“Non è di maggio questa impura aria ” Parigi: celebrazioni e spoliticizzazione del maggio ’68 e politica di strada del 2018 – Jessy Simonini

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Sono passati cinquant’anni dal maggio degli studenti e degli operai. Le parole del poeta risuonano, in questa fredda primavera: « Non è di maggio questa impura aria ».

 

Nelle ultime settimane, a Parigi, la città che fu il cuore di quel movimento, alcuni accademici, di diverse università, hanno pensato di organizzare alcuni cicli di conferenze per studiare il Sessantotto e, in particolare, l’apporto di quella temperie politico-culturale sulla letteratura e sull’arte. Alcune giornate di studio sono state organizzate all’Università di Nanterre e i partecipanti, principalmente italianisti, si sono interrogati sulle « Contro-culture all’italiana a partire dal 1968 » ; allo stesso modo, all’École Normale Supérieure, varî specialisti di diverse discipline si sono interrogati sull’eventualità che il movimento del 1968 coincidesse con una « rivoluzione del desiderio ». Ma questi non sono che due esempi di un interesse che ha attraversato, nel corso di quest’ultimo anno, le aule universitarie e, soprattutto, le preoccupazioni di molti accademici, intenzionati a considerare il Sessantotto come un mero oggetto di studio e di ricerca. Quasi un punto di partenza per scrivere e discutere di cinema, letteratura e arte e del loro rapporto con l’ideologia e, più in generale, il « politico » e le sue categorie.

 

Nello stesso periodo, varie istituzioni culturali parigine hanno costruito un ricco calendario di appuntamenti intorno alla memoria del Sessantotto e delle successive mobilitazioni. Il Museo delle Belle Arti si è focalizzato, per esempio, sulla cultura visuale dell’estrema sinistra in Francia, proprio a partire dal 1968, selezionando numerosi manufatti artistici (soprattutto manifesti e poster) realizzati dagli studenti dell’Accademia delle Belle Arti, uno dei centri della produzione artistica e culturale durante la contestazione. Una mostra a cui ne sono, poi, seguite altre, come ad esempio la grande mostra sul Sessantotto organizzata dagli Archivi Nazionali, nei suoi due siti principali (uno nel centro di Parigi e un altro nella banlieue di Pierrefitte-sur-Seine). Un evento espositivo che, a partire dalle fonti archivistiche del potere, propone una narrazione del Sessantotto e del rapporto fra le autorità e i protagonisti del movimento, ripercorrendo cronologicamente, giorno per giorno, i rivolgimenti di quei mesi convulsi, anche con numerosi supporti multimediali (in particolare con documenti dell’INA). La mostra sarà visibile fino a settembre.

 

Alla Prefettura di Polizia, invece, nel mese di maggio, è stata organizzata un’ulteriore mostra sul Sessantotto. Una mostra che, proponendosi di indagare le storie che si addensavano « dietro gli scudi » (il titolo della mostra era proprio « Derrière les boucliers ) dei poliziotti coinvolti nelle mobilitazioni, cercava di proporre una rilettura profondamente ideologica del rapporti fra il movimento studentesco e operaio e le autorità, focalizzandosi sull’umanità dei poliziotti e sul loro tentativo di rifiutare gli abusi nell’esercizio della violenza. Lo slogan « CRS=SS » intonato dai manifestanti avrebbe, tra l’altro, causato gravi turbamenti a molti poliziotti, sovente figli di resistenti o di deportati durante l’occupazione nazista. Questo, almeno, secondo la proposta narrativa dei curatori della mostra, organici ad una Prefettura desiderosa di rileggere il proprio ruolo storico, a cinquant’anni di distanza da manifestazioni segnate da violenze operate proprio dai corpi di polizia nei confronti dei manifestanti, come appurato da una vasta storiografia.

 

Se l’operazione della Prefettura aveva un obiettivo definito, ovvero quello di proporre una contro-narrazione dei fatti del Sessantotto che, anche deformando gli avvenimenti, consentisse di riconfigurare il ruolo della polizia in quel particolare contesto di tensioni e violenze, le altre mostre hanno, piuttosto, un intento documentario ed espongono tracce d’archivio che consentono di gettare uno sguardo approfondito su certi aspetti del Sessantotto, considerandolo però alla stregua di un mero fatto storico. Senza riuscire a descrivere la complessità di un movimento, nella sua componente politica e nella sua densità teorica, ma proponendo piuttosto un’operazione di memoria, che, in certi casi anche con un rigore documentario e scientifico rilevante, proponga la narrazione di un’epoca, ma in un’ottica quasi spoliticizzata e, ad ogni modo, lontana dal presente.

 

Di quel Sessantotto, almeno all’apparenza, restano soltanto alcuni ricordi obliqui, tracce sbiadite che sono esposte nei musei, come memorie d’archivio che tracciano i contorni di un avvenimento storico. In questo modo, il Sessantotto oramai è diventato una tematica o un oggetto di ricerca, svuotato forse del suo più profondo significato politico, apparentemente incapace di interrogarci e di inserirsi nella più stringente attualità.

 

Ma visitando quelle mostre, partecipando a quelle conferenze, ben presto si è materializzato un grande paradosso. Mentre quelle mostre e quelle conferenze venivano organizzate, mentre esperti e studiosi parlavano del Sessantotto, ne ricostruivano le fasi o proponevano analisi su romanzi di quel periodo, trovando magari nel primo film di Marco Bellocchio una sorta di anticipatore della contestazione, nelle strade della metropoli, a poca distanza, avevano luogo altre manifestazioni, forse molto diverse da quelle che avevano solcato quelle stesse strade cinquant’anni prima. Manifestazioni di studenti e funzionari pubblici, di ferrovieri e postini, di semplici cittadini desiderosi di esprimere, con la propria presenza in strada e con la propria voce, un rifiuto netto nei confronti delle politiche del governo e del Presidente della Repubblica. Due mondi, a dire il vero, lontanissimi, eppure accomunati, almeno idealmente, da qualcosa.

 

Eletto nel maggio del 2016 con una percentuale di oltre il 60%, Emmanuel Macron e il governo che a lui risponde si sono ben presto caratterizzati per le loro politiche chiaramente anti-popolari. Se la narrazione macronista era stata, fin dalla sua discesa in campo, durante l’estate del 2016, caratterizzata da una retorica unanimista, volta al superamento dell’obsoleto crinale fra destra e sinistra, le politiche e le prese di posizione dello stesso Macron si inseriscono a pieno titolo nella cultura di una destra liberale e securitaria (lo ha notato, molto di recente, il sociologo Eric Fassin in una tribuna su Le Monde). Con riferimenti simbolici diversi quelli del Front National e dal lepenismo storico, tuttavia « di destra » perché legata soprattutto ad una visione ben precisa dei rapporti di classe. Del resto, che il ballottaggio fra Le Pen e Macron fosse una scelta fra due diversi tipi di segregazione – una segregazione per censo, scegliendo Macron, una segregazione razziale, scegliendo Le Pen- è presto apparso evidente fin dalle prime dichiarazioni del presidente.

 

E ad un anno dalla sua elezione, molti se ne sono accorti. Sono ancora numerosi i fronti di tensione e di frattura sociale aperti da questo stesso governo. È sufficiente pensare alla profonda trasformazione prevista per la SNCF, ovvero la società ferroviaria pubblica, che sembra si stia preparando ad una prossima privatizzazione o, comunque, ad un’apertura alla concorrenza, dequalificando al contempo i diritti dei lavoratori del settore; allo stesso modo, e sempre seguendo una medesima linea di coerenza imperniata sul classismo (classismo che trasuda in molti dei discorsi politici dello stesso Macron), la riforma dell’accesso all’università precluderà a migliaia di studenti, in particolare coloro che provengono da contesti non favorevoli, la possibilità di accedere alle università pubbliche.

 

Questi non sono che alcuni, eppure significativi, esempi di un governo e di un presidente che opprimono le classi popolari e, allo stesso tempo, propongono un modello preciso di società. Una società di classe nella quale, come ha dichiarato lo stesso Macron a poche settimane dall’elezione, « c’è chi ce la fa e chi, invece, non è nulla ». Chi è « vincente » e chi, invece, viene sopraffatto dal mercato e dalla sua inesorabile legge, senza trovare nelle istituzioni uno spazio di emancipazione ma, al contrario, trova uno spazio di vera e propria segregazione. Questo avviene, tra l’altro, in un paese che, malgrado la retorica meritocratica, già si caratterizza per profonde diseguaglianze, spesso associate a dinamiche razziali, e da consistenti dinamiche di riproduzione sociale, come mostrato, tra gli altri, da Pierre Bourdieu.

 

Da un lato, quindi, mostre e giornate di studio dedicate alla rivoluzione del Sessantotto. Celebrazioni e momenti di riflessione su un movimento politico che è diventato, a tutti gli effetti, un fatto storico. Dall’altro, una « politica della strada » che ha cercato, nei mesi scorsi, di esprimere il proprio dissenso nei confronti di un governo che ha fatto gli interessi delle classi sociali più elevate, portando avanti politiche anti-popolari; e, oltre a questo, anche numerose mobilitazioni e occupazioni di università da parte di studenti che hanno scelto di opporsi alla riforma dell’università proposta dal governo, a Nantes, a Paris 8 (Saint-Denis), a Rennes, a Bordeaux, a Nanterre, nella stessa Sorbonna, addirittura, giusto il tempo di una notte, alla Normale, tempio della selezione e dell’esclusione sociale, oltre che di quella che alcuni si ostinano a considerare l’élite intellettuale del Paese.

 

Una vera e propria frattura, fra due mondi non comunicanti, due esperienze divergenti; che testimoniano, da un lato, di una evidente spoliticizzazione del racconto nazionale sul Sessantotto (che è entrato oramai a fare parte, a tutti gli effetti, di una storia ufficiale diffusa anche dalle istituzioni nazionali) e, dall’altro, mostrano l’assenza di una saldatura essenziale fra gli intellettuali, a partire dai professori universitari, e le masse mobilitate contro il governo. I primi, generalmente, all’università; i secondi, in strada.

 

Ci sono state delle eccezioni, in particolare di docenti che hanno scelto di solidarizzare con i propri studenti, soprattutto nelle università più colpite dal processo di riforma proposto dal governo, ma in generale pochi intellettuali hanno manifestato il proprio dissenso nei confronti delle scelte degli ultimi mesi. La loro partecipazione al dibattito pubblico, così come alla mobilitazione politica, è stata debole, davvero non significativa, limitata spesso ad una generica indignazione nei confronti, ad esempio, del trattamento riservato ai migranti da parte delle istituzioni( una nuova legge sul diritto d’asilo, tra l’altro, sta suscitando un dibattito profondo e lacerante anche all’interno della stessa maggioranza di governo).

 

È forse utile citare due giovani intellettuali, che si sono esposti in maniera trasparente contro il potere, lanciando su Le Monde un appello a partecipare alla manifestazione contro Macron del 22 maggio scorso, che ha visto uniti per la prima volta dopo molti anni partiti, sindacati, associazioni e collettivi; un appello a manifestare al fianco dei familiari di Adama Traoré, vittima di violenze della polizia nella banlieue di Beaumont-sur-Oise.

 

Una presa di posizione non scontata, ma, al contrario, assai rara, che si spera possa essere un punto di partenza significativo, quella di Édouard Louis, il cui romanzo d’esordio, Il caso Eddy Bellegueule è stato tradotto anche in italiano, e Geoffrey de Lagasnerie, sociologo e filosofo, due giovani intellettuali che partecipano da alcuni anni al dibattito, caratterizzandosi per le loro posizioni critiche nei confronti del potere e dei suoi apparati e, a loro volta, oggetto di critiche di varia natura.

 

Louis et de Lagasnerie non sono i soli, certamente, ad essersi espressi; tuttavia, restano una minoranza. Una minoranza di intellettuali che, uscendo forse dalle dinamiche accademiche e dalle logiche che dominano l’ambito dell’università, cercano di proporre qualcosa di diverso, in attesa di vedere se l’autunno parigino porterà poi altre mobilitazioni.

 

Manifestazioni e marce di corpi che devono tornare a contare, esprimendo la propria ostilità all’oppressore. A cinquant’anni dal 1968 la lotta continua. Non è facile e inutile retorica, ma è al contrario un’esigenza di fronte alla violenza messa in campo dal potere. Un potere sordo alle richieste di chi soffre, che porta avanti una politica di classe tesa ad escludere dalla società le vite che non contano, mostrando la propria faccia disumana, il proprio disprezzo di classe, la propria distanza dalla sofferenza profonda dei tanti.

 

Il parallelismo fra 1968 e 2018 non ha alcun senso. Che gli intellettuali ricostruiscano la propria coscienza e il proprio rapporto al politico, nella polverizzazione ideologica e culturale di questa fase storica, è però un’esigenza sostanziale, perché il Sessantotto non resti semplicemente un « oggetto di studio » di cui celebreremo fra qualche decennio un’opacissimo centenario, ma diventi al contrario uno degli strumenti possibili attraverso cui ripensare la pratica politica nella Francia- e nell’Italia- di oggi.

 

Per gentile concessione dell’autore.

 

 Jessy Simonini ha appena conseguito  la laurea in Filologia romanza all’Ecole Normale Supérieure di Parigi. Si interessa alle forme e ai protagonisti della poesia contemporanea.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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