Musica e incarcerazione di massa negli Stati Uniti, parte 2: Espressione politica, ascolto etico, di Lorenzo Vanelli

a cyber friedrich

Potete accedere alla prima parte dell’articolo uscita nel numero 12 de La Macchina Sognante cliccando qui

 

Musica e incarcerazione di massa negli Stati Uniti, parte 2: Espressione politica, ascolto etico

 

Nell’articolo precedente ho presentato un riassunto dei processi sociali, politici ed economici che hanno interessato la trasformazione del sistema carcerario statunitense dalla fine della Guerra Civile ai giorni nostri. Ho discusso in che modo questo sistema è in continuità con l’istituto della schiavitù, come affligge in maniera sproporzionata le comunità Afroamericane e Latine, e in che maniera ha adeguato i metodi di sfruttamento della manodopera carceraria agli sviluppi del sistema produttivo. Ho quindi accennato alla rilevanza politica ed economica del sistema carcerario e al suo fondarsi su una cultura della reclusione come soluzione violentemente vendicativa a problemi di carattere sociale e sanitario. Un cambiamento di prospettiva da parte dell’opinione pubblica su modi e motivi dell’incarcerazione richiede quindi una rivoluzione culturale. In che modo una forma di espressione artistica come la musica può partecipare a questa trasformazione ed entrare nel dibattito sul sistema carcerario statunitense?

A marzo di quest’anno ho completato un progetto di ricerca sugli holler Afroamericani, una forma di canto a voce sola senza accompagnamento in uso fino agli anni ’60 del secolo scorso. Questo genere di canti aveva una lunga storia che può esser letta nelle similitudini con tecniche canore di alcune specifiche tradizioni africane (in particolare del Senegal e del Burkina Faso), così come nella rarefatta documentazione sulla schiavitù in America e nel multiforme sviluppo della musica Afroamericana, in particolare, e Americana in generale.

Ciò che rende però gli holler particolarmente rilevanti rispetto al tema qui in esame è il contesto di provenienza dei documenti oggi esistenti su questi canti. La quasi totalità dei documenti sugli holler vennero prodotti tra le due guerre in penitenziari del sud degli Stati Uniti all’interno di progetti di ricerca sulla musica folk Afroamericana. L’obiettivo di queste ricerche era documentare quella che Odum (Negro Workaday Song, 1926) aveva definito “an eloquent cross-section of the whole field of Negro songs” [una significativa selezione dell’intero ambito delle canzoni Negre], aggiungendo che le prigioni fossero il luogo ideale per svolgere questa ricerca: “if one wishes to obtain anything like an accurate picture of the workaday Negro he will surely find his best setting in the chain gang, prison, or in the situation of the ever-fleeing fugitive” [chi volesse ottenere qualcosa come una accurata raffigurazione dell’ordinario lavoratore Negro troverà certamente il suo ambiente ideale nei gruppi di lavoro forzato, nelle prigioni, o nella condizione dell’eterno fuggitivo]. Ovviamente, il contesto oppressivo delle prigioni nel sud segregato non era affatto l’ambiente “ideale” per i cantanti, e queste registrazioni hanno ben poco di “accurato” e “significativo”. Al contrario, risultano irrimediabilmente opache.

Uno dei temi ricorrenti nella poetica de-colonialista di Edouard Glissant è il concetto di opacità. L’autore ne parla esplicitamente in Poetics of Relation (1990):

 

“There’s a basic injustice in the worldwide spread of the transparency and the projection of Western thought. [..] As far as I’m concerned, a person has the right to be opaque.” (eng translation by Betsy Wing)

 

[Esiste un’ingiustizia fondamentale nella diffusione mondiale della trasparenza e nella proiezione del pensiero Occidentale. [..] A mio parere, una persona ha diritto a essere opaca.]

 

E in Introduction à une poétique du divers (1996):

 

Je réclame pour tous le droit à l’opacité. Il ne m’est plus nécessaire de “comprendre” l’autre, c’est-à-dire de le réduire au modèle de ma proper transparence, pour vivre avec cet autre ou construire avec lui.

 

[Reclamo per tutti il diritto all’opacità. Non mi risulta necessario dover “comprendere” l’altro, ovvero ridurlo a modello della mia propria trasparenza, per vivere assieme a quest’altro o costruire con lui.]

 

Rispetto agli holler, i gradi di opacità che ho dovuto riconoscere e rispettare erano numerosi. Le registrazioni erano state svolte specificamente per produrre documenti e archiviarli, e per questo documentano direttamente l’evento della registrazione stessa, non il loro uso, consumo e contenuto abituali. Le relazioni asimmetriche tra ricercatori e cantanti aggiungevano un ulteriore velo alla comunicazione. Il carico esperienziale di ciascun cantante, unico e spesso traumatico, non è lo stesso del ricercatore di allora o di un ascoltatore di qualsiasi epoca, aggiungendo un altro grado di opacità ai contenuti referenziali dei canti. Infine, i cantanti stessi ricorrevano a specifiche tecniche canore per produrre volutamente opacità performativa, ovvero velando, sviando l’attenzione, criptando il contenuto in formule, espressioni non verbali, sottintesi.

Il risultato è che questi documenti, fonti orali di primaria importanza, sono velati da un’opacità quasi totalizzante. Eppure, è proprio questa opacità a darci la misura di quel sistema oppressivo di cui non vogliono e non possono parlare. La nostra incapacità a comprendere questi testi coincide con la loro mancanza di libertà a esprimersi. Accettare quella opacità significa abbandonare la futile ricerca di chiarezza e dedicarci a un’attività più trasformativa: l’ascolto. Primo Levi in Se questo è un uomo (1958) riassunse: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare”.

 

La vicenda degli holler Afroamericani suggerisce modalità di ascolto di successive produzioni musicali sul sistema carcerario statunitense.

La musica è uno strumento comunicativo potente. In quanto forma d’arte, può produrre una narrazione densa e basata su un linguaggio stratificato e simbolico. Un brano può comunicare in pochi minuti un’esperienza, una sensazione, una prospettiva, un ideale. La musica comunica a più livelli: ci parla direttamente attraverso i testi, attiva la nostra memoria con riferimenti impliciti (genere) ed espliciti (citazioni), comunica sensazioni fisiche attraverso scelte timbriche, offre consequenzialità logica nella correlazione delle parti in una struttura. La musica può essere memorabile, una cocente rivelazione che trasforma l’ascoltatore, o una struttura logica che facilita la (ri)costruzione di una narrativa personale per colui che la esprime.

Per questi motivi la musica non ha mai smesso di essere utilizzata come medium espressivo nel dibattito politico in generale e sul sistema carcerario in particolare. Diversi musicisti, attivisti, organizzazioni, ricercatori, istituzioni hanno prodotto ricerche, registrazioni, eventi, attività ludiche, manifestazioni, pubblicazioni, corsi a carattere musicale sul tema del sistema carcerario. Ognuno dei soggetti che hanno prodotto o partecipato alla produzione di queste espressioni musicali ha portato una propria prospettiva, contribuendo a un discorso polivocale sfaccettato.

Dopo le ricerche nelle carceri tra le due guerre, molti altri ricercatori hanno svolto indagini sull’uso e consumo di musica nelle carceri americane, come ad esempio Wake Up Dead Man di Bruce Jackson e, più recentemente, Follow me Down di Herbert Halpert. Seppure gli scopi primari di questi progetti siano di carattere accademico, la loro pubblicazione ha comunque un impatto politico, partecipando al dialogo sulla riforma delle prigioni.

Rispetto alle produzioni per il mercato discografico, sarebbe impossibile elencare tutti i riferimenti al sistema carcerario. Mi limiterò perciò a citare tre esempi profondamente differenti: dai brani di Common come Black America Again alla produzione musicale di Dominique Morgan come Long Time Coming, in cui vengono condensate alcune delle tesi fondamentali della riforma della giustizia e gli ideali del movimento Black Lives Matter, al breve ma intenso episodio del disco prodotto dai Lifers Group, noti per aver ottenuto una nomination ai Grammy Awards per un video musicale girato mentre erano detenuti nella East Jersey State Prison, in New Jersey. Alcuni produttori discografici hanno anche lavorato negli ultimi anni per collaborare con individui durante il loro periodo di incarcerazione per produrre i brani, come nel caso del progetto Die Jim Crow di Fury Young.

Numerose associazioni e organizzazioni impegnate nel dialogo per la riforma del sistema della giustizia statunitense hanno prodotto progetti che comprendono attività, produzioni o eventi a carattere musicale. Dalle organizzazioni su larga scala come la Reform Alliance di Meek Mill e Jay-Z, all’attivismo dal basso di associazioni come H.O.L.L.A! con il loro disco The Report Back, al progetto Bring Down the Walls di Creative Time e Fortune Society, che nella sua cangiante varietà di stili, piattaforme e contenuti scuote alle fondamenta qualsiasi pretesa di generalizzazione sul tema della musica prodotta nel, per, o sul sistema penitenziario americano.

Vi sono poi diverse istituzioni impegnate nella produzione di attività o corsi a carattere musicale ed educativo nelle prigioni e nei programmi di sostegno agli ex-detenuti. Dal Musical Connection Program sviluppato dalla Carnegie Hall, nel quale vengono proposti corsi di alfabetizzazione musicale in prigione mirati alla produzione di un concerto al termine del periodo di detenzione, al progetto Beats Rhyme and Justice prodotto dal Center for Justice della Columbia University, nel quale i detenuti hanno avuto accesso a un masterclass offerto da produttori musicali professionisti durante il loro periodo di permanenza in prigione.

Ognuno di questi progetti si fonda su un ammirevole sforzo di amplificare la voce delle persone la cui vita è stata segnata da un periodo di detenzione, per riformare la narrativa pubblica attorno al sistema penitenziario americano e supportare processi di ricostruzione comunitaria e guarigione individuale. Eppure, ognuno di questi progetti ha dovuto trovare soluzioni spesso innovative per affrontare e superare alcuni dei rischi inerenti all’uso della musica come medium di comunicazione, soprattutto sul lato della ricezione. Le preferenze estetiche soggettive di coloro che ascoltano queste espressioni possono influire radicalmente sull’efficacia della comunicazione. Non solo: questi progetti hanno dovuto trovare il giusto bilanciamento tra la volontà di comunicare l’esperienza degli individui partecipanti, la richiesta di comprensibilità da parte del pubblico, e l’eventuale volontà di opacità da parte dei musicisti. Ognuno di questi progetti ha proposto soluzione differenti su come organizzare l’evento produttivo e come proporre una precisa etica dell’ascolto nel contesto di ricezione. In questo modo, le esperienze sviluppate in questi progetti suggeriscono strade percorribili e sottolineano le difficoltà inerenti all’uso della musica come forma di comunicazione a carattere politico anche al di fuori dello specifico contesto del dibattito sulla trasformazione del sistema carcerario americano.

 

 

 

s200_lorenzo.vanelli

Lorenzo Vanelli  addottorato in etnomusicologia all’Università degli Studi Bologna con una dissertazione sui field hollers afroamericani  e la costruzione dell’identità nel sud degli Stati Uniti durante gli anni  del sistema di discriminazione razziale di Jim Crow. Ha a suo attivo la pubblicazione dei seguenti saggi:

“Between the Blues and Africa: transformation of narratives about African American hollers”,

Sound  Ethnographies, Palermo, Inverno  2018. “Rapporti Intervallari nella musica tradizionale Gnawa”, Saggiatore Musicale, Bologna, Primavera 2018.

“Interval structures in Gnawa music: dynamics of change and identity”, International Workshop on Folk  Music Analysis Proceedings  Malaga, giugno  2017.

“Software di analisi etnomusicologica: modelli di pensiero”, XXI CIM Proceedings, Cagliari, settembre 2016.

 

Immagine in evidenza: Opera grafica di Irene De Matteis.

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

Pagina archivio del macchinista