Nesrin in attesa, rifugiati siriani nei campi palestinesi di Sabra e Chatila (Beirut)

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Nesrin in attesa

L’intervista è stata realizzata il 30 gennaio 2014

Nei territori più poveri del Libano, tra i quali i campi palestinesi di Sabra e Chatila a Beirut, abita un numero sempre più alto di rifugiati siriani. Attualmente, secondo i dati di Amnesty International, il Libano sta accogliendo 1,1 milioni di rifugiati censiti, e cioè un quinto della popolazione del Paese. La mancanza di risorse, cliniche e scuole, però prima di tutto di alloggi e nuove infrastrutture, rappresentano i principali problemi che affliggono la popolazione palestinese come pure quella dei nuovi arrivati alla ricerca di asilo. La maggior parte delle case costruite a Sabra e Chatila sono illegali e come conseguenza del sovraffollamento, gli abitanti sono costretti a costruire e modificare le abitazioni per conto proprio, ad aggiungere piani, a ingrandirle e ricavare spazio dalla via pubblica e financo allacciarsi autonomamente alla rete di acqua e luce della strada. Gli affitti in questi quartieri arrivano a toccare i 400-500$ a Sabra e pure i 500$ per una sola stanza a Chatila.

JaimeMasip (_JGM5455)In una di queste case in affitto abita Nesrin con i suoi cinque figli – quattro bambine Sidra, Sanaa, Lina e Hind -, e il piccolo Abdel Moeen di un anno e mezzo. “Mio marito non aveva fratelli e quindi ci teneva molto ad avere un figlio maschio. Abbiamo provato ad averlo fino alla nascita di Abdel”. Due dei figli sono nati in Libano, nonostante l’alto costo dei servizi medici. Ogni visita privata implica una spesa di 30-40$ senza molte possibilità di ottenere aiuti, neanche dalle Nazioni Unite. Al di fuori della cerchia di cliniche amministrate da ONG, abitualmente sature, il costo per partorire può raggiungere i 670$, motivo per cui molte famiglie di rifugiati preferiscono arrischiarsi a passare di nuovo la frontiera con la Siria, piuttosto che optare per un ospedale libanese. La famiglia di Nesrin costituisce l’altra faccia della crisi dei rifugiati in Europa. Sono molte le famiglie alloggiate nei campi in Libano, Giordania, Turchia che restano in attesa di notizie dei familiari – mariti, fratelli, padri – che hanno intrapreso il cammino verso l’Europa per chiedere l’asilo e in seguito ricongiungersi con le proprie famiglie in un luogo sicuro. A motivarli a partire verso l’Europa spesso possono essere dicerie o storie raccontate dai vicini e riguardanti quelli che sono riusciti ad attraversare il Mediterraneo, benchè la cosa più comune sia che si tratti di storie di seconda, o anche terza, mano. Muhammad, marito di Nesrin, ha preso la decisione di andarsene due mesi prima di salire su di un volo per l’Algeria, l’unico tratto della traversata che avrebbe fatto legalmente.

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Da un mese e mezzo Nesrin non ha notizie del marito. L’ultima cosa che sa di lui è che aveva trascorso tre giorni senza mangiare e che aveva da poco conosciuto qualcuno disposto ad aiutarlo a trovare un trasporto. “Si trovava in Libia, aspettando una barca per poi provare ad arrivare in Germania o Svezia”. Muhammad le ha lasciato i soldi necessari a pagare l’affitto fino a gennaio, 360$ per le due stanze, la cucina e il bagno che compongono la casa. Come in tutte le abitazioni del quartiere, la luce e l’acqua scarseggiano, ritrovandosi in situazioni di molto inferiori a quello che, date le cifre dell’affitto che i rifugiati devono pagare, ci si aspetterebbe. “E da gennaio in avanti, che farai?” Per evitare lo sgombero dovrà forse vendere i mobili o chiedere del denaro ad altri familiari che vivono a Sabra. “Se a febbraio mio marito non dovesse essere arrivato in Europa, dovrò tornare in Siria”.

La sua casa a Idlib è ridotta in macerie, effetto dei bombardamenti. Suo zio ha girato un video dell’edificio in cui tutto è stato saccheggiato meno alcune foto di famiglia che è stato possibile salvare. “Per molti, questa guerra è un’opportunità per rubare”, dice Nesrin mentre mostra la registrazione.

Damasco si trova in pessime condizioni ma lei non ha altra scelta che tornare, nonostante la sua famiglia, che risiede lì, abbia chiuso le porte di casa a lei e ai suoi figli. “Mio padre non vuole prendersi questa responsabilità: nessuno vuole farsi carico dei bambini. Ospiterebbe me, ma senza di loro”. Se ritorna in Siria, Nesrin non potrà contare sull’aiuto di nessuno. “Preferirei andarmene in Giordania e vivere in un campo con la famiglia di mio marito, come il resto dei rifugiati siriani”.

JaimeMasip (_JGM5508)Il matrimonio è segnato dalla separazione di due anni fa. Prima dell’inizio della guerra, Muhammad lavorava nel Libano meridionale come macellaio e panettiere. Dal momento in cui cominciò la guerra, Nesrin e i bambini lasciarono Idlib, la sua città di origine e giunsero a Beirut via Damasco, contando sulla stabilità che Muhammad aveva già raggiunto nel Paese. Tuttavia, successivamente, con l’arrivo massivo dei rifugiati siriani, la popolazione nelle zone palestinesi si è duplicata, aggravando le condizioni delle aree conosciute come poverty pockets. I permessi di lavoro sono, assieme alla casa, il principale problema che deve affrontare chi sta cercando asilo. Bisogna rinnovare questo documento ogni tre mesi e presuppone un costo di circa 200$ per persona. La spesa che comporta il mantenimento dello status legale in Libano, combinato con le scarse opportunità di lavoro, collocano i rifugiati in un costante stato di pericolo di deportazioni in Siria. Nesrin non dispone del permesso di soggiorno per lavoro, di conseguenza può optare soltanto per un lavoro all’interno dei quartieri di Sabra e Chatila in cui non si effettuano controlli ai rifugiati. “Qui è molto difficile trovare un lavoro partime che mi permetta di occuparmi dei bambini, ma è l’unica alternativa che ho. Inoltre, per questioni di sicurezza e per i bambini, mi piacerebbe restare nelle vicinanze di casa”.

Sorprendentemente, gli unici a godere di una pur fragile stabilità sono i figli di Nesrin. Le quattro bambine vanno a scuola e all’asilo delle Nazioni Unite. “Mia sorella deve studiare inglese, dopo le vacanze ha un esame e molti compiti”, dice Sidra, la figlia maggiore, mentre cammina per la casa scattando foto e registrando l’intervista con una camera giocattolo.

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Ciò che mi preoccupa maggiormente è la sicurezza dei miei bambini. Quando mio marito se n’è andato, due di loro si sono ammalati. Non voglio restare da sola, non so se sarò capace di raggiungere la Germania”, dice Nesrin mentre i figli posano alla finestra, l’unico punto luminoso della casa.

Appendice. Il marito di Nesrin è riuscito ad arrivare in Europa e adesso lei si trova in Siria, dove sta preparando i documenti utili a intraprendere il viaggio.

Traduzione di Lucia Cupertino

Foto in evidenza e nell’articolo © Jaime G. Masip

 

Weselina_Gacinska

Weselina Gacińska

professoressa di lingue e letteratura, dottoranda presso l’Universidad Autónoma di Madrid, ha studiato antropologia presso l’ Universidad Complutense di Madrid.

Jaime González Masip

Jaime G. Masip

fotografo sociale e professore associato presso l’Universidad Complutense di Madrid, ricercatore nell’ambito della responsabilità sociale e ambientale.

 

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

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