“Schiavitù e servitù involontaria non esisteranno mai più negli Stati Uniti o in altri luoghi sotto la loro giurisdizione.”
Era forse troppo chiedere un punto fermo?
Invece una vergognosa virgola, vergata con gesto marziale, apre una ferita nel corpo della sacrosanta sentenza. L’inciso scivola facilmente tra soggetto e complemento, lacera la logica, trapassa l’etica, e penetra impietoso fino a rivelare uno strato più profondo, oscuro.
L’emendamento numero 13 alla Costituzione degli Stati Uniti, approvato per soli due voti di margine sul quorum nel 1865, recita:
“Schiavitù e servitù involontaria, eccetto come punizione per crimini per cui l’imputato sia stato debitamente dichiarato colpevole, non esisteranno mai più negli Stati Uniti o in altri luoghi sotto la loro giurisdizione.”
L’emendamento non aboliva la schiavitù: la trasfigurava, trasferendone la funzione all’istituto carcerario. Quella lacerazione aperta dall’inciso nel costato costituzionale esprime una politica di adattamento, non di cambiamento. Seppur particolarmente rivelatore, l’emendamento è solo uno dei modi in cui, in quegli anni, venne praticata una grave volontà di continuità storica. Le politiche economiche degli anni della ricostruzione negarono agli Afroamericani liberati gli strumenti per riscattare la propria condizione: pratiche di mezzadria o servitù per debito assicurarono alla casta bianca al potere il continuativo accesso a manodopera Afroamericana a basso costo. Chi falliva nell’adeguarsi all’inserimento forzato in questa economia di sussistenza era facile preda di leggi specificamente redatte per colpire le classi più svantaggiate. Unitamente ai “black codes” e alle “Jim Crow laws”, leggi espressamente destinate a colpire la popolazione su base razziale, e al clima sociale violento della segregazione, questi meccanismi di controllo portarono al rapido aumento della popolazione carceraria Afroamericana.
Ed è qui che quell’inciso si mostra in tutta la sua gravità. Una volta in carcere gli Afroamericani venivano proiettati indietro nella storia. Da individui tornavano a essere legalmente trattati come merci: noleggiati a compagnie private, sfruttati fino a consumarsi per mantenere in moto un sistema capitalista che non sembrava poter fare a meno di estrarne plusvalore. Miniere, industria pesante, squadre per la costruzione di strade e ferrovie, campi di bonifica e deforestazione, lavori agricoli: tutti settori in cui la manodopera dalle prigioni veniva sfruttata a costo quasi zero, in condizioni lavorative grottesche.
Nel frattempo il sistema penitenziario si evolveva, adattandosi ai tempi. Negli anni attorno alla fine della guerra civile vennero fondate le prime prigioni private: imprese sovvenzionate con fondi pubblici, il cui mercato è la rimozione degli indesiderabili (Angela Davis, “Are prisons obsolete?” 2003: 16) a fine di lucro. Qualche decennio dopo, all’alba del ventesimo secolo diverse prigioni iniziarono a investire in proprietà terriere dove far lavorare direttamente i prigionieri invece che noleggiarli a privati esterni. Seguendo la meccanizzazione di vasti settori industriali, a metà degli anni ’30 vennero fondate le prime “Prison Industries”, come la UNICOR, corporazioni fondate per organizzare l’accesso alla mano d’opera forzata e sotto-pagata (o non pagata affatto) degli individui incarcerati. Così, già negli anni ’40 un intero settore produttivo strutturalmente non dissimile all’istituto della schiavitù, ovvero fondato sulla negazione di diritti individuali fondamentali, mantenuto economicamente competitivo grazie allo sfruttamento del lavoro forzato, lautamente supportato da finanziamenti pubblici e favorito da un’azione politica connivente, era già organizzato e operativo. “Schiavitù sotto altro nome”, come l’ha definita Douglas A. Blackmon in un fondamentale libro pubblicato nel 2008, poi trasformato in documentario dalla PBS. Ma soprattutto, il sistema era perfettamente legale, grazie anche a quella bieca volontà di cui l’inciso piantato in Costituzione, nel cuore dello stato di diritto, rivelava solo un significativo frammento.
Le vittorie raggiunte faticosamente dai movimenti per i diritti civili negli anni ’50 e ’60 suturarono con coraggio e determinazione alcune delle ferite storiche in seno alla società civile americana, ma fu solo nei primi anni ’70 che per un breve periodo sembrò possibile immaginare soluzioni anche alla questione del sistema carcerario, discutendo possibili alternative (per approfondire, vedi anche il già citato libro “Are Prison Obsolete?” di Angela Davis), avanzando teorie in materia di giustizia curativa/riabilitativa/trasformativa. Per un breve periodo si cercò di immaginare un mondo che potesse fare a meno delle prigioni, almeno nel modo semi-moderno, violento e vendicativo di intendere la loro funzione. Interessi politici ed economici strattonarono però la società nel momento in cui la profonda lacerazione stava iniziando a cicatrizzare.
Come magistralmente riassunto da Ava DuVenay nel documentario 13th (distribuito su Netflix: non esiste ragione per non guardarlo), dalla metà degli anni ’70 in avanti la speculazione politica bipartisan e l’impatto mediatico della guerra al crimine e contro la droga portarono consensi ai candidati che si dimostravano “tough on crime” (duri contro il crimine). L’attività legislativa che ne seguì fu disastrosa, operando in direzione esattamente opposta alle prospettive suggerite nei primi anni del decennio: irrigidimento dei processi per ottenere uscita su cauzione, libertà vigilata o grazia, sentenze minime obbligatorie per reati minori, l’infame “three strikes”, furono alcuni degli strumenti legali con cui venne riaffermata la volontà di applicare soluzioni violentemente punitive a problemi di carattere sociale, sanitario o economico, reali o mediaticamente indotti. I risultati non tardarono ad arrivare: negli ultimi 40 anni la popolazione carceraria statunitense è quintuplicata, nonostante il tasso di criminalità sia diminuito considerevolmente. Oggi, un quarto della popolazione carceraria mondiale è detenuta nei soli Stati Uniti.
In questo processo, sono ancora una volta le minoranze Afroamericane e Latine ad essere bersaglio privilegiato, in un sistema di capitalizzazione politica ed economica sul carcere come forma di controllo sociale in diretta continuità con quello tra le due guerre. Michelle Alexander ha delineato con precisione il problema nel suo fondamentale libro “The New Jim Crow” (2010), spiegando anche come questa nuova forma di oppressione delle minoranze cerchi di nascondersi dietro un linguaggio “colorblind”: letteralmente “cieco ai colori”, ovvero che si professa non razzista, pur fondandosi su palesi stereotipi e fomentando barriere razziali e divisioni in caste. Qui in Italia il concetto dovrebbe suonarci familiare.
Oggi il 28% degli Afroamericani finisce almeno una volta in prigione nell’arco della propria vita: quasi 1 ogni 3, contro 1 ogni 7 Latini e 1 ogni 17 bianchi. Il confronto tra il peso percentuale della popolazione Afroamericana generale e quello nelle carceri è gravissimo. Nel 2008 c’erano più Afroamericani in prigione che schiavi nel 1850. Oggi ci sono più Afroamericani che hanno perso il diritto di voto a causa dello stato della loro fedina penale di quanti erano stati interdetti dai seggi elettorali nel 1870 su basi esplicitamente razziali. Oggi gli Stati Uniti rinchiudono in carcere una percentuale della popolazione Afroamericana più alta (a essere precisi, da cinque a sei volte più alta) di quanto avesse fatto il Sud Africa durante l’apartheid.
Un’obiezione comune è che oggi non esistono più leggi razziali, e forse questi numeri esprimono solo un problema interno alla comunità Afroamericana. Questo ragionamento è però pericoloso e gravemente fuorviante, per una lunga serie di motivi, ma in particolare per due questioni principali. Primo, non tiene conto del fatto che la limitata capacitazione economica che affligge molte comunità Afroamericane discende da una serie storica di politiche il cui risultato è stato il sistematico mantenimento delle inuguaglianze. Secondo, il ragionamento funzionerebbe solo nel caso in cui cui il sistema della giustizia colpisse ovunque in modo equo a prescindere dal colore della pelle. Prendiamo un esempio: un’azione che in altri paesi non è perseguita come il possesso di qualche grammo di marjuana, in molti stati americani comporta una pena minima di 5 anni. Statistiche dimostrano che bianchi e Afroamericani ne fanno consumo proporzionalmente identico. Eppure, i rastrellamenti della polizia a riguardo avvengono soprattutto nei quartieri a larga maggioranza Afroamericana. Un Afroamericano è molto più facilmente bersaglio di perquisizioni casuali per strada (“stop and frisk”), motivate sulla base di “hunch” (vaghi sospetti) derivanti dal suo aspetto (leggi: colore della pelle), secondo un metodo che è stato definito “racial profiling” (analisi comportamentale a fini investigativi basata su stereotipi razziali). Il risultato: gli Afroamericani sono 3.73 volte più a rischio dei bianchi di finire in carcere per la stessa attività illegale.
Il problema però non si arresta a quanto avviene tra le mura del carcere, dove tra l’altro gli Stati Uniti sono tristemente noti anche per il clima violento, gli abusi e l’ampio uso di tecniche di reclusione che violano i diritti fondamentali dell’uomo, come la reclusione in isolamento per periodi prolungati. Una volta fuori dal carcere, le persone che hanno scontato la propria pena devono fronteggiare numerosi problemi: diritti limitati, inconsistente o inesistente accesso al credito, discriminazione abitativa e sul lavoro, debiti contratti durante il periodo di prigionia, e un inossidabile stigma sociale che accompagna lo status di ex-detenuto. Il risultato? Il recidivismo a 9 anni dall’uscita dal carcere è all’83%. Più di quattro persone su cinque finiscono nuovamente in carcere. E in tutto questo non abbiamo nemmeno preso in considerazione i dati sull’incarcerazione femminile, di devastante gravità, riguardo ai dati sulla salute mentale delle donne in carcere, o sulla criminalizzazione di episodi di difesa personale attuati da donne in contesti di violenza domestica.
Il problema non è nemmeno di carattere strettamente individuale: questo tipo di sistema ha un considerevole impatto anche sul tessuto sociale, in generale, e sulla cerchia di persone con cui è in relazione l’individuo che finisce in carcere, in particolare. Recenti statistiche hanno dimostrato che una donna americana su quattro ha una persona cara in prigione. Il dato peggiora se si considerano solo le donne Afroamericane, salendo al 44%. In tutto questo, oltre ai devastanti effetti sociali e psicologici su una consistente fetta della popolazione americana, uno dei lati particolarmente problematici di questa situazione è il mantenimento continuativo di quello stesso sistema economico che era già sostanzialmente formato negli anni ’40. Con l’unica differenza che, negli anni, si è ampiamente esteso e radicato nel sistema politico e culturale statunitense. Questo sistema economico è un mostruoso idra dalle molte teste. Proviamo a concentrarci su due di queste.
Un lato del problema dal punto di vista economico riguarda la questione eticamente discutibile delle corporazioni che sfruttano la manodopera carceraria a costi risibili per produzioni industriali. Si potrebbe quasi esser tentati di dar ascolto a chi sostiene che sia un’attività socialmente utile e correttiva, se solo si riuscisse a dimenticare per un attimo che quelle persone pagate pochi centesimi all’ora continuano a dover eventualmente sostenere assegni famigliari e altri debiti, devono comprarsi ogni bene di prima necessità al “commissary” (negozio gestito dall’ente penitenziario), si vedono decurtare i fondi inviati loro dall’esterno dal 9% al 20% in commissioni, e magari dal punto di vista legale non è nemmeno ancora stata provata la loro colpevolezza (il 78% della popolazione detenuta nel 2016 nelle prigioni della città di New York, ad esempio, di cui il 52% Afroamericani, era in attesa di giudizio da mesi o addirittura anni, seppure tecnicamente innocenti fino a prova contraria).
Il secondo lato riguarda l’indotto generato dalle carceri. Oltre alle compagnie private che offrono prestiti a interessi spesso non calmierati a chi non ha liquidi per pagare la cauzione (attività che in altri paesi è considerata ostruzione alla giustizia, in relazione all’intervento nelle fasi di processo, e usura, in relazione ai tassi d’interesse richiesti), l’indotto generato dalle prigioni si compone di posti di lavoro, servizi di approvvigionamento, costi gestionali, appalti edilizi. Il tutto a spese dei contribuenti, per costi che variano da stato a stato, ma che risultano in media astronomici, spesso maggiori di quanto in teoria costerebbe mandare quella stessa persona per un anno a un college della Ivy League. L’investimento di denaro pubblico in questo indotto s’è spesso, tra l’alto, accompagnato a disinvestimenti operati nel corso degli anni nel settore del sociale: l’aumento dei capitali investiti nel settore delle prigioni avveniva cioè in parallelo con la riduzione di programmi per alloggi popolari, scuole pubbliche, e altri servizi che tecnicamente creano proprio quel sistema di supporto minimo indispensabile ai cittadini al fine di prevenire le stesse condizioni di vita che aumentano il rischio di ricorrere ad atti di delinquenza.
Il sistema risultante è un complesso e stratificato castello di perversità, nascosto ad arte dalla retorica della lotta al crimine, in cui enti privati traggono vantaggio economico da violente politiche di limitazione della libertà altrui. Non sarà un caso che il 9 Novembre 2016, ovvero il giorno successivo alle elezioni di Trump, i valori di stock market di Corrections of America, una delle principali corporazioni di prigioni private, era cresciuto del 60% prima di attestarsi poco sotto al 40%, mentre GeoGroup era salita del 18%. A febbraio 2017 i due gruppi avevano guadagnato rispettivamente il 140% e il 98% rispetto al loro capitale di mercato precedente alle elezioni del 2016.
Tornando all’emendamento numero 13, credo che tre parole fondamentali ne rivelino lo scheletro logico: “eccetto come punizione”. L’idea che possa esistere un crimine per cui la giusta punizione sia la riduzione allo stato di schiavitù può essere partorita solo da un’opinione di maggioranza profondamente vendicativa. Uno dei pilastri che sorreggono questo sistema complesso e stratificato è infatti il consenso popolare. Questo consenso è una delle anime di quello strato buio esplicitato dall’inciso in costituzione. È un consenso che si basa su una prospettiva culturale che glorifica la punizione come arma di efficace giustizia, ben oltre persino la sua teorica qualità di prevenzione e dissuasione. Una prospettiva che si rifiuta di riconoscere le condizioni storiche e strutturali della permanenza di pratiche di razzismo istituzionalizzato. Per combattere questa deriva culturale, Michelle Alexander ha parlato della necessità di instaurare, al contrario, una cultura della cura, della compassione, dell’ascolto: un cambiamento di prospettiva che torni a riconoscere l’umanità, l’individualità, le storie, le prospettive e le traiettorie individuali delle persone che hanno avuto a che fare con il sistema carcerario: un cambiamento etico che comporti la consapevolezza della profondità storica e contemporanea delle disuguaglianze strutturali insite nel sistema statunitense, e suggerisca strade e volontà per il cambiamento.
Per combattere un problema le cui radici sono storiche e culturali, è necessaria oltre alle azioni legali e politiche una rivoluzione dello stesso segno: un’attività di carattere culturale, che spezzi il ciclo delle oppressioni e prevenga l’eterno ritorno di queste ondate di razzismo istituzionalizzato.
Non sarà allora un caso che numerose associazioni sono dedicate su più piani in direzione della costruzione di un movimento culturale proteiforme ma cumulativamente mirato alla trasformazione dell’opinione generale sul tema dell’incarcerazione attraverso il dibattito pubblico. Similmente, non è un caso che in questo processo di discussione tra gli strumenti usati come mezzi d’espressione figurino anche linguaggi artistici, compresa la musica.
Ma in che modo la musica come forma d’arte espressiva può intervenire in modo significativo in questo dibattito? In che modo produzioni musicali possono parlare della relazione storica e contemporanea tra le comunità Afroamericane e il sistema dell’incarcerazione di massa, e così facendo, contribuire al cambiamento necessario nella prospettiva di larga parte della società americana su questi temi?
In questo articolo abbiamo esplorato brevemente le radici storiche e le complessità contemporanee del sistema carcerario statunitense, con una particolare attenzione alle dinamiche di oppressione delle minoranze. Nel prossimo articolo proverò ad esplorare, attraverso riferimenti a progetti e prodotti musicali concreti, il modo in cui la musica è stata, ed è usata come mezzo espressivo per intervenire nel dibattito sul tema e contribuire alla spinta per ottenere un cambiamento sociale.
Lorenzo Vanelli è un dottorando in etnomusicologia all’Università degli Studi Bologna, ha appena completato la dissertazione sui field hollers afroamericani e la costruzione dell’identità nel sud degli Stati Uniti durante gli anni del sistema di discriminazione razziale di Jim Crow. Ha a suo attiva la pubblicazione dei seguenti saggi: