Morte di un poeta di Hassan Najmi (trad. a cura di Sana Darghmouni)

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Morte di un poeta

(Alla memoria di S’id Sma’li

Poeta, drammaturgo e amico)

 

Non mi fido di questa mattina.

Non è mio questo sole.

Mi tradirà come ha tradito te (ho saputo che te ne sei andato).

Ho trovato, al mio risveglio, il mio volto muto.

All’improvviso come se sotto la mia pelle ci fosse la depressione dell’eternità.

E ho corso con gli occhi di un cieco.

Come se la notte avesse inghiottito la mia strada verso di te.

Le mie dita palpavano la distanza al tuo funerale.

E tua madre alzava gli occhi verso il soffitto cercando la luce.

Come se si fosse oscurata la stanza dell’universo.

Allargava le braccia. Piangeva. E chiedeva: “dov’è S’id?”

 

Ti vede avvolto nella tua bandiera.

E si getta per coprire l’inizio della tua notte.

Si china come una nuvola bianca sull’idea della tua tomba.

Bacia la pietra della crudeltà.

Solo una madre sa che i suoi baci hanno un profumo.

Stendo le mie mani sorelle e ringrazio la piuma dell’utero.

cancellando la lacrima di cui era madida.

Poi la vedo come farfalla alata pregare.

Illuminarsi. Ricordare Dio.

Poi ricordarti.

Spera di vederti come era avvezza vederti davanti alla porta.

Quando alzerà la testa dalla preghiera.

(Non eravamo d’accordo così, figliolo. Perché mi hai preceduto nella mia morte?).

E Said si scherma gli occhi con la mano, riverente all’aura della sua luce.

 

  • Lungi da me, madre, piuttosto è la morte che mi ha preceduto al suono della tua voce per non farmelo sentire. Alle tue mani affinché io non porti con me il tuo tocco. Alle tue labbra, per essere privato del tuo bacio. Ai tuoi piedi, affinché io non possa portare con me la promessa del tuo paradiso. Ai tuoi occhi, per ritirarmi da solo nella polvere dietro il tuo sguardo. Oh madre, la morte mi ha preceduto, perché sfuggissi all’urlo del vivente. E con l’ala spezzata me ne vado verso il culmine della notte, frantumato come il bordo di un pozzo, in solitudine sotto l’erba. La sera implora sul tuo tappeto. Il mio specchio si è rotto e l’oscurità crollata.

 

Laggiù, in quella solitudine remota non ho trovato il giorno delle tue dita.

 

Oh madre, la mia tomba è fredda come un letto da cui mi sono assentato tutta la vita. Con sguardo impallidito e questa oscurità mi allontana dalle stelle dei tuoi occhi. E ora ho come letto il candore del compiacimento. Non ho preso nulla con me tranne quel che era rimasto della mia argilla (ahimè del coltivatore di canne!). Ahimè madre i tuoi palmi sono senza dèi e la fossa che vuole il tuo specchio  si è voltata dalla mia faccia.

 

Non merito questo silenzio che mi ruba la vita.

 

Ho vissuto nei barili del tuono. Passano accanto a me i cavalli, e mi agito per nitrire. Intorno a me urlano gli orizzonti. Ho sulla testa corone di spine e non bado alle greggi. Ho vissuto stabilendo la speranza. Ho vissuto nell’atlante della vita risvegliando i desideri. I passi vacillano nelle mie strade. Sanguinano i miei piedi e cammino come sangue nei bacini. Il corallo del tuo rosario brilla nei miei occhi. E cerco le parole che mi si addicono. Allevo la mia poesia nell’abitudine del tuo pianto. E ovunque io vada, nascondo il mio pianto. E ogni volta che si alza il mio grido mi precipito con lo sgomento della lacrima da te verso di te.

Non merito – proprio ora – questa morte.

Cosa faranno della borsa delle mie ossa?

Prega per me.

E se spingi la porta, perdonami il muro della notte.

Mi sarei rifugiato nella tua lacrima.

Avevo salvaguardato l’eredità della mia anima nel latte materno. Ero.

Ma è l’oscurità, o madre.

Per questa oscurità, che chiamiamo dolore, il mio cuore è caduto.

Per il dolore, il sangue si è asciugato come anche la gola delle canzoni.

Per questo canto, si è rotto il rimorchio della vita.

Ed ecco che mi fermo a questo punto.

Percuoto il legno della bara affinché non si oscuri la mia poesia.

Tremo un po’ in modo che la polvere non si rinvigorisca sulla biancheria della morte.

Temo che l’oblio invecchi più di me.

Il poeta è così-

Pazzo con un tocco di vita.

Di lingua. Di amore. Di ricordo. E di orfanità.

Quanto è bella la mantella della tua preghiera, la treccia vi cade sopra e l’hennè germoglia! Il garofano fiorisce sul tuo volto. E il mio volto è nello scoppiettio del perdono. E il tuo sguardo piangente, non c’è cosa più difficile per Dio del suo isolamento tardivo dietro la bara!

 

Ecco che ho girato la chiave dell’eternità chiudendo le mani.

La mia vita ha accelerato con me. Improvvisamente sono diventato come l’alleato della notte. Ora sulla tomba si riversa la pioggia (è questo il suo momento?) come un’acqua che danza sulle tegole e fa bere le rondini. Vistosi fili d’erba si innalzano come a coprire la pietra tombale. Le spighe hanno cominciato a chinarsi laggiù dietro le mura del cimitero. Madre, perché la morte tossisce e qui non vedo il volto di nessuno? E cosa sono venuto a fare in questo corridoio lontano? Nessuno mi ha detto il motivo per cui la mia ombra si è rotta sul legno della terra. E perché la mia via è fuggita dal mio passo. Qualcuno mi può dire perché ti ho lasciato la mia parte di dolore? Ed eccomi, mi sono affrettato come se gioissi dell’oscurità.

E ora- come un uccello me ne vado lasciando, o Hassan Najmi, la mia canzone nella tua gola!

Come faccio a sapere che sto andando a chiudere il mio libro sullo scaffale remoto.

Perché lascio i miei amici con lo spavento nel loro sguardo? Come se fossi un amico narcisista, ho cambiato il lotto della terra e ho lasciato una folla di cuori infranti. Come se mi fossi arreso. È il logorio del tempo che ha piegato il suo abito costringendomi a ritirarmi. Le finestre si sono addormentate e le strade sono rimaste alle mie spalle. Non mi resta uno sguardo che si rivolti.

 

La morte e l’assenza da sole non dimenticano (devo svanire).

Ora- il silenzio si spezza come una neve solitaria che nessuno può sentire.

Tutti i morti si raffreddano –

Ma io brucio come se mi avessero avvolto nelle ceneri di un vulcano.

Li vedo muovere le pinze del fuoco sotto di me.

 

Le pietre lastricate hanno cominciato a distrarsi dal rito del cammino.

(Ho dimenticato presto i miei passi).

 

E ora – afferro la vita e me ne vado.

Vi prego ricordatemi. Non lasciatemi sotto gli alberi dell’oblio.

Ho tempo abbondante per ascoltare l’oboe e il belare delle pecore.

Ho abbastanza ore per aspettare i passi.

Vi prego venitemi a trovarmi. E restate in vita.

 

 

L'immagine può contenere: Hassan Najmi

 

Hassan Najmi è un poeta, scrittore e giornalista marocchino, nato a Ben Ahmed nel 1960. Ha proseguito i suoi studi in letteratura all’Università Mohammed V a Rabat, sviluppando in particolar modo la tematica dello spazio; oltre alla laurea in letteratura araba, Najmi ha conseguito anche un Dottorato di ricerca. Dal 1998 al 2005 ha ricoperto la carica di presidente dell’Unione degli scrittori in Marocco, contribuendo inoltre alla fondazione della “Casa della poesia in Marocco” nel 1996 insieme ad un gruppo di poeti marocchini, tra cui Mohammed Bennis. Tra le sue opere tradotte in italiano “il sorriso dell’alchimista” e “le bagnanti e una eternità breve”.

 

(Immagine di Francesca Brà dalla fotogallery)

Riguardo il macchinista

Sana Darghmouni

Sana Darghmouni, Dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l'Università di Bologna, dove ha conseguito anche una laurea in lingue e letterature straniere. E' stata docente di lingua araba presso l'Università per Stranieri di Perugia ed è attualmente tutor didattico presso la scuola di Lingue e letterature, Traduzione e Interpretazione all'Università di Bologna.

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