Si intravede il viso tirato e rigato dalle lacrime di Mimmo Lucano dietro la zanzariera che lo separa dal “popolo in viaggio verso un sogno di umanità, verso un immaginario luogo di giustizia”, come lo definisce lui stesso nella lettera indirizzata alle migliaia di persone accorse a Riace. Pochi minuti prima si è affacciato all’altra finestra salutando con il gesto che lo rappresenta meglio e in cui sono racchiuse e compendiate tutte le parole che vorrebbe gridare ma non può, tutte le parole che il popolo vorrebbe ascoltare ma non può: il pugno chiuso.
Adesso, invece, c’è una zanzariera tra Mimmo e il suo popolo, non sbarre, e la cella in cui è stato costretto è la sua casa. La zanzariera è la perfetta rappresentazione del rapporto tra Mimmo e i suoi aguzzini, della farsa messa in opera nel tentativo di fermare lui e con lui le idee che ha innalzato a vessillo nella lotta contro l’ingiustizia, la prevaricazione, l’intolleranza. Idee semplici e per questo motivo eterne, alle quali si sono ispirati i grandi della Storia e contro le quali si sono battuti in tanti, nel corso dei secoli, senza riuscire mai a sconfiggerle del tutto. Libertà, uguaglianza, solidarietà, amore per i deboli e gli oppressi, tolleranza.
Queste sono le sue armi, da sempre. Strumenti di vita, non di morte. Strumenti d’amore, non di odio.
E’ armato di tutto punto, Mimmo Lucano. E’ un panzer d’amore per il prossimo sul quale avanza senza timori, con la consapevolezza e la forza dei Giusti.
Non arretra di un millimetro, né quando il Governo del PD taglia i fondi per i vari progetti d’accoglienza; né quando la Prefettura di Reggio comincia a bersagliarlo di ispezioni, alcune delle quali si concludono, paradossalmente, con relazioni intrise addirittura di lirismo, decantando il miracolo di Riace enclave di accoglienza e di pace in un territorio dominato dalla cultura della morte e dalla sopraffazione ‘ndranghetistica. Non arretra davanti all’avviso di garanzia della Procura di Locri. Non cede neanche di fronte alle 129 pagine dell’ordinanza del Gip di Locri, nelle quali, dietro le espressioni “il Lucano”, “Lucano Domenico”, “l’indagato”, accusato dalla Procura di reati di ogni genere, chi sa, chi lo conosce direttamente o attraverso la sua opera, deve compiere un enorme sforzo di immaginazione per scorgere il viso sorridente di Mimmo, la sua vita consacrata al bene, il suo abbigliamento dimesso, i soldi dei premi donati in beneficenza, il suo conto corrente postale da poche centinaia di euro, i suoi discorsi dritti e netti come lance puntate contro ogni forma di prepotenza e di sopraffazione, ripetuti con la stessa ostinazione in privato e in pubblico.
Non si piega, Mimmo: “Non ho niente di cui vergognarmi, niente da nascondere. Rifarei sempre le stesse cose che hanno dato un senso alla mia vita”. Lo ripete anche adesso, quando il Gip ha deciso di dare forse un contentino alla Procura, dopo aver massacrato gran parte dell’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Locri e fatta propria da quella, chiudendo Mimmo Lucano dentro il suo domicilio.
E dalla stessa parte dell’ordinanza del gip che è servita per avvalorare la necessità di arrestarlo, dalle intercettazioni ivi contenute, si ha l’opportunità di capire o di capire meglio Mimmo Lucano. I suoi discorsi sono tutti tesi a trovare una soluzione per persone che soffrono, per donne, ad esempio, che se lasciate al loro destino non avrebbero altra strada da percorrere se non quella che conduce alla negazione della loro dignità di esseri umani, a vendere il proprio corpo. Come è successo a Becki Moses, 26enne nigeriana che ha dovuto abbandonare Riace e la sua nuova vita, forse l’unica vera avuta sin là, in seguito al diniego alla richiesta di asilo politico. E’ durata poco, la nuova – vecchia vita di Becki: è finita tra le fiamme di una baracca della tendopoli di Rosarno in una fredda notte di gennaio. E’ tornata a Riace, ma solo per trovare una sepoltura degna grazie sempre a Mimmo Lucano. Sarebbe stato sbagliato, e da che punto di vista, trattenere Becki a Riace per non farcela tornare dentro una bara? Quella volta certo furono rispettate le regole, quelle fredde scritte da chi non esita a lasciare annegare esseri umani in mare pur di non intervenire, pur di raccattare qualche voto in più spargendo a piene mani odio e notizie di pericoli inventati di sana pianta. Per chi, invece, ha come unico parametro il rispetto della vita umana, le regole qualche volta possono anche andare a farsi fottere. Come per Mimmo Lucano, il quale non ha mai fatto mistero di preferire al termine legalità quello molto più pregnante e significativo di Giustizia. E per la Giustizia sostanziale è in prima linea fin da giovanissimo, prima di dare inizio all’epopea di Riace dando soccorso a una barca di Curdi approdata nel mare prospiciente il suo paese. Potremmo scomodare grandi pensatori del passato per legittimare la disobbedienza verso uno Stato ingiusto, il quale, lungi dall’operare a vantaggio degli uomini, diviene, nei fatti, loro nemico. Si spinge tanto oltre, questa corrente filosofica e politica che sviluppa e approfondisce il tema del diritto naturale, da giustificare addirittura la soppressione fisica del tiranno. Mimmo ha rotto il patto con lo Stato nel momento in cui questo è venuto meno al suo dovere di assistere i più deboli, che, grazie alla più avanzata Carta fondamentale del mondo in tema di diritti, non sono soltanto i cittadini italiani, ma ogni essere umano.
E qual è l’altra faccia della medaglia, rispetto all’accoglienza? Ci sarà qualcosa di negativo, un prezzo da pagare, per tutto questo.
E invece, come affermano alcuni funzionari della Prefettura di Reggio, tramite l’accoglienza si intravede una soluzione anche per il problema endemico di Riace, così come di tanti altri centri interni della nostra regione: lo spopolamento. Riace è viva, dicono i funzionari della Prefettura. La scuola ha riaperto, c’è l’asilo multietnico, ci sono le botteghe artigiane. Le tante abitazioni svuotate dalle varie ondate migratorie pullulano di persone, le piazze di bambini che giocano, riacesi e neri e africani e palestinesi e afghani. Tutti insieme. Dietro a un pallone, sulle giostrine, per strada, in mezzo all’odore del cibo che sa di case vive e di profumi di spezie e aromi arrivati da chissà dove. Tutti insieme, anche gli odori, mischiati l’uno all’altro.
I detrattori, i sovranisti, i puristi, parlano di invasione. Nello stesso modo, guarda caso, si esprimevano i francesi di Aigues – Mortes prima di procedere al massacro degli italiani (del Nord, quelli) che rubavano loro il lavoro, che accettavano salari più bassi e condizioni disumane distorcendo la concorrenza, che erano sporchi, bestemmiavano e a alla minima occasione tiravano fuori il coltello. Fu fermata l’invasione? No, semplicemente perché non di invasione si trattava, ma di una cosa naturale e vecchia come il mondo: l’uomo va dove può trovare condizioni di vita migliori, e non in termini assoluti. Evidentemente quelle condizioni, per i nostri connazionali, erano meglio della fame e della miseria a casa propria. Vi ricorda qualcosa? Era l’estate del 1893, e in quello che è passato alla Storia come “Il massacro di Aigues – Mortes” (acque morte in occitano), tra le saline dove lavoravano e il paese fortificato, furono barbaramente uccisi, mediante lapidazione, a botte, infilzati dai forconi, una decina di piemontesi, lombardi e toscani.
Ora, invece, è l’autunno – quasi – estate del 2018, siamo a Riace, ed è il 6 di ottobre.
Le persone sciamano per le vie del Paese, sotto la pioggia. Alcuni vanno via, altri arrivano. Cinquemila persone che hanno scelto di restare umane, come ha urlato più e più volte Vittorio Arrigoni prima di essere ucciso. Cinquemila più uno, rimasto a guardare da dietro la finestra di casa dove l’ha cacciato la legalità brandita in danno della Giustizia. Cinquemila più uno, e tra essi migliaia di calabresi pelandroni, fancazzisti, ‘ndranghetisti, un giorno sì e l’altro pure secondo la vulgata corrente, trascinati ai piedi delle Serre dalla forza dell’amore che sprigiona da quel piccolo grande Uomo che saluta dietro una zanzariera. Migliaia di calabresi oggi orgogliosi, a testa alta, col loro tasso di dignità portato alle stelle dalla consapevolezza che questo miracolo l’ha costruito uno di loro. E non lontano, come succede spesso, ma proprio qui, in mezzo alla loro terra, ai loro alberi, sotto al loro cielo che manda pioggia a catinelle, adesso, ma cosa vuoi che importi se ora siamo noi, i terroni, i fancazzisti, a dimostrare che si può fare, che è possibile persino qui, persino nel momento in cui il potentissimo Ministro dell’Interno utilizza come megafono un mafioso per tentare inutilmente di sporcare “il numero zero” Mimmo Lucano, Riace, i calabresi.
Un arcobaleno si fa strada tra le nuvole. E’ il più bello di sempre, il più colorato di sempre. 7 per 7 per 7 sono i colori che lo compongono. Si affaccia sulle strade di Riace, un estremo sul mare, l’altro su una casetta in alto dove sta chiuso un uomo che non è solo e non lo sarà mai. Ballano i ragazzi di Riace, tarantella e ritmi africani, insieme. Ballano i ragazzi di Riace.
La loro pelle color dell’ebano brilla al sole che è tornato a splendere.
Nino Mallamaci
Nino Mallamaci è nato a Motta San Giovanni (RC) il 19 gennaio 1962. Ha una figlia, Emilia. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, Nonsolamore nel 1995, Raggio di Luna nel 2004, Ci sono solchi nel 2017. Ha pubblicato, inoltre, nel 2016 Breviarium – Racconti e frammenti d’amore di politica di vita, nel 2017, per Sabbiarossa edizioni, Sono un ragazzo di paese. Nel 2015 ha collaborato, con un capitolo dal titolo La Rete, rischi e opportunità, al libro Internetmania di Nando Minnella.
foto in evidenza di Enzo Infantino, foto di Mallamaci a cura dell’autore.