L’appartamentino di Sabah è composto da una stanzetta con appena lo spazio per un divano e un’altra con un letto matrimoniale e i mobili della cucina. Ci spiega subito che lei in teoria non dovrebbe più stare là, poiché avendo ricevuto pieno status di rifugiata, con passaporto, ha diritto di spostarsi in un appartamento singolo, pagato dallo stato. Nell’edificio invece sono soprattutto richiedenti asilo o diniegati in attesa di ricorso o di trasferimento Dublino. Trovare appartamenti sfitti, con proprietari che accettino che sia lo stato a pagare l’affitto, e alla cifra indicata è diventato un grande problema in Germania, condiviso da tutti i rifugiati. Sabah ci dice che è in contatto con un “simsàr”, una specie di intermediario tra gli affittuari e lei, che in cambio di una percentuale sull’affitto le ha trovato un appartamento e presto si sposteranno. Dice che è l’unico modo per affittare una casa.
I bambini sono festosi e contenti di vederci, hanno tutti e tre un carattere ben definito. C’è Shihab il più grande che ha già la stoffa del leader (6 anni), di quello responsabile. A pranzo mi sfida a mangiare la shatta, una salsa piccantissima a base di peperoncino, arachidi e aceto, con cui i Sudanesi accompagnano praticamente ogni piatto. Io provo a mangiarla e mi va a fuoco la bocca, mentre lui, l’unico tra i bambini, se ne riempie il piatto e mi sbeffeggia insieme con la madre. Husam invece, più piccolo di un anno, è delicato e mite, completamente diverso da Shihab. Il giorno dopo, quando li portiamo al prato sotto casa a correre con le bici, Shihab sfreccia come un pazzo facendo acrobazie, mentre Husam ancora non sa mantenersi bene in equilibrio. Zannun, il più piccolino, vive guardando solo i fratelli e tentando di emularli in tutto, piange non appena non lo includono in qualche attività. La mattina delle biciclette, Zannun segue i fratelli disperatamente con un monopattinino sbilenco. Dopo il pranzo, a base di kebsa (un piatto a base di riso e pollo e verdure) e ghima (patate condite, preparate sul momento per Alfredo da Sabah, non appena saputo che era vegetariano, maledicendomi per non averla avvertita), dico a Sabah che i suoi figli sono bellissimi ed hanno tutti e tre un carattere diverso e definito. Forse mi esprimo male in arabo, ma non appena finisco di parlare, Sabah mi guarda e mi dice: “Cosa vuoi dire?” E si mette a ridere.
Quando, poco dopo si siede con me a raccontarmi la sua storia, “quel cosa vuoi dire”, quella risata, mi rimbomberanno nella testa con un eco straziante.
Dopo pranzo Alfredo si prende in bambini nella stanza con il letto e io mi siedo con Sabah nel salottino. È un fiume in piena, parla senza freni di tutto, riporto qua integralmente le cose che mi ha detto, poi taglierò, in caso.
SABAH: Vengo dal Darfur, dal villaggio di Muhajiriyya, vicino Niyala e al-Fashir (cinque ore in macchina da al-Fashir). Vicino al campo profughi di al-Kelma, è famoso, tutti gli europei lo conoscono. Ci lavorano almeno tre organizzazioni. Noi siamo della tribù al-Burgu, una delle tribù oppresse e vittime di discriminazione razziale. Parliamo la lingua “rutana”, i bambini prima in Sudan la capivano, ora parlo con loro solo in arabo. Oppressi dalle tribù arabe del nord Darfur, gli Rizeygat, i Misiriyya, i Bani Halba . In generale le tribù del nord Darfur. A questi, i Rizeyga, Misiriyya e Beni Halba il governo ha dato le armi per sterminarci. Ci ammazzano attraverso di loro. Quando seminiamo, vengono e bruciano i campi prima del raccolto, se trovano una ragazza per strada la prendono, o vengono nelle case e prendono le donne. Anche se il padre o il fratello o il marito sono a casa, chiunque, loro prendono le donne e le stuprano o le ammazzano. E quando sono giovani, di 13, 14 anni – scusami ma parlo in modo diretto – vergini, allora le stuprano in gruppo, gruppi di 5 o 6 uomini, ragazze di 13, 14 anni. Dopo che l’hanno presa 3 o 4 volte, basta non è più interessante per loro e cercano un’altra bambina, o prendono i bambini. Bambini anche dell’età dei miei figli. I bambini non possono tornare da scuola da soli, perché c’è la possibilità che vengano rapiti.
GIUSEPPE: Che ruolo ha avuto il governo in tutto questo? domanda mia su ruolo governo in questo, la sua tribù, Borgo, i Janjawid?
SABAH: Ah, conosci i Janjawid, adesso ti spiego. Il Governo e le tribù che ti ho menzionato, ci considerano inferiori, il governo gli ha detto che devono compiere nei nostri confronti una pulizia etnica. Sterminio di massa. Il nostro sterminio avviene di continuo. Siamo famosi (le nostri tribù) per dare al mondo tanti figli, ci sterminano di continuo. Non c’è salvezza. Te ne stai a casa che dormi, arrivano e ti bruciano la casa. Per questo dico sterminio di massa. Per loro siamo spazzatura. Se uno di noi va avanti, studia, si erudisce, non appena fa domanda per un impiego, chiudono e buttano la sua domanda. Perché? Per motivi razziali. I nostri ragazzi, le nostre ragazze sono molto intelligenti, arrivano a livelli cui non arrivano i figli di quelli del governo, ciò nonostante, non ci fanno occupare posti di responsabilità.
GIUSEPPE: E tu invece cosa hai studiato, come hai studiato?
SABAH: Ho studiato all’università di al-Nilayn a Khartum, una delle prestigiose università sudanesi, di solito chi studia legge a al-Nilayn trova lavoro subito. Ho studiato lettere e legge. All’inizio quando ho cominciato legge ho affrontato molte difficoltà, tanto che ho dovuto cambiare tribù, negare di provenire dalla tribù al-Burgu, per non avere problemi con i professori. Sono andata a studiare da sola. Ero incinta di Shihab (il più grande), volevo studiare legge per imparare a far valere i miei diritti e delle altre donne oppresse come me. Le ragazze del mio villaggio hanno l’ambizione di arrivare a Khartoum, io invece, quando sono arrivata a Khartoum ho capito che era ancora troppo piccola per me, che le mie ambizioni andavano oltre. È stato difficile studiare con la gravidanza e avendo figli.
GIUSEPPE: Eri da sola o tuo marito era con te?
SABAH: Mi sono separata da mio marito e dopo sei mesi sono andata a Khartum. Shihab era nella mia pancia. Subito dopo il mio ultimo esame, ho partorito Shihab, Ero incinta, al nono mese, sono andata a fare l’esame, appena ho finito di scrivere l’ultima parola, ecco che Shihab voleva uscire. Ho consegnato il foglio e sono andata a partorire. L’anno dopo (all’università) hanno scoperto che ero della tribù Borgo e venivo dal villaggio di al-Muhajiriyya e ho avuto un po’ di difficoltà, per fortuna c’era un professore comprensivo che mi ha aiutato. Me ne sono dovuta andare, poi sono ritornata. Alla fine questo professore mi ha aiutato, ha spiegato agli altri professori che non ero della tribù al-Burgu, di nuovo ho dovuto dire di essere di un’altra tribù, ho detto di appartenere alla Khabbaniya, una tribù benvoluta dal governo, A quel punto non ho più avuto problemi, ho finito con l’università. La figlia che avevo è morta. Prima di Shihab avevo una figlia. Da noi, prima dei andare a scuola, si fa l’escissione di tutte le bambine, Io ero contraria a che mia figlia lo facesse. Ma quando sono andata a studiare a Khartum, lasciando la bambina al villaggio dai parenti, le hanno fatto subito l’escissione ed è morta per emorragia. A me mi hanno informato quando sono tornata al villaggio. sono stata male, non l’ho accettato. Ho lasciato mio marito, la famiglia e sono tornata a Khartum. È stato difficile, con Shihab piccolo, però ho finito di studiare. Quando ho finito legge (la triennale?, biennale?) ho sentito che non bastava e mi sono rimessa a studiare lettere e lingua araba, Ho finito anche quello e sono tornata al villaggio dove ho partorito questi altri due. Ma ho avuto molti problemi con il governo. Ho cominciato a fare la volontaria, attivismo, contro la pratica dell’escissione, a causa di quello che era successo a mia figlia. Sono stata anche arrestata qualche volta a causa di ciò. Insegnavo in una scuola pubblica, non appena finivo di insegnare, andavo a fare la volontaria, attivismo contro l’escissione. A causa di ciò, mi hanno interdetto dall’insegnamento nelle scuole pubbliche. Per me era vietato insegnare in qualsiasi scuola pubblica, tanto che sono finita a insegnare in una scuola scadente, privata. Prima insegnavo e avevo uno stipendio mensile, poi in qualsiasi scuola mi presentavo, non appena davo il mio nome, mi dicevano che non potevo lavorare. Insomma ho cominciato a insegnare in questa scuola privata, dove sono rimasta per 5 anni e qualche mese. Poi sono partita. Ho avuto una serie di problemi che mi hanno costretta a rischiare la vita per i miei figli. Mi sono detta: “basta, provo a avventurarmi in un destino ignoto, per mettere al sicuro i miei figli, piuttosto che rimanere qua, con tutto quello che succede, devo cercare un posto sicuro in cui i miei figli siano protetti.” Quello che sapevo dell’Europa è che i diritti della donna, i diritti del bambino sono protetti, che non c’è razzismo e sono partita per questo. Ma quando poi sono arrivata in Europa ho trovato anche qui razzismo, Qua in Europa il 40% delle persone, sinceramente te lo dico, sono razzisti, questo è quello che ho sperimentato.
[ Giuseppe chiedo del padre dei bambini, mi chiede di interrompere la registrazione. Fuori dalla registrazione mi racconta che il terzo bambino, quello più piccolo, è frutto di violenza, di stupro, effettuato da una delle tribù del nord, probabilmente mandate dal governo anche a causa del suo attivismo politico contro la pratica dell’escissione. Il marito, padre della prima figlia deceduta e dei due bambini più grandi voleva farla abortire a forza, lei si è rifiutata ed è scappata a Khartoum, aiutata anche da quel professore universitario che l’aveva sostenuta durante gli studi. Ma il marito e la famiglia l’hanno ripudiata per questo.
SABAH: Dal Darfur siamo partiti per il Chad, in Chad ci hanno trattato bene, trattano le donne sicuramente meglio che in Libia poi siamo partiti per la Libia. Il Libia tantissimi problema e sofferenza, ci hanno preso e venduto due volte. Hanno chiamato il padre dei miei bambini, [per chiedere il riscatto, come fanno sempre], un libico lo ha chiamato minacciandolo che ci avrebbe uccisi se non avesse mandato soldi. Il padre dei miei figli ha detto loro “uccideteli pure”. Ho spiegato ai trafficanti il mio problema con il padre dei miei figli e mi hanno venduto a un altro gruppo che mi ha messo a lavorare a casa di una signora come donna delle pulizie. Ho lavorato là tre mesi, poi la donna mi ha aiutato, mi ha dato dei soldi e me ne sono andata a Zuwara, dove ho preso accordi con i trafficanti per la traversata. Da lì mi sono spostata ad al-Khums, da dove, con un gruppo di sudanesi mi sono imbarcata. Anche lì, ad al-Khums, mentre aspettavamo di partire, i sudanesi che erano con me mi hanno detto “Ti diamo noi i soldi per tornare in Sudan, perché è una vergogna anche per noi che una donna sudanese viaggi da sola con bambini. Ti diamo noi i soldi perché ci fai vergognare che viaggi da sola, sporchi la fama dei sudanesi.” Li ho imbarazzati, perché non ci sono donne sudanesi che viaggiano da sole. Io ho ho detto loro “Prendete i soldi e tornateci voi in Sudan, io vado avanti. Se non avessi una sciagura dietro di me in Sudan, non mi sarei avventurata rischiando la vita dei miei figli in questo modo. Ci sono anche sudanesi uomini buoni, qua ne ho trovati, che capiscono la mia situazione, perché sanno che cosa ho dovuto affrontare. Ma la maggioranza non capisce. “Chi ha la mano nell’acqua non è come chi ha la mano nel fuoco” (Proverbio sudanese). Chi ha la mano nell’acqua, non riesce a sentire cosa prova chi ha la mano nel fuoco.
GIUSEPPE: Insomma poi siete partiti e vi abbiamo recuperato e trasbordato sull’altra nave.
SABAH: Siamo sbarcati a Pozzallo il 17/8/2017. Dopo il centro di Pozzallo (l’Hotspot), ci hanno spostato nella zona di Siracusa, in un centro gestito dalle suore. Mi hanno trattato malissimo, mi sembrava quasi di essere in Darfur, anzi peggio. Cioè, se uno rischia la vita per scappare dalle sciagure non dovrebbe essere trattato così. Veramente se io avessi saputo che l’Europa era così, forse non sarei neanche partita. Io, da rifugiata che scappa dai problemi, ritengo che dovrei avere la possibilità di scegliere il paese dove chiedere asilo, non devono obbligarmi a lasciare le impronte, non deve esserci un dispositivo come quello del diniego e del rimpatrio (verso il primo paese di ingresso o verso il paese di provenienza). A Pozzallo mi hanno obbligato con la forza a dare le impronte, mi hanno preso le mani e le dita, che ancora mi fanno male, e me l’hanno messe sullo scanner. Io tutte queste cose le ho dette alla funzionaria dell’asilo che mi ha fatto l’intervista. In Europa c’è razzismo, ho trovato il razzismo come in Sudan. L’unico posto dove non sono stata trattata con razzismo è Ventimiglia. Allora, con ordine, a Pozzallo, nel centro chiuso (l’hotspot), sono rimasta due settimane, da lì ci hanno spostato nella zona di Siracusa. Lì siamo rimasti 3 giorni, il quarto siamo partiti. Ho lasciato i figli lì dalle suore e sono andata a comprare il biglietto dell’autobus. In quel centro dalle suore ogni sera ci chiudevano a chiave in camera, era un incubo. Ho chiesto di vedere uno psicologo, hanno rifiutato; ho chiesto di fare una telefonata, hanno rifiutato; ho chiesto di vedere un avvocato a cui raccontare quello che mi era successo, hanno rifiutato. Insomma, ho trovato il modo per comprare il biglietto dell’autobus, e dopo pranzo nell’ora della siesta sono fuggita con i miei figli e ho preso l’autobus per Catania. Poi da Catania un altro autobus per Messina, poi il traghetto, poi Roma, da Roma a Torino, sempre in autobus, poi Ventimiglia. A Ventimiglia mi sono accordata con un passeur sudanese che mi ha fregato. L’ho dovuto minacciare col coltello, dopo. Mi ha preso 500 euro per arrivare in Francia, dicendo che saremmo entrati direttamente senza dover camminare. Ci ha messo su un taxi con altre 10 persone che dopo neanche mezz’ora di strada ci ha lasciato vicino al confine. Abbiamo camminato per 5 ore. Shihab lo portava in braccio un ragazzo eritreo, Husam un altro sudanese, io portavo Zannun. Insomma, montagne, strada difficile, siamo arrivati nei pressi di Nizza. Lì la polizia ci ha bloccato e riportato in Italia.
GIUSEPPE: La polizia francese ti ha rimandato indietro, nonostante fossi una donna sola con tre bambini?
SABAH: Sì, mi hanno detto “good luck”. Una volta tornati a Ventimiglia ho cercato il sudanese che ci aveva fregato. Eravamo nella zona che chiamano “il ponte”. Lì mi è venuta a cercare un operatrice legale, si chiamava Daniela, sapeva che ero lì con i bambini. Mi ha convinto ad andare al centro della croce rossa, io non mi fidavo, le ho detto che volevo andare in altro paese europeo. Lei mi ha promesso che non mi avrebbero chiusa là dentro. Mi ha dato la sua parola d’onore. Mi sono detta, meglio essere fregata da un’italiana che da un sudanese. Le ho spiegato del sudanese che mi aveva fregato i soldi e mi ha aiutato a ritrovarlo e mi sono fatta ridare i soldi. Mi hanno portato al centro della Croce Rossa. Lì hanno preso un’altra volta le impronte, ci hanno fatto lavare, hanno dato vestiti ai bambini. Il terzo giorno è venuta una di nome Teresa dicendomi che la mandava Daniela e mi ha portato a prendere un gelato con i bambini, lì mi ha detto: “Domani ti porto”. Il giorno dopo alle 10 di mattina mi ha chiamato dicendomi di prendere tutte le cose e uscire dal centro. Ci è venuta a prendere in macchina e ci ha portato in montagna. Lei parla arabo perfettamente, è stata in Tunisia e in Algeria per studiare. Siamo arrivati in una casa che appartiene a un uomo grande di età, dove tutti questi ragazzi si ritrovano. Sono un’organizzazione che aiutano le donne con bambini. Io ero pronta a ripartire subito, ma loro non volevano, perché nel tentativo di entrare in Francia mi ero fatta male alla schiena. Mi hanno detto che dovevo farmi vedere da un dottore, ho risposto che un dottore mi avrebbe visto solo nel paese in cui sarei rimasta. Siamo rimasti una settimana, ci siamo riposati, i bambini si sono rasserenati un po’ anche psicologicamente. La casa del signore anziano si trova ancora in Italia, c’è un panorama molto bello, i bambini stavano bene, uscivano a fare passeggiate nel verde. C’erano 8 persone, un ragazzo inglese ed uno francese e cinque donne, oltre al signore anziano. Il sesto giorno volevamo partire ma il signore anziano si è messo a piangere, si era affezionato ai bambini, ci ha chiesto di farci l’onore di restare due giorni in più. Siamo rimasti due giorni in più, otto in totale, gli ultimi due per l’uomo anziano. L’ottavo giorno Teresa e un’altra di nome Francesca ci hanno portato a Marsiglia, in macchina. Per passare il confine ci hanno messo dietro con sopra delle valigie leggere, si sono scusate per questo, ma così non eravamo visibili al passaggio. A Marsiglia un’altra ragazza di nome Marie della stessa organizzazione, ci ha portato a casa sua. Sono un organizzazione di sinistra, credo siano comunisti, i ragazzi che suonano e cantano per strada danno loro i soldi per aiutare noi rifugiati, le donne. Hanno persone anche ad Hannover, in Svezia, in ogni paese. Io volevo andare in Inghilterra, quello era il mio piano. Loro hanno chiamato dei loro contatti in Belgio che hanno detto che al momento entrare in Inghilterra era piuttosto difficile. C’è un sistema di barche yacht che ti porta da Calais in Inghilterra, ma hanno detto che bisognava aspettare l’estate successiva. Abbiamo fatto una sorta di riunione, una di loro mi ha detto che mi avrebbe portato in Gran Bretagna la prossima estate, ma io non potevo aspettare così tanto. Mi hanno detto allora consegnati qui in Francia e chiedi asilo, ma io ho rifiutato perché la Francia è troppo aperta.
GIUSEPPE: Che intendi (maftuha shadid)?
SABAH: In Francia è normale che la gente si baci per strada, orinano per strada. Queste cose qui per noi non vanno bene. Ho avuto paura a crescere i miei figli in un paese così. Sul treno si baciavano un ragazzo e una ragazza davanti a noi, ho coperto gli occhi ai miei figli. Ho preferito la Germania perché la società è più chiusa, più ordinata.
GIUSEPPE: E l’Italia?
SABAH: In Italia gente per bene l’ho incontrata solo a Ventimiglia. Insomma, siamo venuti in Germania, nonostante la gente ci dicesse che in Germania non ci avrebbero dato l’asilo, il permesso di soggiorno. Da Marsiglia mi hanno fatto il biglietto per Strasburgo, mi hanno dato soldi nonostante avessi detto loro che ne avevo, Hanno pianto anche a Marsiglia, quando ce ne siamo andati. La signora Marie che ci ospitava era un tesoro. Da Strasburgo siamo andati ad Hannover, lì c’era ancora gente dell’organizzazione che mi hanno aiutato, sono stata tre giorni da loro, poi mi sono consegnata e mi hanno dato un alloggio in un centro. Un centro piccolo, avevo solo una stanza con bagno. Lì mi hanno fatto le due interviste, in tutto sarà durato due settimane. La prima volta mi hanno dato un interprete uomo sudanese del nord. Ho chiesto di cambiare interprete, perché il sudanese non traduceva quello che dicevo e mi hanno dato un interprete algerino, sempre uomo. Ho raccontato loro tutto la storia. Ho anche detto a quella che mi intervistava “Lo so che non mi darete l’asilo”. Giuseppe, scusami, ma lo devo dire, l’Europa è una grande menzogna, davvero una grande menzogna. Non è come mi immaginavo. Io immaginavo di arrivare qui e liberarmi da tutte le catene e avere una vita normale, naturale. Non pensavo che anche qui gli uomini ti guardassero in strada con quello sguardo duniyawi (carnale?). Ci sono anche persone umane, solo che pensavo di più, se non fosse stato per quelle donne che mi hanno aiutato, non sarei mai arrivata. Insomma ho detto queste cose all’intervistatrice, nonostante l’interprete mi dicesse di non dirle. Gli ho detto di tradurre tutto, che l’Europa è una grande menzogna, che uno arriva qua e lo costringono a lasciare le impronte, cosa significa? Che non c’è libertà.
Quando ci avete salvato dal mare, mi sono detta che l’80% del mio piano si era avverato. Mi ricordo la vostra voce che ci diceva che ci avreste portato in Italia. Mi ricordo la gioia, ho pianto, non avevo ancora pianto, lì mi sono lasciata andare. Ho sentito che l’80% del mio sogno si era avverato, il 20% era un destino ignoto che dovevo costruire. Il 20% era l’impronta, l’intervista per l’asilo.
[Sabah si mette in bocca un pezzo di carta e se lo mette in bocca, mi spiega che quando è nervosa, mastica la carta. Mi scuso per aver richiamato questi ricordi]Vedi, prima ogni volta che parlavo di queste cose, mi mettevo a piangere, ora invece ho capito che mi fa bene, mi devo sfogare e parlarne aiuta.
La cosa che ho odiato di più dell’Europa è il dispositivo dell’impronta, del diniego (della richiesta d’asilo) e del rimpatrio (sia al proprio paese, che al paese di primo arrivo, cioè l’Italia o la Grecia)”. Quando mi hanno dato la risposta positiva e il passaporto, non ero contenta, perché pensavo a tutti quelli che ricevono il diniego e il rimpatrio, tra cui tantissimi fratelli sudanesi, ma non solo. Il giorno in cui mi hanno dato la risposta positiva, hanno dato quattro dinieghi con decisione Dublino Italia ad altri quattro sudanesi. No, non ero contenta. Nessuno lascia il proprio paese per piacere, non dovrebbero essere trattati così. Guarda io in Europa ho dormito per strada, ho avuto fame, ho avuto freddo. L’unica differenza tra l’Europa e l’Africa è l’economia, per il resto è uguale. Il razzismo c’è anche qui, se non hai soldi ti chiudono in faccia le porte. Tutte le mie idee sull’Europa sono cambiate, non mi aspettavo tutto questo razzismo, queste imposizioni, come l’impronta, solo perché sei nero. L’unica differenza con l’Africa è che almeno in Europa c’è sicurezza, Qui per esempio, nell’appartamento dove stavo prima, venivano gli uomini di notte a bussare, perché sapevano che ero una donna sola con bambini. Ho chiamato la polizia che è venuta subito e li ha portati via. L’ho fatto dopo varie volte che venivano, ho dovuto farlo per mettere un limite. La differenza con l’Africa è che qui non ci sono guerre.
Per ora la cosa più bella che ho trovato in Europa è quell’organizzazione che mi ha aiutato, vera umanità. Cioè come è possibile che uno che rischia la vita per arrivare alla salvezza, a un luogo sicuro, arriva e trova una cosa che si chiama Regolamento di Dublino? Guarda se quello che inventato questo regolamento, passasse anche solo la metà di quello che abbiamo passato noi, abolirebbe subito il Regolamento di Dublino e darebbe la nazionalità a tutti quelli che arrivano in questo modo. Quello che si è inventato l’impronta, chiunque sia, governo, gruppi di destra, sono sicura che se facesse metà della strada che abbiamo fatto noi, metà delle sofferenze, darebbero la nazionalità a tutti, la nazionalità, non il permesso di soggiorno. C’è una bella differenza tra stare seduto in ufficio al computer e quello che abbiamo passato noi. Quando mi hanno fatto l’audizione per l’asilo, l’intervistatrice era seduta scomposta sulla sedia, appoggiata e con le gambe allungate. Mi ha chiesto: “Qual è la tua storia?” Io le ho risposto che non ho una storia, ho un problema, c’è differenza tra una storia e un problema. Il secondo problema è il modo in cui sei seduta. Io non posso raccontare la mia vita ad una che è seduta in questo modo. L’interprete non voleva tradurre, dicendo che poteva essere un problema per me. Ho insistito che traducesse e dopo lei si è scusata e si è seduta più composta.
Ho cominciato a raccontare ma poi ho capito che l’interprete non andava bene, quello sudanese. Loro mi hanno detto che era un interprete giurato, ma io ho comunque insistito che lo cambiassero. Per esempio quando mi hanno chiesto come avessi fatto a capire che quelli che mi erano venuti a prendere per arrestarmi fossero milizie del governo, l’interprete non ha tradotto la mia risposta. Io ho spiegato che solo le macchine del governo hanno l’immagine del falco sui vetri, solo le macchine del governo. Oppure quando ho spiegato dei problemi che ho avuto all’università con uno dei professori, non ha voluto tradurre. L’interprete era di una di quelle tribù del nord del Sudan che sono contro di noi, gente dell’ovest. Ho chiesto di cambiare interprete, non sapevo fosse mio diritto. Insomma, abbiamo parlato a lungo, poi mi ha chiesto perché avessi scelto la Germania per chiedere asilo. Le ho detto: “La Germania è una società chiusa, non come la Francia, io ho bambini che anche vengono da una società chiusa, per questo ho scelto.” Lei mi ha detto che se fosse stato per lei, mi avrebbe dato l’asilo completo subito, ma che doveva consultarsi con la commissione. Anche il foglio che mi ha dato la dottoressa della seconda nave (Nave Aquarius, con team MSF) mi ha aiutato. Un foglio che attestava la mia situazione, che avevo subito l’escissione eccetera eccetera. La dottoressa me l’ha consegnato a mano, dicendomi di consegnarlo poi nel paese in cui avessi deciso di chiedere asilo. Ho allegato al file della richiesta d’asilo questo foglio e una serie di foto che avevo scattato nel deserto e in mare. Dopo una settimana mi è arrivata la lettera con la risposta. Non volevo aprirla. Ho aspettato tre giorni prima di aprirla, temevo ci fosse scritto che dovevo essere rimandata in Italia.
Dopo ci hanno spostato in questo centro, qui a Hildesheim. Prima eravamo a Oldenburg. Ho cambiato tre centri diversi, prima di arrivare qui. Ho chiesto io di essere spostata a Hildesheim perché sapevo che c’erano tanti sudanesi e soprattutto tanti musulmani e io vorrei che i miei figli crescano in un ambiente musulmano. Qui a Hildesheim la maggioranza della popolazione sono musulmani (?), ai tedeschi non piace perché praticamente ci sono solo stranieri.
Veramente l’unica cosa bella che ho trovato qua in Europa è quell’organizzazione femminile che ci ha aiutato. Aiutano senza chiedere niente in cambio. Ci hanno ospitato, hanno aiutato Zannun che era in brutta situazione psicologica per quello che gli era successo in Libia. In Libia lo hanno violentato. Lo hanno portato da un dottore, che gli ha fatto le analisi per controllare se aveva l’aids. Grazie a Dio non aveva nulla. Anche lì mi hanno dato un foglio che mi ha aiutato.
[momento sconforto e commozione per la notizia del piccolino violentato]
Eh, io veramente ormai odio gli uomini. No, Giuseppe non fare così [io un po’ piango]. Ormai è tutto passato. È diventato passato.
[Mi scuso per aver fatto rivivere queste cose]
I libici sono bestie. Davvero.
[altra carta in bocca]
Quando ero nel centro a Oldenburg, accanto alla mia stanza c’era un Libico. L’ho picchiato, non ho potuto trattenermi. Poi mi hanno spostato in un altro centro. Poi il libico è venuto a scusarsi con me per quello che poteva essere successo in Libia. Cioè dopo che una passa attraverso tutte queste cose, arriva qui e ti dicono che non puoi scegliere il paese dove stare? Possibile?
Finita l’intervista decidiamo di fare un giro con la macchina, andiamo verso Hannover che Sabah e i figli non hanno mai visitato, sebbene disti solo 30 minuti. Viene con noi anche Tasnim, una ragazza Irachena che abita anche lei nello stesso centro con la famiglia ed è amica di Sabah. Ci fermiamo prima nei pressi del lago, dove i bambini corrono un po’ con le biciclette, poi entriamo nel centro. Vediamo il palazzo del comune e ci facciamo una passeggiata. In centro troviamo vari palchi con gruppi musicali che suonano, in vari punti diversi del centro, c’è una sorta di festival. I bambini sono un po’ spaesati da tutta quella gente che balla. Sabah invece sembra divertita, accenna anche un balletto con Zannun in braccio. La ragazza irachena propone di cenare in un ristorante turco di sua conoscenza. Finito di mangiare, mi alzo e fingendo di andare in bagno, pago il conto. Quando Sabah lo scopre impazzisce di rabbia. Si fa dire dal cameriere siriano quanto era il conto e comincia a inseguirmi (lei con un bambino in braccio, io con un altro) in mezzo alla strada per mettermi 50 euro in tasca. Praticamente litighiamo. In macchina, tornando verso Hildesheim, c’è un clima quasi teso.
La notte dormiamo nella stanzetta col divano, la famiglia irachena amica di Sabah ci monta un lettino. Il giorno dopo al mattina viene un’amica di Sabah, è una ragazza sudanese anche lei da sola con una figlia piccolissima. Ridono quando ci raccontano che lei è arrivata in Italia minorenne, a 17 anni e la chiamavano “bambino”. Bambina, dopo tutto quello che avevo già vissuto in Sudan e Libia, dice ridendo. Era scappata subito dal centro per minori non accompagnati dove era stata accolta, per raggiungere la Germania dove l’aspettava il marito. Dopo pochi mesi aveva divorziato e ora era sola con la bambina. I figli di Sabah festeggiano la bimba piccola. Andiamo tutti a fare un giro per il centro di Hildesheim. Loro due devono fare acquisti che di pomeriggio verranno ospiti sudanesi a festeggiare un amico che sta per sposarsi. Sabah è un po’ agitata e la vediamo mangiarsi la carta. Dopo la passeggiata, Alfredo aiuta Sabah a montare delle stelle filanti e altre decorazioni per abbellire la casa per gli ospiti che arriveranno di pomeriggio. Io preparo la pasta per tutti, mentre l’amica di Sabah mi aiuta. A pranzo mangiamo tutti questi spaghetti con una specie di ragù, ai bambini piace. Sabah e l’amica la riempiono di shatta, quella salsa piccantissima.
Dopo pranzo dobbiamo ripartire, Sabah fa una scenata, non vuole che ce ne andiamo, fa l’offesa. Rimaniamo un’ora in più, conosciamo gli ospiti, ci fermiamo un po’ a chiacchierare. Sabah, in quella casa piccolissima, ha organizzato una sorta di festicciola per quest’amico sudanese che il giorno dopo si sposa. Si chiama il giorno dell’Henne, in cui lo sposo si tinge i palmi della mano. È comune in molti paesi arabi.
Quando partiamo Sabah e i bambini piangono, ci accompagnano alla macchina. Piangiamo un po’ anche noi. Una volta arrivati in Belgio, apriamo le valigie. Dentro una valigia troviamo un busta da lettere con dentro 50 euro e un bigliettino di Sabah: “ All’amico e fratello Giuseppe, all’amico e fratello Alfredo, spero possiate accettare l’invito alla cena di ieri, con amicizia, Sabah”:
Foto di copertina e foto nel testo a cura di Alfredo d’Amato.
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