Negro* a Milano – Il Neorealismo miracoloso ma non troppo 
 (Reginaldo Cerolini)

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“Ai popoli per sempre e da sempre in transito,
perché il mondo come il cielo è di tutti gli esseri viventi e a Mino Argentieri
che mi ha insegnato a vedere nei film la forza della fantasia e della vita.”
Reginaldo Cerolini

“ Vivere, è sentire”
J. G. Cabanis

 

Premessa

Analizziamo qui il film Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica.

L’osannato film di De Sica, dal sapore favoloso e di grande respiro, ha attratto la mia attenzione per una curiosa incidenza. Si tratta infatti di uno dei primi film[1] del dopo guerra italiano ad avere tra i personaggi un negro. Più specificatamente tratta la tensione amorosa tra un negro americano ed una bianca italiana.

La scena che li riguarda si articola in tre momenti chiave. L’arrivo del negro americano[2] e della bianca italiana a Brambi nel momento di assegnamento delle baracche; la scena della festa in cui il loro reciproco interesse è evidente; la scena finale del film in cui ad ognuno è data la possibilità di esprimere un desiderio e il negro e la bianca scelgono il colore ‘oppostò di pelle.

La sequenza in cui si inserisce questo tema e presentazione – praticamente dimenticato dalla critica- ha un valore storico, simbolico molto più significativo di quanto non possa apparire a prima vista.

Nel clima di nuovo interesse per una dialettica interpretativa, necessariamente continua, del neorealismo e della sua influenza internazionale come discorso di cultura, insieme al nuovo focus per le culture in transito e l’assestamento multiculturale delle nazioni, è bene non sottovalutare un film tanto importante, e la sua menzione esplicita alla ‘questione razziale’ (oggi per ‘legislativa buona creanza’ diciamo etnica, per smussare le punte della questione) che ha già fatto, fa e farà storia.

Siamo nella piena ondata del neorealismo, anni di una cinematografia impegnata su tematiche sociali ed ormai affermata come un netto distacco, sia dai film del precedente regime fascista che dall’influenza hollywoodiana[3]. Questa attenzione per il popolo che esprime il dolore, la disperazione, la resistenza quotidiana e un senso di umanità che fa eco proprio con la guerra appena finita, permette fra i molteplici spunti una nuova riflessione anche sulla figura del negro.

Il periodo precedente alla Seconda Guerra mondiale era infatti stato caratterizzato da un’attenzione di tipo storico-demo-antropologico (dunque con aspirazioni scientifico-umaniste), e poi da un interesse propagandistico e nazionalista, così come aveva voluto il Fascismo [4], alla questione razziale e in particolar modo come esempio di contrapposizione ai popoli africani e afro-americani. Questa nuova attenzione verso la figura del negro avviene in un clima europeo piuttosto unito nel vivificare la specificità e o peculiarità dei negri, in modo molto diverso dagli stereotipi a cui Hollywood aveva abituato il cinema internazionale. Per la verità i negri americani avevano già iniziato, da se stessi, un’autorappresentazione già a partire dagli anni ‘20, focalizzando subito l’interesse sul quadro delle evidenti e schiaccianti differenze sociali presenti in America. Un nome che fa ormai parte della cinematografia mondiale è quello del pioniere – assoluto- Oscar Micheaux. Per via dei tempi e qualcuno dice – spesso- per mancanza di qualità, questa autorappresentazione negra venne per lo più ignorata ed ebbe scarsa circolazione negli USA come in Europa. Il solo fatto che la maggior parte di questi film siano, attualmente, considerati persi testimonia la loro non prolifica distribuzione e la poca attenzione al loro valore [5]. Ora può anche darsi che visti i mezzi e la recente nascita dei cinematografo, la maggior parte di questi film non fossero dei capolavori di tecnica o di sceneggiatura, nè si prefiggessero questo scopo. Parlare di sè con consapevolezza della propria situazione e denunciare atteggiamenti chiaramente razzisti e denigratori in una situazione generale di vera indigenza economica e sociale che caratterizzava soprattutto i negri (in Africa, come in America e in Brasile), potevano essere motivi sufficienti per autoprodursi e rappresentarsi senza eccesso di affettazione artistica[6]: non sentita, non voluta, non ancora necessaria[7]. Vi era poi un senso di autoironia, tipicamente afro-americana, oltre ad una volontà di imitare i film dei bianchi e le varie atmosfere in essi mostrate, che ha reso nel breve tempo di questi albori, sia film divertenti e gustosi (in modo complesso) che film propriamente scadenti.

Tutto questo per dire che la rappresentazione del negro ha da confrontarsi storicamente anche con un’esistente visione emica. Se questa in letteratura sembra aver già trovato i suoi notevoli campi di espressione e di scontro, ma comunque di affermazione dialogica, nella critica italiana sembra ancora saltuario ed esiguo quando, non piuttosto mancante[8].

Le tre sequenze

Il film di De Sica mostra nella prima sequenza che la tensione amorosa è subito intesa e accolta con simpatia dal sensibile Totò.

Nella seconda sequenza, scena della festa, si arriva alla dichiarazione della premessa, con i due soggetti che sorridendosi, ma divisi da una barriera umana, si intimidiscono ed esitano; forse sopraffatti dalle difficoltà del proprio sentimento[9], o forse per un più universale senso di pudore. In questa scena è un anziano barbone ad incitare il giovane negro[10] a tentare di esternare il proprio desiderio e sentimento, ma questi invece, toccandosi la faccia, con un piacevole accento americano dice “negro”. Sottintende l’impossibilità di tale aspirazione. Il gesto filmico è una sintesi di sceneggiatura e soluzione registica essenziale quanto impagabile.

Nella terza sequenza della vicenda[11], che dovrebbe essere la risoluzione di questa micro storia (mi riferisco alle regole ed al linguaggio narrativo della sceneggiatura), per via di un fato simmetrico e negativo, il negro si trova bianco, e la bianca si trova negra. Ora, se da un punto di vista stilistico ciò è meraviglioso, in quanto tocca i vertici del dramma[12], è vero che pone questioni da sviscerare:

Perchè l’uomo negro e la donna bianca in un film neorealista del 1951 non possono amarsi ?[13]

Rispondere a questa domanda non è semplice. Da una parte ci sono ragioni storiche che lo chiarificano, quali la fine ancora vicina della Guerra e del suo contesto denigratorio verso il diverso- in genere – insieme ad ebrei, zingari, disabili, dissidenti politici e propriamente il negro, dall’altra anche precedenti storici del nascente neorealismo sono ovviamente da tenere in conto.

Come fa notare acutamente Quaglietti[14], lo stesso De Sica nel suo Sciuscià (1946) aveva già descritto la questione razziale, e in quell’opera suo sceneggiatore era stato sempre il perturbante Zavattini. Si tratta per la verità di una semplice menzione ad un rapporto tra il lustrascarpe e un militare[15].

In generale con la fine della Guerra, non erano poche le incursioni italiane nella problematica razziale, e sempre nel 1946, proprio Rossellini avrebbe dedicato un capitolo internazionalmente eloquente di come il cinema neorealista italiano la pensasse sulla questione razziale: un imprinting[16] davvero singolare. Si tratta ovviamente di Paisà.

Quaglietti cita anche Vivere in pace (1947) di Zampa, ma il più polemizzato è proprio Senza Pietà (1948) di Lattuada. In questi ultimi tre film la figura del negro e il dare vita a personaggi negri (in quanto tali) è determinante[17].

Perchè in Italia non si poteva usare un attore negro per quel ruolo, visto le esperienze ancora calde del neoralismo ed attori impegnati come l’italianizzato John Kitzmiller? Difficile allora non scoppiare in un riso storico e riequilibratore, nel momento in cui un Gassman-Otello dipinto di nero, per fortuna non a mò di parodia Jim Crow, consolato ambiguamente da Iago-Randone lascia una vistosa macchia nera proprio sul suo naso, macchia che accompagnerà la scena per oltre un minuto.

È vero che anche qui si tratta di una visione un po’ topicizzata, per cui il negro si riduce ad essere un soldato americano[18] (quasi non esistessero per l’ideale del neorealismo altre forme di negritudine, per dirla con Senghor), ma sono lezioni di cinema e atteggiamenti, verso la figura del diverso, significativi. Queste lezioni, fatte da una cinematografia impegnata, hanno molto da dire sulla peculiarità della riflessione europea[19] sulla razza, il pregiudizio e in particolare sulla posizione italiana. Ovviamente parliamo di un punto di vista artistico e ideologico che vede il neorealismo come intelligente e (talvolta) smaliziato capostipite.

Tutti questi precedenti si inseriscono in un contesto italiano, certamente molto internazionale e questo sarebbe da approfondire. Noi però rimanendo nei confini italiani dobbiamo notare che la fantasia creativa del film è certamente debitrice del continuum storico-nazionale e pertanto in questa chiave emica possiamo inserirlo. Ciò favorisce la nostra comprensione dei suoi linguaggi, segni e significati[20].

La problematica razziale

“I’m a Negro. I can’t forget it, and I can’t deny it”[21] (Sono una Negra. Non posso dimenticarlo, nè negarlo)

Dunque il negro e la bianca non si possono amare per una questione razziale. Ci sono diversi modi di interpretare il fatto filmico nel suo legame con la sceneggiatura (nelle sue varie versioni), il soggetto e il testo di Zavattini Toto il buono (1943, Bompiani)[22].

Ho notato che nel trattare Miracolo a Milano, il neorealismo di De Sica e Zavattini, si è spesso portati a considerare il binomio dei due in qualità di regista e cosceneggiatore il primo e soggettista e sceneggiatore il secondo, senza tuttavia far menzione alla coralità di cui si compone la realizzazione della sceneggiatura. Non capita sovente infatti di menzionare la collaborazione degli accreditati Suso Cecco d’Amico[23], Mario Chiari e Adolfo Franci; il ché risulta dubbio, se si tiene conto che essi collaborarono anche ad altri film di De Sica e con Zavattini (tra cui Suscià e Ladri di biciclette) oltre, che con altri registi del neorealismo.

Che apporto diedero essi alla sceneggiatura, quale traccia o impatto è possibile rilevare nel loro ruolo di collaboratori nella trasposizione filmica? Tutto questo, senza voler sminuire il ruolo dominante di Zavattini e De Sica nel timonaggio della sceneggiatura e nella direzione del film, che ovviamente dipende dal libro Totò il buono, aiuterebbe ad arginare certi voli pindarici a cui la nostra riflessione sarebbe naturalmente portata.

Per quanto concerne questa sceneggiatura, un primo rilevante dato è la mancanza, nel libro Totò il buono, del riferimento alla vicenda dei due personaggi del film. Si tratta dunque di una invenzione originaria della sceneggiatura.

Nei libri, un prototipo di analogo episodio è però presente in una forma completamente diversa ma ancora riconoscibile. Siamo nel capitolo VI, momento in cui tutti gli abitanti della baraccopoli chiedono a Totò i propri miracoli. I bambini hanno appena chiesto –pericolosamente ci avverte il narratore- che il mondo diventasse mangiabile, quando è il turno degli acerrimi nemici Ceroboamo e Stoc (una sorta di Caino e Abele del piccolo mondo di Brambi):

  • Ceroboamo gli chiese in un orecchio di fare morire Stoc; Stoc aveva chiesto la stessa cosa per Ceroboamo. Erano Ceroboamo e Stoc nemici, litigavano ogni giorno, pareva che non avessero di meglio da fare, perchè l’uno sosteneva di essere più forte dell’altro. Totò gli consigliò di lottare di fronte a tutti, così si sarebbe visto finalmente la conclusione dell’antica polemica. Non ci fu verso: entrambi rifiutarono e dopo furono visti allontanarsi a braccetto parlando molto male di Totò[24].

Mi sembra abbastanza evidente che la scena sia stata ripresa con il classico meccanismo all’inverso di Zavattini (sempre presenti nei suoi scritti).

Nel film l’odio di due nemici, di due uomini, diventa l’amore di una donna bianca ed un uomo negro. Il termine di mezzo è sempre Totò e l’ambiente di legittimazione è quello sociale della baraccopoli.

Se ci pensiamo bene, la donna e l’uomo nella gaia baraccopoli non hanno in effetti nulla di meglio da fare che amarsi o più semplicemente sentirsi attratti. Più profondamente possiamo dire che se ognuno della baraccopoli è impegnato in un atto estroso di evasione e contrapposizione al modello della vicina Milano (di cui però hanno anche i vizi, le debolezze e le virtù), l’atto di evasione del negro e della donna è un semplice e genuino riconoscere la propria attrazione.

Nel libro, Totò, che in quella sede è un personaggio più attivo e complesso, si accorge come abbiamo visto che questi bisbigliando chiedono la stessa cosa. Egli sceglie di intervenire per scongiurare ciò che l’uno all’insaputa dell’altro ha chiesto, invitandoli a confrontarsi in una lotta, che possa scegliere un vincitore o più semplicemente risolvere il nodo del loro odio. I due rifiutano, ma con un gioco o principio del terzo escluso (rovesciato dunque, incluso; la sagacia di Zavattini è una macchina perfetta) si ritrovano uniti – a braccetto- inaugurando l’odio verso Totò[25].

Nel film invece, un Totò meno attivo e più boccastupito, acconsente senza esitazione e con espressione trasognante o un po’ inebetita alla proposta di mutare vicendevolmente le pelli dei due. Solo che nella pellicola non vi è una risoluzione della loro tensione, essa rimane come un gioco amaro. I due non guardano affatto Totò delusi ma guardano invece se stessi in questo modo. Questa sospensione è complessa ed avrà il suo esito.

Quaglietti cerca di capire la posizione di De Sica verso la questione razziale e non vede di buon occhio la posizione del regista che cancella o non gira la scena prevista nella sceneggiatura di ‘un tenero abbraccio tra i due’[26]. Abbraccio che secondo il nostro rapporto col libro avrebbe sciolto la tensione e prevedibilmente concluso la vicenda.

D’altra parte, prosegue Quaglietti, la vicenda del film si muove in una realtà favolosa che prevede appunto dalla piazza del Duomo di Milano la fuga, l’esodo e la partenza della popolazione homeless in un cielo laico. Insomma un cielo zavattiano dei più fantastici e spassosi[27]. Purtroppo però io non mi accontento di questa chiave di lettura; non posso vedere nella risposta del critico Quaglietti la mia mente quietata dall’evidenza e dalla corrispondenza dei fatti.

Prima di tutto da un punto di vista della regia narrativa (non posso riferirmi alla sceneggiatura che non ho ancora potuto vedere), non è vero che tutti i barboni salgano in cielo. Quando infatti vengono deportati nelle celle dalla polizia, molti fra di loro scappano, come è l’esempio di Livia che ha persino il tempo di riportare, per l’ennesima volta, la colomba dei desideri a Totò[28] . Questo per dire come non tutti presumibilmente siano nelle celle. Poi le celle in prossimità di Piazza Duomo si aprono magicamente. I barboni del rastrellamento, incitati da Totò, prendono le scope e assurgono al cielo, in un’immagine epocale: bella.

Siamo al minuto 88,50 quando, possiamo notare che anche la bianca divenuta negra e il negro divenuto bianco sono di nuovo presenti nella scena.

Essi sono nella baraonda di movimenti, in piazza Duomo: si tratta di non più di due secondi frammezzati. Li scorgiamo in secondo piano, ma l’occhio non riesce a cogliere subito la loro presenza[29].

L’uomo e la donna lottano contro uno degli spazzini per assicurarsi di avere la loro scopa e poter, così, volare alti nel cielo. La donna è di spalle e l’uomo di profilo. È l’ultima volta che li vedremo e sono insieme. È infatti impossibile scorgerli in altri frammenti, ma poichè il tono del film sembra aver garantito a tutti i presenti in piazza il volo (lo dimostra la scena di spazzini e poliziotti in terra a guardare strabiliati il loro esodo) è presumibile che anch’essi ne facciano parte.

Negro in fabula

Ritorniamo, dunque, alla questione di Quaglietti su come De Sica si rapportasse filmicamente alla problematica nera[30]. Teniamo in considerazione lo scarto temporale e teniamo presente che, allora, non fosse affatto una questione; se mai un’incidenza ed anche piuttosto marginale rispetto alle problematiche dell’America, dalle novità etniche che le truppe alleate avevano portato nella recente realtà della Guerra. Non si può poi tacere quella sorta di amnesia neorealista e del cinema italiano in genere verso la rappresentazione dei negri di provenienza dalle colonie italiane.[31]

In Miracolo a Milano è evidente un debito narrativo – o quantomeno un’ambiguità registica – dal momento che i due personaggi non vengono più presentati ne posti in modo chiaro e diretto davanti agli occhi del pubblico[32].

Si tratta certamente di un problema stilistico[33], che a noi interessa perché coincide con una questione storica del Dopoguerra: le truppe alleate e la vistosa presenza di soldati negri.

È chiaro che nell’adattamento della vicenda di Totò il buono la presenza o tematizzazione del negro di cui parliamo, e del suo sentimento per la bianca, devono aver risposto ad una esigenza di attualità. Di tremenda attualità. Se infatti fra i numerosi esempi ed episodi che vengono riadattati dal libro se ne escludono molti, qui addirittura se ne aggiunge uno trasformando l’odio in un possibile amore. Come se la realtà, troppa realtà, bussasse alla porta con la sua tragicità.

A questo punto il negro dall’accento americano, e non inglese, ritorna come un elemento irrisolto. Egli è probabilmente un soldato americano che è finito a vivere in una baraccopoli.

È un immaginario curioso, piuttosto insolito per quei tempi (o se non altro nuovo), che contrasta con le condizioni economiche dei militari decisi a rimanere in Italia e che aiutarono la ricostruzione; in molti casi questi si sistemarono perfettamente tra Roma, Napoli e Genova[34]. Ma se lo inseriamo più semplicemente nella categoria degli irregolari, cara alla fauna popolare del film e del libro, egli trova la sua posizione con essi in qualità di disadattato. Insomma ad ognuno la sua croce: per il negro è la sua pelle.

L’amore è un semplice contesto (quasi stucchevole a confronto con la problematica esistenziale), che permette al negro la cognizione di non potersi riconoscere nell’altro da sè, che desidera e che potrebbe naturalmente amare.

Ancora una volta diviso tra tempo storico e contingenza della favola neorealista, egli prende coscienza di non essere tra simili[35]. Oppure noi, come fruitori un po’ direzionati dall’atto registico, dobbiamo credere alla suggestione narrativa, che davanti alle problematiche reali dei soggetti della baraccopoli il vero problema del negro non è l’inserimento in un Italia un po’ più estesa di Brambi, dell’ Europa e del mondo occidentale, ma bensì è l’amore?! Difficile sostenerlo.

L’idea del soldato negro caduto in disgrazia –certo in una disgrazia in cui erano anche tutti i derelitti della società italiana, molto cara al neorealismo– tanto da dover andare ad abitare in una baraccopoli, stride[36]. Sembra riecheggiare gli spettri dell’occupazione degli alleati (comunque un’invasione), per le conseguenze nazionali del Fascismo: Leggi Razziali, Propaganda, Campagna Coloniale, Guerra.

Il film di De Sica in ogni modo, in maniera indiretta all’occhio, volge verso lo scarto amoroso, e vuole nella parabola conclusiva della bianca e del negro, un esito –comunque- consolatorio e aprioristicamente positivo. In ogni modo una consolazione indocile che, passa appunto attraverso il dramma.

Dal punto di vista di sceneggiatura e regia, è indicativo che la donna e l’uomo – nella scena conclusiva- appaiano vicini. È la prima volta che si trovano l’uno di fianco all’altra e insieme lottano per un comune obiettivo. Il loro scontro assume un valore realista.

Essi sono infatti l’elemento distonante della fiaba e in questa qualità, sono, il punto di sutura tra la spinta registica di De Sica e la spinta parodistico-fantastica di Zavattini e collaboratori: se proprio vogliamo vedere una dicotomia. È come se ci fosse una sorta di sintesi di elementi e spinte contrarie, la realtà della guerra, la volontà di narrare con corrosività ilare la miseria, la realtà ormai conosciuta del colonialismo ed un’omissione storica del rapporto dell’italia con le colonie. Si tratta quindi di un punto d’arrivo o di partenza particolarmente indicativo, che mostra tutte le difficoltà rappresentative del film, il cui tono ha un registro incerto.

Per quanto riguarda la tensione di questo amore interrazziale, a rigore, il neorealismo (De Sica) li terrebbe a terra con i piedi ben puntati sulla dialettica dolorosa della vicenda, puntando la telecamera sulla dis-sintonia del loro scoprirsi nei volti, nella pelle e nelle espressioni diversi e distanti proprio, a causa della simmetria degli opposti concessa –tragicamente- dalla colomba magica.

Lo stesso neorealismo non farebbe che fotografare la loro realtà, senza indulgere in sconti emotivi o risoluzioni salvifiche, se mai accentuando la tragicità della loro condizione. Infatti il neorealismo in tutti gli anni Quaranta ci aveva già abituato alla predilezione per volti , espressioni, segni, architetture, paesaggi ed emozioni in qualità di correlativo oggettivo di un momento storico della condizione umana.

Diversamente la fantasia del paradosso, in tono favolistico (Zavattini), esaspererebbe certi contorni della realtà per mostrarli e denigrarli con l’intelligenza di una risata, con la forza del ridicolo. Ma invece di risolversi in una catarsi salvifica, li avrebbe trasfigurati secondo le regole magico-fantastico di un mondo del possibile ma, non dato[37].

La maschera nera della donna, versione insolita e interessante di un Jim Crow da fiera italica, e la maschera bianca dell’uomo, intelligente trasposizione dal tono melanconico che ci ha regalato anche Buster Keaton e Chaplin[38] , riassume il contrasto tra neorealismo e paradosso-fantastico. Il risultato è il grottesco e amaro a cui la loro vicenda umana conduce. Si tratta della presenza del negro nella favola.

La problematicità del negro e di conseguenza della ‘vicenda ‘razziale, nel film, del loro desiderio mostra, vistosamente, l’irriducibilità del tema in quanto problema storico.

Per dunque rispondere alla prima domanda, del perché in un film del 1951 un uomo negro ed una donna bianca non si potessero amare, si può rispondere che la realtà non lo poteva neppure concepire, prima ancora che accettare. Questo ovviamente nonostante gli sporadici casi che la storia ha documentato, proprio per il loro valore di eccezione.

Qui, vediamo come lo sforzo neorealista e la tensione fantastica fatica ad arginare e contenere questo elemento perturbante e indomito di realtà. È una riflessione sulla differenza[39].

È per questo che la donna e l’uomo sono in secondo piano? È per questo che nel momento in cui cambia la loro pelle, il loro dolore evidente rimane sospeso mentre entrambi simmetricamente, ognuno dalla propria parte, spariscono dalla scena!?

Questa problematizzazione indiretta, per forza dei fatti, o per capacità artistica a mostrare le dissintonie del reale, lavora sulla mente del pubblico. Perlomeno del pubblico che ha buone ragioni per vedere e superare il solo appoggio dell’immagine[40] . Questa complessità tende a mostrare contenuti non così diretti ma, per comprenderli dobbiamo retrocedere un istante e tornare ad elementi che precedono la parabola della vicenda del negro e della bianca.

Dobbiamo tornare al contesto in cui i due personaggi hanno desiderato di vedere legittimata la propria attrazione. Si tratta della realtà dei baraccopoli. In essa dobbiamo tornare al momento che la caratterizza di più, ovvero il momento in cui con la scoperta della colomba entrambi possono esprimere la verità dei propri desideri, la distanza acuta dalla loro idea di integrazione, completezza e –azzardiamo- felicità.

Come dobbiamo intendere l’atteggiamento dei barboni davanti alla possibilità di esprimere ogni desiderio? E come dobbiamo intendere la diversità del negro e della bianca davanti alla loro umile richiesta di un’equità delle passioni?

Qui entriamo nel vivo della questione.

Da una parte possiamo intendere i barboni come la logica dei fanciulli davanti a dei regali. La loro fascinazione verso la materialità degli oggetti è di natura ludica e la loro natura esprime bisogni di evasione davanti alla durezza del mondo. D’altra parte se il film si pone come favola critica contro la struttura sociale, il loro atteggiamento è appunto puerile, aprogrammatico e dunque istintivo.

Essi sono incapaci di opporsi realmente al sistema e persino nei loro desideri ne dipendono in modo infantile[41]. In questo senso la polemica politica che il film suscitò essendo considerato di destra o di sinistra, trova la sua dialettica misura.

Ma se questi sono i modelli, la storia interrazziale diventa, involontariamente, la schiena portante del film. Anche se non notata, anche se marginale e soprattutto perchè amara. In quanto amara si pone come l’antitesi narrativa del film o come apporto ed elemento incongruo.

La vicenda del negro e della bianca, che all’inizio si inserisce in modo corale con le miserie degli altri senzatetto, trovando poi una maggiore problematicità nel momento della festa per gli stessi limiti sociali presenti anche a Brambi (ipoteticamente), diventa appunto tragica quando, nella scena dei miracoli della colomba, invece di chiedere oggetti ludici, entrambi chiedono la legittimazione della loro attrazione. Come in una favola classica, l’elemento magico li punisce con un’ironia sadica.

Ma questa considerazione permette di ampliare la portata del loro ruolo, e giustifica consciamente, inconsciamente o per motivi di taglio registico nel montaggio il disinteresse di De Sica per la vicenda. In essa c’è infatti la possibilità di una complessità narrativa implicita, anche se non immediata.

A me pare che nel loro sguardo amaro, riscoprendosi l’una una negra e l’altro un bianco, ci sia il distacco della loro parabola all’interno del film, poichè vedono la dissimmetria riconfermata nelle loro pelli. Qui nasce la distanza vera tra loro e gli altri della baraccopoli, prima che noi si possa nell’ultima scena, come abbiamo già accennato, rivederli uniti a combattere.

Essi non si accontentano delle parole dette dall’alto, spesso non veritiere, dei gesti di approvazione indiretta (è il caso del vecchio, nella scena della festa, che li incita ad esprimere il proprio sentimento), ma sono consci di verità e limiti sociali, istituzionali o più semplicemente culturali. La loro amarezza è l’amarezza di chi sente il peso della propria impotenza, e l’inadeguatezza (senza colpa, ben inteso) che si è destinati a scontare. Per questo hanno infatti necessità di legittimarsi, prima di poter aver un’idea di sogno, di favola dove fare crescere il loro sentimento secondo una logica ed una simmetria che possa farli esprimere[42] . Ma narrare questo, significherebbe parlare della storia intera del razzismo e delle differenze, oltretutto toglierebbe la giocosa atmosfera che il film vuole mantenere. Dunque tutto questo possiamo solo dedurlo dai frammenti che De Sica ci fornisce.

Questa dissimmetria o simmetria della differenza (distanza) è un elemento registico potente perché reale. Ha poi un valore teatrale che richiama direttamente il canone occidentale, rappresentato massimamente da Shakespeare e nello specifico proprio con Otello. È dunque vero che ognuno di loro deluso torna, indietro, sulla propria via, ma a differenza dei loro epigoni Desdemona e il Moro, essi si vedono per quello che sono. Inoltre, possiamo dire anche che tornano sui propri passi.

E come ci tornano?

Tornano sui propri passi mutati, cioè esperendo e vivendo la diversità dell’altro.

È un elemento di tragica conoscenza e reale unione. Un privilegio dato da un miracolo fantastico, si badi bene, che a seconda di quanto loro sono disposti a conoscersi ed ad accettarsi, può distruggerli o unirli.

Voluto o meno – e io credo sia voluto – critico o inconsciamente archetipico, è a questa ineluttabile riflessione che ci portano le sequenze della vicenda. Lo dice la eco, asciutta e struggente, dei loro sguardi in un primo tempo, sconfitti.

In questo modo però anche la loro grandezza umana, e la vera forza del loro sentimento, è destinata a mutare e ad essere più adulta e complessa. Lo è anche rispetto all’altra coppia: Livia e Totò[43] . La loro attrazione ed il loro sentimento, che per qualsiasi altra coppia potrebbe essere il semplice lusso di un ludico interesse o di una più o meno leggiadra esperienza, deve vivificarsi mostrando a se stessi ed al mondo di essere solida oltre ogni limite. Solo in questo modo può essere in grado di superare l’istanza punitiva dei fatti, così come la durezza della realtà e dell’epoca sociale[44]. Insomma non è facile amare quando non addirittura insostenibile- essendo negri (diversi) nell’Italia degli anni ‘50 nemmeno in una pellicola neorealista.

A me non dispiace affatto che la negra bianca e il bianco negro siano in piazza a lottare per conquistarsi la loro fetta di paradiso laico; che abbiano potuto vivere nelle proprie pelli le verità dell’altro. Segno di una tragedia singolare. Si tratta di un tragicità capace di ridestarli e renderli intimamente simili. Questo scherzo del destino magico li sveglia dal limite di vedersi come un negro e una bianca, cioè accettando passivamente il pregiudizio storico e sociale. È in definitiva un fatto propositivo.

La loro verità biologica, sociale, culturale e tragedia umana è l’unica forza che hanno da cui ripartire. Devono così sconfiggere il pregiudizio –sottilissimo- che anche l’uno aveva verso l’altro: non saper accettare e legittimare in se stessi la verità del proprio sentire: la sola colpa di cui ingenuamente si erano gravati. La colpa non è di essere negri o bianchi, ma di non sapersi vedere oltre tali differenze.

Siamo al momento della lotta dei barboni nel centro di Milano. Tutti lottano. La scopa diviene il mezzo magico, nel campo di battaglia del Duomo, per guadagnarsi il miracoloso: un cielo.

La negra bianca e il bianco negro, in modo particolare, lottano per unire la distanza dei due mondi che ora sentono sulla propria pelle.

Vediamo, così, con l’ultima immagine entrambi –innominati[45]– affrontare la vita per guadagnarsi l’amore e la bellezza favolosa dei cieli urbani.

Conclusione

In questo senso il film si unisce ad un’altra esperienza filmica, alle ritrovate pellicole dei negri americani, per gran parte ancora in via di assemblamento e storicizzazione. Intendo negri: attrici ed attori, registe e registi, tecnici, produttrici e produttori e pubblico. Essi facevano da se stessi la propria immagine, con la dignità dei propri mezzi. Non credo infatti che i loro film viaggiassero internazionalmente e che incontrassero un pubblico ampio. Come non credo che De Sica e Zavattini potessero avere veramente diretta esperienza o comprensione del loro dramma che era anche il dramma degli africani, dei sudamericani e via dicendo.

Quel cinema, nel 1951 anno di uscita di Miracolo a Milano, c’era da almeno 30 anni come, con antesignana memoria ha voluto rilevare per primo l’inglese Peter Noble e poi, con intelligenza, ha arricchito e proseguito l’italiano Lorenzo Quaglietti ed infine problematizzato Joy Nwosu nel caldo ‘68 .

Insomma un ponte tra Americhe ed Europa, tra Hollywood e New York City, tra il quertiere di Harlem e il quartiere di Lambrate. Una sorta di reale magia o miracolo[46]– se vogliamo- a cui è tempo ormai di rimettere i piedi.

Reginaldo Cerolini Marzo 2015, Arese, per gentile concessione dell’autore LogoCreativeCommons

*[nota della madre macchinista] pur sapendo che il termine è controverso  e spesso utilizzato in chiave razzista, abbiamo mantenuto l’uso della parola ‘negro’ come desiderato dall’autore, di origini afrobrasiliane, che insiste nel reclamare il termine.  Come accade  anche in altri contesti di resistenza spesso i termini derogatori vengono riappropriati dai diretti interessati, e l’uso diventa uno dei poli del dibattito culturale, di scavo anche nella storia del lessico.

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Note

1 Per quanto riguarda la tematica dei neri nei film, vi è l’opera di Peter Noble del 1947, già tradotta dai Fratelli Bocca nel 1956, a cura di Lorenzo Quaglietti, con un ricchissimo aggiornamento del curatore e un articolato capitolo dedicato alla figura del negro nel cinema italiano. In essa Quaglietti stabilisce una convincente tripartizione di documentari e film che hanno per soggetti e personaggi i negri. Io le ho così chiamate: Cinema Documentaristico dal sapore etnografico, Cinema Coloniale dal tono un pò stereotipato e Cinema del dopo guerra che coincide con il neorealismo. Fatto curioso di primato e forse di vanto per l‘Italia, infatti per la ripubblicazione del testo inglese in suolo americano passeranno ben due decenni. Anche (De Franceschi, 2014) rileva l’importanza precorritrice in Italia di Quaglietti e fa una nutrita carrellata dell’ “Archeologia degli studi post coloniali di cinema in Italia”. Sul piano internazionale (Brooks, 2001) aggiunge a Noble altri due importanti critici, Leab e Bogle, dei cosi detti “rece movies”: nome terribile. In ogni modo sul suolo italiano bisognerà aspettarre il caldo 1968 per avere un’intelligente, quanto originale interpretazione da parte di Joy Nwosu, che ha la particolaritaà di unire per la prima volta in Italia e fra le prime nel mondo, come sottolinea la folgorante copertina, “un punto di vista negro, una prefazione bianca”. Più recentemente il già citato De Franceschi ha saputo sottolineare l’importanza di questo primato ripubblicando, in un’edizione critica, il libro sulle edizioni di Aracne, che egli cura, arricchendo tra l’altro l’evento con una doppia intervista a Nwosu e ad Argentieri.

2 Nel film non è mai problematizzato come un negro americano sia diventato un irregolare, tanto da divenire un senza fissa dimora nella periferia di Milano. Si tratta di una mancanza certamente giustificata dalla logica fantastica del film, ma si mostra subito come primo elemento distonante dell’intera vicenda. Ci torneremo più accuratamente nelle pagine successive.

3 (Argentieri 2006) nel capitolo La vita incomincia anche a Cinecittà, ridimensiona e al contempo dà valore alla portata del neorealismo nel contesto italiano. Infatti dallo slogan delle “Ricostruzione” agli “inobliati amori cinematografici su cui gli eventi terribili di un quinquiennio non hanno avuto nessun effetto”, egli ricorda come il neorealismo prende piede proponendo “ impietosi squarci di un faticoso passaggio dalle atrocità della guerra a una normalià piagata, ricerca di una poesia ove predomina sia il pianto delle cose che la commozione delle cose, indagine sociale ed esistenziale senza remore e filtri sentimentali” e più avanti sottolinea un aspetto che le generazioni nate dopo gli anni sessanta e che ancora continuano a sorgere probabilmente ignorano. Argentieri ricorda come “i film del neorealismo, nel loro impatto con il pubblico, hanno scatenato tempeste oggi inimmaginabili.”

4 Questi due momenti si inseriscono bene in un quadro di analisi storica, debitore dell’800 positivista (strumentalizzato) e ottimamente esemplificato nel saggio “I razzismi del Fascismo” (Raspanti, 1994), sono individuate tre fasi della dialettica razzisto-fascista: razzismo biologico, nazional-razzismo e razzismo esoterico.

5 Questo tipo di amnesia o sparizione storica non è ovviamente solo per le opere filmiche dei negri. La mia non è una polemica ma la mera segnalazione di come certi prodotti culturali avendo meno sorte di altri ne segnino in qualche modo il mito e la dismemoria al di là del loro valore effettivo, per il quale ci vorrebbe appunto il dato storico.

6 Difficile non considerare, al di là delle polemiche e attestazioni di verità, il paragone tra The Birth of a Nation (1915) di D. W. Griffith , e Within Our Gates (1920) di Oscar Micheaux o sempre di Micheaux The Symbol of the Unconquered (1920). In termini di esperienza e possibilità di produzione è uno scontro tra Davide e Golia. Con un David-Micheaux tecnicamente grezzo e intelligente fino alla commozione. La stessa Nwosu, nel concludere il suo libro dedicato al cinema e all’Africa Nera (essa non fa quasi menzione della cinematografia negra americana, il che è curioso), fa una riflessione storica esemplare: “Non abbiamo nulla in contrario che si facciano dei documentari sull’Africa Nera anche postindipendenziale; un cinema che documenti dal di dentro lo spazio umano e sociale dei popoli dell’Africa Nera è anzi quello di cui in Africa forse più si sente il bisogno: ma a parte il fatto che non è il caso dei vari Giants o Indipendents è proprio la loro presenza a smascherare l’assenza di quel discorso cinematografico che solo autorizzerebbe a parlare di cinema africano in questi paesi. Una presenza del tutto turistico commerciale come s’addice ad ogni sottosviluppato che si rispetti. D’altro canto non è un mistero per nessuno che siamo un paese altamente sottosviluppato; che abbiamo bisogno di cibo, di acqua, di case, di vestiti, di strade, di ospedali, di fognature, prima ancora che di scuole e di libri. Tanto che viene perfino il dubbio se quanto abbiamo fatto e stiamo facendo, senegalesi e nigeriani, del Ghana e del Camerun, con il cinema e la cultura, la musica e la poesia, e la medicina, l’ingegneria, la meccanica, sia proprio quello che bisognava e bisogna fare. Se non sia cioè un’evasione la nostra che invece di rimanere a casa a fare i conti con la nostra realtà ce ne andiamo in giro per l’Europa sognando che intanto faremo la rivoluzione. Comunque, non è che ci aspettiamo qualche risposta in questo senso. Tanto meno dal cinema africano di oggi. Siamo anzi del parere che queste domande continueranno a non nutrire questo cinema anche nel prossimo futuro. Che saranno altri, ancora, i dubbi e le vergogne che esso porterà sulla pellicola. Dal canto nostro, continueremo a credere che prima prenderemo coscienza della nostra condizione e prima affretteremo la nostra nascita di uomini. (Anche nel cinema).”

7 Il mirabile saggio “ La distinzione” (Bordieu, 2001), contestualizzato a gusti e costumi nel tempo, potrebbe essere una ottima prospettiva su come guardare alla cinematografia etnologico-sociale (non mi andava ora di ripetere razziale) con un’autoanalisi della storia della critica e delle recensioni a partire proprio dal canone della cinematografia afro-americana, europea e africana, sudamericana ed asiatica.

8 Ho trovato infatti con un certo stupore nella proposta dello scomparso Gianni Volpe del libro “I film da vedere a vent’anni”, l’assenza o la menzione di Oscar Mecheaux, che sarebbe stata utile come contro risposta a D. W. Griffith e menzione della realtà negra americana che si sentiva oltraggiata in quella sua ricostruzione. Tale assenza continua nella parte “Temi e Generi” di Livio Marchese, precisamente in Disagio psichico e psicoanalisi, Documentario e Docufiction, Razzismo una menzione a Within Our Gates (1920), o The Quiet One (1948), non in qualità di film di e su negri, ma in ragione del fatto che sono ormai film importanti della storia del cinema (come testimonia ad esempio Grandi registi di Steven Jay Schneider ) e perfettamente coerenti con le tematiche dallo stesso Marchese scelte come strumento d’indagine. In definitiva il difetto più grosso del pur interessante (Volpe, 2014) è la selezione di film classici e nuovi, senz’altro, ma che dei fenomeni degli ultimi vent’anni del mondo e dell’Italia parlano poco. Eppure i ventenni di oggi negri, olivastri, meticci e bianchi con o senza diritto di Ius Soli , vivono proprio in questo mondo e in quest’Italia.

9 Sentimento, si badi bene, che ha necessità per avere possibilità di essere anche solo configurato, di un contesto contenitore. In questo senso, il seme del loro sentimento solo in una terra di confine come Brambi, zona di irregolari, pare avere il vento di una possibile fioritura.
Nel testo “Paisà analisi del film” (Parigi, 2005), il saggio di Leonardo De Franceschi dal titolo Fra teatro e storia, la doppia scena del reale Il secondo episodio che ha per primo sottotitolo Il negro e lo sciuscià presenta un’analisi con tre domande per far partire la sua riflessione. Sono: quale personaggio si fa carico di mediare i saperi spettatoriali? A quale punto di vista ottico si appoggia lo sguardo della mdp? Come si posiziona l’istanza enunciatrice del testo nei confronti dell’esperienza- cognitiva e visiva- dei personaggi?. Tutte domande interessanti alle quali farei precedere queste: quale valore e che scopo ha la presenza del primo personaggio negro della storia del neorealismo alla luce della realtà italiana e della diversa realtà americana? Quale valore ha porre in dialogo un gigante negro militare con un piccolo scugnizzo napoletano (escludendo, in questo caso, le ambigue ipotesi di Davide e Golia ricordate e suggerite da Stefania Parigi)? In che rapporto sono sceneggiatura e regia nel riportare l’immaginario del negro nell’Italia del primo dopo-guerra? Le stesse domande e lo stesso tipo di analisi, fatto da De Franceschi, sarebbero da unirsi ovviamente anche a questo film di De Sica, incominciando ad aprire una dialettica storica della figura del negro nel cinema Italiano ed europeo, ma anche dello straniero (categoria più generale del diverso o dei diversi, giacchè si tratta di un pluralismo con alcuni punti di congiunzione).

10 Come avranno notato le femministe di Gender Studies, se vi è necessità di un equilibrio fra le parti, si può ben dire che qui sia il maschio nero, pur nelle sue titubanze gestuali e linguistiche, ad avere una parte attiva; ma un parziale equilibrio dei due verrà simmetricamente ripreso proprio nel finale.

11 Se da una parte di interesse alla presenza del negro, è anche vero che il tema focale di questa presenza è una causa civile, ovvero la legittimità o meno di ambire a dei sentimenti che due o più individui possono provare. Questo per dire che ci sono anche altri due momenti in cui la presenza e l’attività del negro è certamente attiva nella comunità di barboni, senza la ben che minima marginalità. Anzi in uno dei momenti di protesta e rivolta attiva, anche se disorganizzata, egli è tra le prime file. Invece non c’è nel momento dell’incontro con l’Ingengere, ma questo mi sembra meno significativo, anche perchè egli ha una chiara difficoltà linguistica e i linguaggi burocratici dell’ingegnere stilisticamente renderebbero incongrua, narrativamente, la sua presenza. Anche in ragione del fatto che gli stessi popolani della baraccopoli si fanno fregare dalle parole e dalla finta magnanimità dell’ingegnere.

12 Non credo nel sensibile contesto italiano al melodramma sia da escludersi la eco drammatica dell’Opera e dunque del grande Otello e persino, per i più esperti come un Zavattini della novella VII Libro Terzo da Ecatommiti di Giambattista Giraldi Cinzio da cui Shakespeare trasse abbondantemente il suo capolavoro. Lo stesso contesto teatrale diede alla luce la rappresentazione di Otello di Gassman regista, che oltretutto si alternava nel ruolo di Otello e Iago con il meraviglioso Salvo Randone. La rappresentazione fra 1956-57, di un certo successo, fa certo pensare con rimpianto al brio e alla potenza delle realizzazioni del 1930 a Londra, con Paul Robeson nel ruolo di Otello e persino alla versione del 1943 a New York , direzione diretta da Margaret Webster e con sempre Paul Robeson nel ruolo di Otello. Perche’ in Italia non si poteva usare un attore negro per quel ruolo, visto le esperienze ancora calde del neoralismo ed attori impegnati come l’italianizzato John Kitzmiller? Difficile allora non scoppiare in un riso storico e riequilibratore, nel momento in cui un Gassman-Otello dipinto di nero, per fortuna non a mo’ di parodia Jim Crow, consolato ambiguamente da Iago-Randone lascia una vistosa macchia nera proprio sul suo naso, macchia che accompagnera’ la scena per oltre un minuto.

13 La problematica delle coppie interetniche, già affrontata in letteratura da tempo nelle Americhe – in Brasile, lo scrittore Caminha azzardò persino l’amore omosessuale sadomasochista tra un grosso marinaio nero ed un giovane marinaio biondino già nel 1895 O Bom Creolo-, come in Europa ma anche in Africa (Rhodesia) l’implacabile libro L’erba canta (1950) di una giovanissima Doris Lessing, è affrontato in cinematografia, proprio da Micheaux, in molti suoi film a partire dagli anni ’20. Infatti, in modo analogo alla vicenda del film Miracolo a Milano, i protagonisti di The Symbol of the Unconquered (1920) lei una negra-bianca o dalla pelle chiara e lui un negro. Verso il finale, dopo aver attraversato insieme varie vicessitudini sostanzialmente razziali, posso permettersi di amarsi proprio perchè lui ormai ricco, scoperta l’origine negra della sua pelle chiara può confessarle il suo amore.

14 Quaglietti pone anche una nota in cui asserisce che la posizione di De Sica rispetto alla questione razziale non è ben chiarita. A noi interessa perché testimonia che, in Italia, ci sono documenti in cui si era già discusso della presenza dei negri nei film e della sua possibile rilevanza sociale; non si dimentichi lo spettro della situazione americana come sottofondo a questa problematica.

15 Scena che riecheggia il film Paisà, di cui si parla nella riga che segue la nota stessa.

16 È in effetti difficile far emergere nei primi film del neorealismo italiano una dichiarazione razzista verso il diverso e in questo caso i negri. C’è certamente da distinguere l’ambigua fusione tra alleati inglesi, americani e brasiliani e l’idea del negro come problema sociale inserito nel contesto italico. È un immaginario del tutto assente come i primi esempi del neorealismo mostrano. Più difficile è considerare il debito storico che il neorealismo ha certamente verso la politica del Fascismo, del cinema Hollywoodiano e della tradizione documentaria nazionalista che rappresenta le colonie. A primo acchito sembra un debito che si esprime col contrasto ed un netto rifiuto, almeno da una certa classe intellettuale (con una forte tradizione classico letteraria, teatrale, di teatri di prosa ed operistica, si badi bene).

17 Quaglietti, documentatissimo, cita anche altri film che precedono Miracolo a Milano, e sono Tombolo (1947) di Giorgio Ferroni, Il mulatto (1949) di De Robertis, Campane a martello (1949) di Luigi Zampa, Angelo tra la folla (1950) di Leonardo De Mitri, ma a costo di essere ridondante io aggiungerei, come esempi internazionali della problematica razziale che possono avere dato suggestioni alla filmografia italiana del tempo e con la presenza di negri, la menzione di alcuni film recensiti con acume da Arturo Lanocita nel Corrire della Sera : Venere e il professore ( 1948) di Howard Hawks, Pinky (1949) di Elia Khazan, Bandiera gialla ( 1950) di Elia Kazan, L’amante indiana ( 1950) di Delmer Daves, Uomo bianco tu vivrai (1950) di Joseph Mankiewicz.

18 A questo proposito è curioso come manchi alla cinematografia del Dopoguerra una qualsivoglia dialettica della negritudine. Posso capire che citare i negri africani in generale, ed in particolare i negri etiopi, eritrei e della Libia, potesse toccare un punto un po’ sensibile della situazione coloniale nostrana, e potesse far rivedere quella visione del razzismo italiano un po’ buono e meno feroce. Ciò stupisce perché tra i negri che durante la Guerra attraversarono l’Italia ( e alcuni vi rimasero) ci sono le truppe inglesi, francesi e brasiliane. Più recentemente riflessioni di carattere filmico, documentaristico che riguardano l’Italia sono stati fatte da Spike Lee con il suo, avversato, “Il Miracolo di S. Anna” ma anche il lavoro pioneristico del regista italiano di origine ganese Fred Kuwornu con il suo “Inside Buffalo” (2012).

19 Un film avanguardistico che esprime e va oltre il genere, le distanze razziali e la situazione erotica è – concedetemi la dovuta enfasi- l’impagabile e straordinario manifesto artistico di Borderline (1930) di Kennet Macpherson col poliedrico e mordace Paul Robenson, ma anche il divertente film privato Camille (1926) di Rhalp Barton, sua opera unica prima del suicidio. Questo ultimo ha la straordinaria capacità di parodiare in versione licenziosa l’antiproibizionismo basandosi sul noto romanzo “La signora delle camelie” di Alexander Dumas (figlio)- che era mulatto-. È una divertita quanto sprezzante elite newyorkese che fa il verso a quella parigina. Oltretutto offre l’unica possibilità di vedere nello stesso film Charlie Chaplin e Paul Robenson. Tornerò a questo lavoro di comparazione tra le due pellicole in prossimi saggi.

20 In questo senso la cultura trasversale, fatta di leggi, contesti artistici ed espressioni popolari dovrebbe essere un elemento da non sottovalutare. Su due piedi, mi vengono gli esempi in cartolina ormai celebri di “ La doccia salutare” (1935-36) di Giovanni Bonora e “Il manifesto” di Gino Boccasile (1944), che raffigura un negro americano ubriaco abbracciato alla statua dell’Afrodite di Milo, immaginario che è diventato un cliché della cinematografia neorealista ma anche Faccetta nera vagamente misogina e razzista (per quanto dotata di ritmo guascone da banda di paese) la propaganda colonialista e razzista. In campo artistico impossibile scordare l’ironica, quanto razzista e stereotipata creazione di Bosko (1929) in Italia meglio conosciuto come Brusco, personaggio stereotipicamente negro, bertuccesco e snodabile che esprimerebbe la smaliziata furberia (e simpatia) negra.

21 Se si pensa che questi erano i vertici mainstream della riflessione americana, sulla questione razziale, lasciando un ruolo importante alla bravissima Jeanne Crain, invece di affidarlo ad una vera negra dalla pelle chiara come ad esempio Eslanda Robeson che fu attrice, non si può non sorridere (per non dire sbellicarsi dal ridere) quando la bianchissima Pinky-Crain con un phatos pregno di orgoglio e core rivendica con questa frase la sua negrezza. Lo stesso Arturo Lanocita, nella sua recensione sul Corriere della sera, 24 Marzo 1950, ebbe a dire “Indipendentemente dalle sue idee, è una pellicola di pregio … non ha momenti di stanchezza e ne ha molti, invece, di commozione, anche se tutti previsti e attesi. … A Jeanne Crain avremmo preferito una vera negra.”

22 A mio giudizio un argomento tanto ricco, meriterebbe una tesi comparata fra Storia, Letteratura, Cinema, Antropologia Culturale, Semiotica, Sociologia dei comportamenti sociali, Psicologia. Mi riferisco ad un preciso focus sul ruolo del nero (metafora di straniero, si badi bene) nel cinema, nella cultura e nella società italiana. Dividere e settorizzare un simile studio in limiti accademici mostra oltre a limiti oggettivi d’indagine, lacune ormai imbarazzanti.

23 Pseudonimo della straordinaria sceneggiatrice, poi conosciuta come costante collaboratrice di Luchino Visconti, Giovanna Cecchi.

24 La richiesta dei due soggetti è così anomala per Totò che egli si appresta a interrompere per quel giorno l’elargizione di miracoli.

25 Questo è solo uno fra i numerosi esempi che mostrano, a mio giudizio, come “Totò il buono” si presti meglio a leggersi come allegoria o parabola –grottesca e comica- del Vangelo, con la solita tecnica cara a Zavattini dello stravolgimento della forma, per estendere e discutere i significati. Argentieri sottolinea la specificità e profondità del pensiero di Zavattini all’interno del neorealismo, a partire dagli epistolari aperti del ‘88 e ‘95, e sottolinea come l’istrionico scrittore, umorista, critico e sceneggiatore Zavattini “ è tra i primi a intuire che la posta messa in gioco dal neorealismo va oltre i recinti di una poetica e di un movimento artistico legato all’uso di alcuni canoni estetici. I film del neorealismo compiono un salto di qualità dando concretezza a una visione culturale che scava un fossato incolmabile fra l’Italia del ’40-43 e l’Italia del 43-45.”

26 Quaglietti: pag. 205 egli fa riferimento alla sceneggiatura uscita integralmente sulla rivista “Il Momento” il 23 febbraio 1950.

27 È quasi impossibile non ricordare i toni divertiti e smaliziati del suo romanzo-racconto Parliamo tanto di me.

28 Come essa dai dintorni di Lambrate possa correre placidamente, sino allo scenario finale della piazza del Duomo, è una distrazione registica e scenografica abbastanza evidente, ma la si lascia passare nel contesto emotivo a cui la scena conduce.

29 Attraverso Youtube, ho dovuto guardare la scena più di 10 volte, col fermo immagine, per poter rilevare i due personaggi. Questo per sottolineare che da parte di De Sica c’è verso questa vicenda un interesse secondario. Egli forse da regista considerava la loro vicenda esaurita col magico cambiamento della pelle. Anche qui sarebbe utile una indagine tecnica che prenda in considerazione questa prospettiva, come ha fatto Leonardo de Franceschi nel suo saggio inserito nel libro “Paisà analisi del film”.

30 Bisognerebbe, di fatto, scoprire con dati alla mano, anche le ragioni di montaggio, di produzione e sociali che, a volte portano a certe scelte rispetto ad altre.

31 In questo senso i precedenti dell’esperienza fascista di film come, Squadrone bianco (1936) di Augusto Genina, Il grande appello (1936) di Mario Camerini, Sentinelle di bronzo (1937) di Romolo Marcellini come cita Quaglietti segnalando anche come Scipione l’Africano( 1937) di Carmine Gallone abbiano fatto da spartiacque tra estetica propagandistico-coloniale fascita ed estetica neorealista

32 Il precedente e primo atto narrativo della presenza di negri nel cinema di De Sica, è in Sciuscià, dove una pennellata neorealista, mostra Giuseppe chiedere una barretta di cioccolato ad un soldato afro-americano. Contesto che testimonia una cordialità, e che non vuole certo tematizzare la questione razziale, ovviamente. Ma già questa genealogia si mostra interessante, perchè unisce tre temi cari al neorealismo. La questione sociale (una società distrutta e prostrata dalla guerra), la questione politica (un’Italia smembrata fra opposte alleanze e lotte partigiane: qui compare il mito del soldato americano) e la nascente questione razziale, vista in chiave italiana dunque con un distacco di contesto, che forse ha permesso più libertà e lucidità –almeno inizialmente-, come lo stesso Quaglietti rivela, e lo stesso Lanocita nelle pagine del Corriere della Sera.

33 O può darsi sia una mancanza dovuta alle formattazioni. Io ho visto il film in YouTube.

34 È il caso di John Kitzmiller, per fare un esempio tra i tanti. Libri importanti sul tema Gli eroi venuti dal Brasile di Giovanni Sulla ed Ezio Trota, Naples 1944 di Norman Lewis e Black Warriors. I Buffalo soldiers e la liberazione dell’Italia lungo la Linea Gotica di Ivan J. Houston. È abbastanza singolare rilevare come la differenza fondamentale tra le truppe brasiliane e le truppe americane, è che i soldati negri brasiliani non venissero divisi da quelli bianchi, come invece accadeva per le truppe americane, e come con un certo imbarazzo e caduta di stile mostra lo stesso documentario propagandistico The negro soldier del 1944 di Stuart Heisler prodotto da Frank Capra, che vanta la menzione dal 2011 tra i documenti salvati e tutelati dalla Library of Congress americana.

35 Qui vi è tutto lo spazio allora per legittimare la scelta del soldato negro in quanto, a guerra finite, deve affrontare la dura realtà di un paese, l’America, dove la sua dignità e i fondamentali diritti di cittadinanza e uguaglianza sono negati nonostante il suo sforzo di combattere per la sua nazione e la possibilità di perdere la vita per essa. In modo esemplare lo spiega il reverendo e capellano G. Reynolds nell’articolo “What The Negro Soldier Thinks Of This War” comparso su “The crisis” 1944 in riferimento ai soldati negri “ Ogni dichiarazione che scende dalle labbra dei leaders anglosassoni di questo conflitto convalida la convinzione del soldato negro che questa e’ una guerra per il mantenimento del diritto del bianco di tenere la gente di colore in schiavitu’ sociale ed economica. Il soldato negro non e’ cosi’ stupido come molte autorita’ credono. Egli si fa molte domande.” Riferimento del libro “I Negri Americani dalla depressione al dopoguerra: esperienze sociali e documenti letterari” di Loretta Valtz Manucci, che devo correggere sull’esatto titolo dell’articolo che e’ “What The Negro Solders Thinks Ot This War”. In ogni modo per concludere, e’ allora significativo che diversi soldati, e fra questi soldati negri scegliessero di rimanere in Italia. Segno senz’altro di un presumibile buon inserimento sociale.

36 Forzando un po’ la mano si può anche azzardare una associazione, però da approfondire, e dunque soldato nero come irregolare, senza potere economico, perso, ubriaco e in sintesi derelitto sociale. Si tenga presente che i classici esempi di ubriacatura e sprezzante violenza (un must del neorealismo legato non solo ai negri, ma più in generale al popolo e ovviamente sempre ai militari), iniziati in Italia con la locandina Manifesto di Gino Bocassile del 1944, come abbiamo già avuto moto di menzionare nella nota 20. Aggiungo a questo riferimento la riflessione del libro “Bianco e nero : storia dell’identità razziale degli italiani” di Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop, che con un nutrito riferimento di manifesti, cartoline e pubblicità riflette intelligentemente su come il contrasto bianco e nero abbia culturalmente determinato la percezione somatica degli italiani.

37 Ne è un chiaro esempio come nel libro Totò il buono Zavattini mostra come Totò solo, fuggendo, quasi come in un’ascensione cristica, assurge al cielo di una amara ed insieme ironica laicità, a dispetto della salita trionfale e consolatoria del popolo degli irregolari che, sorvolando le guglie del Duomo (particolare non indifferente) punta verso l’infinito del cielo.

38 Ma alla maschera di Chaplin va aggiunto che l’elemento di contrasto nero sono i baffetti, fatto non irrilevante.

39 Non mi risulta che il neorealismo sani mai questa discrepanza sia essa sociale, politica, e come in questo caso ‘razziale’. La differenza sia come atto di denuncia, che come evasione narrativa, mantiene e chiarifica la distanza. Questo è un altro degli elementi che accomuna la prima ondata di neorealismo. È il caso di La terra trema (1948) di Visconti.

40 È una verità storica che essere soggetti, testimoni o eredi di una tradizione (Immigrati, negri, omosessuali, donne, disabili etc. ) permette di osservare gli eventi che ci attraversano con uno sguardo ed una domanda necessariamente più articolata, rispetto al canone ed al pensiero altro (più ancora se quest’altro pensiero è – come spesso accade – dominante).

41 Arturo Lanocita, dalle pagine del Corriere della Sera (9 febbraio 1951), acuto lettore del film- a cui fa difetto la mancata menzione all’amore ‘interraziae (lui piuttosto attento alla “questione razziale”)-, asserisce che nella scelta stessa di usare dei senza tetto come rappresentazione dei deboli, ci sia un vizio di forma. Per il critico il prototipo barbone scelto da Zavattini e De Sica “Incute pietà ma non spinge alla solidarietà; esso è un ribelle inerte, ma un ribelle, se non antisociale come il ricco egoista, è almeno un asociale, per deliberato proposito. Non aspira alla giustizia, aspira alla ricchezza non sudata, tal quale come il signor Mobbi, che è il Cresco del film, tanto è vero che ill “barbone” chiede alla colomba miracolosa milioni e pellicce, milioni e cilindri. L’urto avviene dunque, tra due egoismi”. Io però trovo che le ragioni dei barboni del film rispondano più ad un’immediatezza e frenesia dell’oggetto lontano e desiderato. Certo vi è la mancanza di una dialettica, nel loro ruolo appunto, per questo trovo che sia l’enfasi e lo stupore fanciullo, insieme al capriccio ed alla voluttà, lo strumento più indicato per comprenderli.

42 Un’acuta riflessione di Lanocita, usata per recensire Pinky, potrebbe essere riadattato come fondamento di questa riflessione. Egli infatti dice di Pinky “Ha più bisogno di giustizia che di amore”. I nostri due personaggi devono guadagnarsi una propria giustizia, prima di concedersi il reciproco sentimento.

43 Senza contare che è Livia ad avere una parte attiva, nel far ridestare in Totò il sentimento che lei conosce già in lui. Può darsi che qui vi sia una difficoltà di trasposizione o adattamente perchè nel libro Totò è invaghito (più propriamente ammaliato eroticamente, e l’erotismo in Zavattini si esprime sovente come una forza bruta e schietta oltre che divertente) della statua e per lei soffre.

44 Non è da sottovalutare la retorica sociale, la pubblica prassi rituale a cui le relazioni interraziali devono sottoporsi dal passato ad oggi, dovendo fare da esempio o contro esempio a modelli egemoni presistenti sentiti e socialmente dati come norma. È interessante a tal proposito un vecchio lavoro di Bastide che raggruppa 5 saggi sotto il titolo “Incontri di uomini”. Analizza il razzismo in Occidente, in Africa e in Brasile, tenendo ben presente la dimensione economica, sessuale e religiosa dove, distanze etniche vengono appianate o riequilibrate da posizioni economico- sociali, dal valore del corpo e delle parti, e persino da una certo immaginario o stereitipo dei ruoli sessuali. Questa riflessione potrebbe essere molto utile per un lavoro che volesse indagare la dimensione economica, religiosa e sessuale nella rappresentazione del negro nel cinema come nel teatro e nella letteratura. Di nuovo l’esempio di Otello e Desdemona di Shakespeare, tratto dall’opera di Giambattista Giraldi Cinzio, si diversifica proprio perchè, mentre Cinzio pone l’accento sull’estetica poco attraente di Otello e una scarsa intesa sessuale tra i due, ma una ottima affinità di spiriti, un’ottima confidenza ed intimità (non fisica), Shakespeare pone l’accento sul ruolo sociale di Otello, la sua prestanza e il fascino del suo passato oltre che su una dimensione sessuale appagata ed una dimensione religiosa per certi versi conflittuale. Otello infatti, non riconosce mai il cattolicesimo di Desdemona (se pur si sposano) come metro di valore delle proprie azioni. La pietà cristiana (ammesso che sia solo nel cristianesimo) è un sentimento che non riconosce nella sua vicenda, come valore individuale.

45 Diversamente dall’antichissima novella di Giraldi Cinzio dove ad essere senza nome era solo Il Moro. In questo la modernità del neorealismo ha portato una parità fra i due sessi.

46 Ironizzo con tutta una serie di film tra anni ‘40 e ‘60 del ‘900 che con la sigla Miracolo o Miracle, stravolgevano la realtà in senso religioso, mistico, favoloso per denunciare o superare un problema sociale. Uno fra questi primi film è il divertente (anche se molto lento) poliziesco Miracle in Harlem (1948) di Jack Kemp, con un cast interamente nero e con una tematica una volta tanto non inserita in uno stereotipo etnico-sociale. Nel film il miracolo è la fede e la perspicacia indaghereccia dell’anziana Haunt Hotti (Hilda Offley) e del suo disimpegnato ma efficace domestico Stephen Fitchit (strepitoso).

 

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VIDEOGRAFIA:

Angelo tra la folla (1950:De Mitri) ; Afrique (1950: Vautier); Berlino anno zero (1948: Rosellini); Body and Soul (1925: Micheaux); Bosko the tolk-ink kid (1929: Harman-Ising); Burlesque in Harlem ( 1949: Alexander); Dark Manhattan (1937: Friser); Ladri di biciclette (1948: De Sica ); Harlem is Heaven (1932: Franklyn); Inside Buffalo (2012: Kuwornu); In the Street (1948-1952: Levit); La terra trema (1948: Visconti); Midnight Ramble: The Story of The Black Film Industry (1995:Bowser); Miracle in Harlem (1948: Kemp); Miracle in Spanish Harlem (2013: Partridge); Miracolo a Milano (1951: De Sica); Miracolo a Sant’Anna (2008: Lee); Paisà (1948:Rossellini ); Rio, 40 graus (1955: Pereira dos Santos); Senza pietà (1948: Lattuada); Sciuscià (1946: De Sica); Swing (1938: Micheaux); Tambem somos irmaos (1948: Burle); The Quiet One (1948: Mayers); The Negro Soldier (1944: Capra); The Symbol of the Unconquered (1920: Micheaux);Tombolo: paradiso nero (1947; Ferroni); Pinky (1949: Kazan); Vivere in pace (1947: Zampa); Within Our Gates (1920: Micheaux).

 

 

Foto in evidenza da archivio Internet.

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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