MOLTI NOMI HA L’ESILIO
Forse la pioggia
laverà la polvere
sopra le vesti e il volto.
Polvere di macerie
e del cammino
che ti allontana
la casa e il melograno.
Polvere dove si imprimono
i ricordi di una donna
e dei giochi di un bambino.
Polvere che fa tacere
l’urlo dentro le orecchie
e il fischio e il sibilo
delle bombe a tappeto
verso sera
Polvere che cancella
le tue orme
nella strada deserta
dell’esilio.*
Molti sono i modi in cui possiamo declinare la parola “esilio”. Esilio è l’espatrio, quando guerre o persecuzioni, violenze civili o politiche, costringono ad abbandonare la propria terra, la propria casa, i luoghi cari e gli affetti, le tradizioni, la lingua; esilio è il confino, la perdita delle libertà personali; esilio è la lontananza da un luogo amato e rimpianto, la perdita di una persona cara, la sua assenza, la separazione; la rinuncia a qualcosa a cui si teneva, a uno stato di grazia, che si è dovuto abbandonare, a una parte di noi che non ci appartiene più; esilio è il distacco, l’allontanamento da una società, da un mondo nel quale non ci si riconosce più. Esilio è tagliare con la propria storia, con il proprio passato. Esilio è guardarsi dentro, scoprire la propria fragilità e, a volte, trasformarla in forza da contrapporre alle leggi dei potenti; è sentirci parte di un’umanità dolente, riconoscerci nell’altro, sentirci fratelli perché: “Nostra patria è il mondo intero”, come afferma Dante nel “De vulgari eloquentia”, o più tardi Pietro Gori negli “Stornelli d’esilio”. L’altra parola è nostalgia.
In esilio è il poeta, coinvolto e allo stesso tempo estraneo al mondo che lo circonda, in conflitto con se stesso e con una società, un mondo in cui raramente si riconosce; spesso voce che grida nel deserto
“…poeti senza dimora e vagabondi del linguaggio. Eccentrici scostanti, nostalgici, deliberatamente inopportuni… (SteinerG.- Extraterritorial-, New York, Atheneum, 1971, 11)
Del resto la cultura moderna occidentale è spesso opera di esuli, emigrati, rifugiati, come Adorno, Conrad, Joyce, Cortazar, Said, Darwish o i molti altri scrittori transnazionali, tra i quali anche i tanti che scrivono anche nella nostra lingua.
Scrittori che hanno cercato la loro casa nella scrittura, nella lingua d’origine o adottando la lingua del paese che li ha ospitati, restituendo dignità a una condizione emarginata, costruendo un’identità plurima, rifiutandosi di non appartenere, pur sentendo spesso che, come dice il poeta palestinese Mahmoud Darwish:
“un esule è sempre fuori posto”.
È vero anche che lo scrittore, l’intellettuale, il poeta, oggi sa, con Adorno, che ogni dimora è sempre provvisoria; che rinchiudersi tra quattro pareti è trasformare la casa in una prigione. E il poeta camerunese Ndjock Ngana, nella sua poesia “Prigione”, afferma che
Vivere una sola vita
in una sola città
in un solo Paese
in un solo universo
vivere in un solo mondo
è prigione.
Amare un solo amico,
un solo padre,
una sola madre,
una sola famiglia
amare una sola persona
è prigione.
Conoscere una sola lingua,
un solo lavoro,
un solo costume,
una sola civiltà
conoscere una sola logica
è prigione.
Avere un solo corpo,
un solo pensiero,
una sola conoscenza,
una sola essenza
avere un solo essere
è prigione.
Il senso di estraniamento che pervade poeti, scrittori, intellettuali, il loro considerare tutto il mondo come una terra straniera, da conoscere, da scoprire, da amare, può rendere possibile una nuova prospettiva, fatta di maggiore lucidità e consapevolezza, di empatia.
L’esilio diventa per il poeta del nostro tempo una dimensione anche metaforica dell’esistenza umana, che lo allontana dalle proprie radici, dall’antica casa, dall’infanzia, dai ricordi, a volte dai desideri; esilio che diventa rimpianto di qualcosa o di qualcuno o, semplicemente, di una parte perduta di se stessi. Esilio che diviene non-accettazione della realtà, sensazione di emarginazione, disadattamento, non-appartenenza. Ed è questo stato che parte dal sé che può far sì che il poeta trovi, come dice Edward W. Said
“la propria ragione d’essere nel fatto di rappresentare tutte le persone e le istanze che solitamente sono dimenticate o censurate” .
MOLTI NOMI HA L’ESILIO, è il titolo dell’antologia poetica, pubblicata da Kanaga Edizioni, nuova casa editrice creata dal poeta e scrittore senegalese Cheikh Tidiane Gaye, da anni radicato in Italia. Questa idea multiple di esilio ha ispirato i dodici poeti presenti nell’antologia, diversi per età, formazione, origine, percorso lavorativo e letterario, ognuno secondo la propria sensibilità ed esperienza.
Cinquantacinque poesie e un racconto in versi che esplorano i tanti temi legati all’esilio – reale o metaforico, vissuto, immaginato, intimo, sociale, cosmico- in cui il dolore trova sfogo e a volte speranza; in cui, a volte, anche il ritorno –inatteso o indesiderato – è possibile.
Kanaga edizioni deve il suo nome a una maschera facciale del popolo Dogon (Mali), tradizionalmente usata dai membri della società Awa. La doppia croce ricorda episodi della creazione del mondo ballati durante le cerimonie funebri in cui è utilizzata dai membri della società Awa. Pubblica libri provenienti da culture lontane e vicine, nella convinzione che la conoscenza delle culture del mondo possa contribuire alla costruzione di una società più inclusiva e umana.
*La poesia “Polvere” che apre quest’antologia è tratta da “Ponti di corda” di A. Fresu, Temperino Rosso Edizioni, Brescia, maggio 2018
MOLTI NOMI HA L’ESILIO
Antologia Poetica
a cura di Anna Fresu
Poesie di Jorge Canifa Alves, Paola Caramadre, Renato Casolaro, Lucia Cupertino, Daniel Fermani, Alessandra Ferrara, Grazia Fresu, Antonietta Langiu, Claudio Maioli, Carmen Maxia, Marco Sabatini, Giancarlo Tusceri
Kanaga Edizioni, Arcore, 2018