No Time To Sleep: un’esperienza teatrale – Farah Ahamed

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Nel 2019, secondo Amnesty,  in 56 paesi del mondo sono state giustiziate un totale di almeno 2.307 persone e  sono state pronunciate 27.000 condanne a morte.  A causa della scarsa affidabilità dei dati si considera tale numero artificialmente basso. Il 60% della popolazione mondiale vive in Stati in cui vige la pena di morte.

 

No Time to Sleep, è una performance della durata di ventiquattro ore che dà prova della  grande potenza della recitazione  mettendo in scena il punto di vista di un detenuto condannato a morte.  Ho assistito a questo spettacolo due anni fa a Lahore, e ancora oggi mi sveglio spesso nel cuore della notte ripensandoci. La pièce s’incentra sulle ultime ventiquattro ore del detenuto  Z, ossia il dottor Zulfiqar Ali Khan, accusato di omicidio in Pakistan. Nell’antefatto, nonostante l’argomentazione dei suoi legali secondo cui  egli aveva agito in legittima difesa nel corso di una rapina a mano armata, il verdetto è di omicidio volontario e viene quindi condannato a morte. Zulfiqar trascorre diciassette anni in carcere e sette anni nel braccio della morte, nel corso dei quali la sua esecuzione viene programmata e interrotta più di venti volte. Verrà infine giustiziato nel 2015.

 

Messa in scena nel 2018, la pièce teatrale No Time to Sleep faceva parte del progetto Justice Pakistan in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte. Come la vita, questa produzione teatrale è priva di tagli temporali, modifiche o riprese. Come nella vita, non si fanno le prove. La pièce cattura in tempo reale ogni ora dell’agonia di Zulfiqar in isolamento il giorno prima della sua impiccagione. Il protagonista, un uomo magro dai capelli neri e la barba, ha un aspetto serio e lo sguardo gentile e intelligente. Una sua fotografia in gioventù lo ritrae come un uomo pronto a sorridere e godersi una vita felice. Tuttavia questo non è il destino che lo aspetta, per molti anni l’unica cosa colorata della sua vita non sarà che la sua sgargiante uniforme arancione di detenuto, in netto e doloroso contrasto con l’ambiente cupo della cella. Durante il suo periodo di detenzione, Zulfiqar completa due Master e un Diploma e insegna a leggere e scrivere a trecento compagni di prigionia, otto dei quali continueranno i loro Master.  Il comportamento di Zulfiqar indubbiamente denota generoso ottimismo.

 

No Time to Sleep è stata per me un’esperienza visiva straziante. È così strano che proprio di fronte alla morte ci capita di sentirci  più vivi; si diventa acutamente consapevoli di ogni minuto che passa. Sullo sfondo dell’esecuzione imminente ci sono momenti di intensa umanità, come quando Zulfiqar chiede al direttore del carcere di condividere la sua sigaretta e questo  gesto semplice e ordinario unisce i due uomini per un breve momento. In un altro episodio, dopo aver compiuto le abluzioni, Zulfiqar si mette in testa lo zucchetto del devoto islamico, srotola il tappeto da preghiera e si  inginocchia; che differenza potrebbe fare la preghiera? Tutto sembra futile.

 

Ma più che inutile, la parola che mi arriva improvvisamente in mente è senza senso. Torno col pensiero a quando avevo undici anni e vivevo in Kenya; mi rivedo in una calda e pigra domenica pomeriggio in cui mi trovo nell’appartamento di mio padre ad aspettare che finisca di redigere le memorie legali  per un caso di omicidio. Dopo che per tenermi buona mi avevano dato da leggere dei fumetti di Beezer e intimato di aspettare un’altra ora, mi sono messa a vagare per la sua biblioteca per vedere cosa potessi trovare. Scorrendo le dita tra i grandi volumi, mi sono imbattuta in un tomo sottile e dopo aver dato una rapida occhiata alla prima frase e appurato che fosse abbastanza semplice anche se spaventoso, ho deciso che si trattava di un libro che ero in grado di leggere. Più tardi quella notte finii  di leggere Lo straniero  di Camusrimanendo poi sveglia a preoccuparmi non solo di cosa mi sarebbe successo se mia madre fosse morta, ma anche di cosa significasse amare, mentire, dire la verità, uccidere, stare da sola in prigione, essere giustiziata e morire da sola. Mi sono anche resa conto per la prima volta che gli adulti fanno cose terribili.

 

Mentre guardavo No Time to Sleep, sono tornata a quella copia ormai molto consunta de Lo straniero che avevo preso in prestito dall’ufficio di mio padre e che da allora ho tenuto con me (uno dei pochi libri che mi sono portata dietro nei vari continenti in cui sono vissuta). Mentre voltavo le pagine, rinnovando la mia comprensione di Meursault, ho trovato sottolineature scarabocchiate a matita con tratti infantili sotto queste frasi:   

«Mi ero reso conto che l’essenziale era dare una possibilità al condannato. Anche uno su mille era abbastanza per sistemare le cose».

Le parole erano familiari e risonanti: l’impressione che avevano lasciato nella mia giovane mente non era stata cancellata nel tempo e sono tornata a No time to sleep piena di emozione dopo aver scoperto la genesi delle mie convinzioni sulla pena capitale.  

 

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Nella rappresentazione, il ruolo di Zulfiqar è interpretato dall’attore Sarmad Khoosat e in preparazione per il ruolo, quest’ultimo aveva intervistato ex detenuti e le loro famiglie, nonché carnefici, avvocati, burocrati del tribunale e guardie in modo da poter mettere a fuoco il loro  trauma psicologico individuale. Khoosat ritrae in modo commovente Zulfiqar che attraversa la notte più buia della sua anima, rosicchiandosi le unghie, premendo le dita e quasi inconsciamente, dando calci contro il muro. Anche il direttore del penitenziario è torturato; intona un qawwali sufi sul dolore della separazione, “maayin ne main”, nel tentativo di dimenticare la natura del suo lavoro. Mentre passano i minuti, Zulfiqar cammina avanti e indietro  per la sua cella, si sdraia sul tappeto ruvido, fissa il soffitto,  con gli occhi  che si perdono nel vuoto. La sua incapacità di dormire comunica la profondità del suo tormento. Di tanto in tanto si siede per terra a bere tè e mangiare biscotti, l’unico cibo consentito ai detenuti nel caso si ammalino, mentre dall’altra parte della porta, il guardiano si gode la sua paratha.

 

Dopo ventuno ore, tre ore prima della sua esecuzione, il direttore controlla la pressione sanguigna di Zulfiqar e gli dice: “Tutto è normale, stai abbastanza bene per l’esecuzione”. In risposta, Zulfiqar mostra il polso al guardiano. “Guardami il polso”, dice, “non vedi come batte a prescindere da tutto”.

 

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Dopo ventidue ore, Zulfiqar riceve il suo ultimo pasto che mangia senza cerimonie e poi la sua famiglia viene a salutarlo. Nonostante questa visita debba segnare il culmine della tensione, la scena si svolge sottotono; questo è il giorno che temevano da diciassette anni. Zulfiqar raccomanda al fratello di fare in modo che le sue figlie, Noor e Fiza, finiscano gli studi e non siano costrette a sposarsi. La moglie del detenuto non è presente in quanto morta di cancro anni prima, senza il marito al suo fianco. Dopo la loro partenza si avverte la pesantezza del silenzio: Zulfiqar giace prono sul tappeto, la testa sepolta tra le braccia conserte.

Allo scoccare della  ventitreesima ora, ad appena un’ora dalla fine,  si verifica improvvisamente un turbinio di attività; arrivano gli avvocati per controllare le scartoffie e il direttore prova le corde. “Sab acha hai”, dice a Zulfiqar, “va tutto bene”. Zulfiqar non risponde. Attraverso la piccola finestra attraversata da grosse sbarre entra il verso rauco di corvi che gracchiano e l’allegra scampanellata di una bicicletta – gli ultimi suoni che giungono alle orecchie di Zulfiqar riecheggiano la conclusione  de Lo straniero di Camus: “la benevola indifferenza del mondo”. Ma è davvero  così benigna?

 

Nel suo saggio “Riflessioni sulla ghigliottina”, scritto nel 1957, Camus mette in campo una argomentazione molto convincente per l’abolizione della pena di morte, “il più premeditato degli omicidi”, non per empatia verso i condannati, ma seguendo la logica della sua inefficacia come punizione. Forse tale era la logica che lo scrittore  aveva voluto illustrare ne  Lo straniero ma per la mente di una undicenne, che rimane immutata dopo più di trent’anni, la novella si fondava sulla convinzione e la ricerca dell’empatia.

 

Nelle parole di Camus, l’arte dovrebbe tradurre “le sofferenze e la felicità di tutti nella lingua di tutti”, in modo che sia “universalmente compresa”. Per me la rappresentazione teatrale  ha evocato ricordi che mi hanno spinto a riflettere su una delle mie prime esperienze letterarie, ma soprattutto ha allargato il mio cuore e mi ha ricordato di abbracciare l’altro, l’estraneo, come fossimo tutt’uno.

Per gentile concessione dell’autrice, traduzione di Pina Piccolo dall’originale inglese in The Dreaming Machine n. 8.

 

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Farah Ahamed, avvocatessa di professione  ha conseguito il Diploma in scrittura creativa presso l’Università dell’East Anglia. È nata in Kenya e attualmente vive tra Londra e Lahore. Al momento sta lavorando a una raccolta di racconti ispirati a Lahore.

Scrive racconti che sono stati pubblicati su The Massachusetts Review, Comma Press e Kwani. Le sue storie sono accomunate da un senso generale di oppressione e di ribellione ed esplorano i modi in cui cultura, religione, politica e tribalismo limitano e determinano la vita lavorativa e le relazioni. I racconti sono ambientati nel periodo storico che va dai primi giorni dell’indipendenza dei Paesi dell’ Africa orientale al presente.

I suoi scritti abbracciano molti temi: identità, autodeterminazione, conflitti etnici/religiosi/di genere, fino alle relazioni e alle dinamiche familiari e cercano di sondare che cosa significa essere umano: ciò che ci distingue e ci unisce, come esseri umani.

Recentemente è stata selezionata per il Canadian CBC Books 2019 Short Story Award. È stata co-vincitrice dell’Inaugural Gerald Kraak Award ed è stata altamente elogiata al London Short Story Prize. I suoi saggi e racconti sono stati selezionati per il Thresholds Essay Prize, lo Screen Craft Prize, il SI Leeds Literary Prize, il DNA/Out of Print Award e il The Asian Writer Short Story Prize. È stata nominata per i premi Pushcart e Caine.

 

 

 

Le foto di copertina e nel saggio provengono da articoli dei giornali di Lahore che riportano notizie della performance.

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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