“Meticciato” o della problematicità di una parola (Camilla Hawthorne e Pina Piccolo)

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Premessa

Dalla scrittura del saggio Anti-razzismo senza razza  apparso nel numero 4 de lamacchinasognante.com, in reazione all’omicidio razzista di Emmanuel Chidi Nnamdi lo scorso 5 luglio a Fermo, per mano dell’italiano bianco Amedeo Mancini, un certo numero di altri sviluppi ci stanno spingendo ad approfondire quella discussione iniziale e ad espanderne i contenuti verso altri argomenti che il movimento antirazzista in Italia si trova ad affrontare attualmente. Il nostro contributo congiunto si basa sia su ricerche condotte da entrambe a livello professionale che sulle nostre rispettive esperienze accumulate nei movimenti antirazzisti e per i diritti degli immigrati sia negli Stati Uniti che in Italia. Episodi come le barricate innalzate a Goro dai residenti contro un numero molto limitato di richiedenti asilo africani a cui le istituzioni avevano riservato accoglienza sono indicative dell’acuirsi dei sentimenti e delle politiche di avversione ai migranti in Italia. Sebbene si siano manifestati in maniera sempre più allarmante negli ultimi 10-15 anni, queste politiche e sentimenti e pratiche (compresi i CPT e i Cie, i sistemi di sorveglianza, la militarizzazione delle frontiere, etc.), vanno collegati sia alla storia italiana che all’attualità. Quest’ultima comprende l’acuirsi della crisi dei rifugiati nel Mediterraneo e lungo le frontiere dell’Europa, come pure il fallimento dell’Europa nell’elaborare adeguate politiche dei visti, la mancata approvazione, ancora una volta, di una legge per riconoscere la cittadinanza alle seconde generazioni in base allo ius soli abbandonando lo ius sanguinis, l’ascesa delle destre a livello internazionale, come indicato dalle elezioni negli USA, il Brexit, le previsioni di successo di Marine Le Pen in Francia nelle prossime elezioni.

Tutti questi sviluppi sembrerebbero richiamare l’attenzione sulla necessità di trovare modalità più efficaci di far fronte a questa carica razzista sia da parte di chi è più direttamente bersagliato che da parte di italiani che si schierano contro il razzismo e la xenofobia, sia che abbiano pieni diritti di cittadinanza o che siano figli di immigrati provenienti da paesi non europei (con una cittadinanza di serie b).

Tra le tematiche messe in evidenza dall’episodio di Goro vi è la percezione di una fetta consistente della popolazione italiana di essere invasa (o ‘assediata’ come afferma il giornalista Massimo Franco nel suo libro L’assedio (Mondadori 2016), di doversi dotare di misure per proteggere la sua composizione demografica (una fra le preoccupazioni alla base della grottesca campagna avviata dalla Ministra della Sanità Beatrice Lorenzin ed egregiamente analizzata da Addess Tesfamarian qui. La paura che il paese possa perdere la sua presumibile ‘bianchezza’ è uno dei temi più calcati da Matteo Salvini e dalla Lega Nord che si è anche molto adoperato per diffondere teorie complottistiche al riguardo, quale il cosiddetto ‘piano Kalergi’ secondo cui sarebbe in atto un tentativo di rimpiazzare la popolazione europea con una specie ‘inferiore’ di meticci, vedi l’esauriente trattamento delle tesi in questo articolo di VICE News.

Negli Stati Uniti ultimamente si è propagata l’illusione che il paese si sia trasformato in una società post razziale, a causa dei cambiamenti demografici che vedono una diminuzione della proporzione della popolazione “bianca” rispetto a quelle che un tempo erano definite “minoranze”, idea ulteriormente rafforzata dall’elezione del primo presidente nero. Ma la realtà delle diseguaglianze razziali a livello economico, sociale, politico e occupazionale, per non parlare della violenza razzista che le persone di colore si trovano continuamente a subire (con un grande incremento dall’elezione di Trump) sono così evidenti da mettere a tacere anche le illusioni post razziali più ottimiste. Qui in Italia, visto che l’immigrazione dall’estero è un fenomeno relativamente più recente rispetto ad alcuni altri paesi europei, è difficile considerare la società post razziale un fait accomplit ma diventa invece un desiderio, una pia illusione da parte di progressisti, che poi sfocia nella rivendicazione del meticciato, che talvolta viene descritto come già esistente sul territorio, talora come obiettivo da raggiungere.

Ma poiché i termini che usiamo non sono privi di conseguenze, e come ben sappiamo le parole creano mondi, è nostro dovere scavare più a fondo nelle parole ‘meticcio’ e ‘meticciato’, entrambi termini carichi di ambiguità per via della loro derivazione storica che li posiziona nettamente in un’impostazione coloniale. Inoltre ci sono da considerare caratteristiche specifiche dell’Italia dovute alla sua posizione geografica che, paradossalmente, da un lato hanno reso le rivendicazioni di ‘bianchezza’ del territorio un po’ sospette agli occhi delle nazioni europee ‘più ‘pure’ e dall’altro costituiscono la base per una tendenza a giustificare il colonialismo italiano come meno duro di altri, proprio per la ‘mediterraneità’ del paese, quindi una sua maggiore propensione per il mescolamento.

 

Meticciato e (post)colonialità italiana

In Italia la storia di quegli incontri “pericolosi” (vedi il saggio di Vincenza Perrilli, “Relazioni pericolose” nel volume Il colore della nazione  per una visione complessiva della politica razziale del madamato, e il saggio di Tatiana Petrovich Njegosh “Il meticciato nell’Italia contemporanea. Storia, memorie e cultura di massa”  tra uomini italiani e donne eritree all’epoca coloniale – un fenomeno conosciuto con il nome madamato o madamismo –è stato caldeggiato un tempo da apologeti coloniali come evidenza dell’assenza di un diffuso pregiudizio razziale in Italia ovvero una comprensione popolare più fluida della differenza (vedere il lavoro di Giulia Barrera per questo punto di vista). La realtà più complessa, comunque è che in tutta la storia italiana la ‘mescolanza’ è stata considerata alternativamente o un problema o la soluzione a un problema nell’ambito della costruzione della nazione e dell’impero. Tutto questo si ricollega al progetto di unificazione e ai tentativi di definire il carattere razziale della nascente nazione italiana: dalla teoria di Lombroso delle due Italie (il nord ariano e il sud semitico) e il suo sostegno a certe forme di mescolamento “come mezzo per innalzare la razza”, alla teoria di Sergi di una razza mediterranea autoctona con origini africane (vedi studiosi quali Gaia Giuliani e Cristina Lombardi Diop , Fabrizio De Donno   e Vito Teti  per delle ottime panoramiche delle teorie razziali in Italia a cavallo tra 800 e 900). Tali ambiguità (che sono oggetto di indagine nella collettanea National Belongings: Hybridity in Italian Colonial and Postcolonial Cultures curata da Jacqueline Andall e Derek Duncan ) furono rispecchiate in varie politiche coloniali italiane nei confronti della razza messe in atto nei primi anni del novecento per verificare se i figli di coppie miste italiane ed eritree potessero essere classificati come ‘cittadini’ o ‘sudditi’. Alla fine, Fabrizio de Donno sostiene che l’istituzionalizzazione dell’arianesimo da parte del regime fascista – rispecchiato dalle notorie leggi razziali del 1938 – cercava di eliminare definitivamente il ‘problema’ del meticciato mettendo le unioni interrazziali al bando.

E’ precisamente per questo motivo che l’italianista Rhiannon Welch ha criticato la fretta con cui si è proceduto a etichettare la nuova produzione letteraria di migranti postcoloniali in Italia come letteratura ibrida in quanto il termine finisce per oscurare i rapporti di potere messi in questione dalla letteratura stessa – specialmente quando gli stessi testi vengono riformulati e sottoposti a un marketing che li indica come prodotti ‘pittoreschi’ ad uso e consumo di un pubblico di lettori prevalentemente bianco. Ispirandosi al lavoro di Robert Young, Rhiannon Welch scrive nel libro Intimate Truth and (Post)colonial knowledge saggio che appare nel citato volume di Andall e Duncan, che i “modelli attuali di convivialità culturale richiedono una reificazione della differenza per poter arrivare a una omogeneizzazione presumibilmente più gradevole, poiché è stata politicamente riconfigurata” (p.216).

Si potrebbe azzardare che le migrazioni postcoloniali degli ultimi quaranta anni verso l’Italia abbiano catalizzato una ‘crisi di identità’ profonda nel senso che hanno costretto l’Italia ad affrontare il proprio retaggio coloniale. Siamo quindi approdati a “L’impero colpisce ancora!”, come è stato riassunto una volta dagli studiosi del Center for Contemporary Cultural Studies. Una delle risposte è stata quella di argomentare che vi era qualcosa di diverso e di più benigno nel colonialismo italiano. Alessandro Triulzi  quando scrive del processo di revisione e rielaborazione della memoria coloniale italiana, lo descrive come processo in continuo movimento che “rimuove l’evento coloniale e lo diluisce in una foschia ibrida di nostalgia per il passato coloniale” (p. 441)

 

Ibridismo come fenomeno di cecità al colore della pelle improntato alla società post razziale

In questo articolo utilizziamo gli strumenti della critica, in particolare quelli radicati in generazioni di pensiero femminista, teorie queer e anticoloniali rivolgendoli a una disanima della nostalgia coloniale e neoliberista. Non è infatti raro che le analisi dell’ibridismo o del meticciato prendano le mosse da un testo pionieristico e spartiacque, ci riferiamo al libro di Gloria Anzaldua Borderlands/La Frontera. Desta però una certa preoccupazione il fatto che un numero allarmante di studiosi e commentatori tendano a dimenticare che la Anzaldua considera la figura della mestiza una che occupa una posizione privilegiata che le consente di vedere il mondo dalla prospettiva che abita la contraddizione e l’ambiguità piuttosto che risolverla. Come è stato rilevato dalla studiosa postcoloniale femminista Paola Bacchetta,  la Anzaldua aveva espresso il desiderio che il suo lavoro non “venisse citato fuori contesto” [p.114] ma nonostante questo avvertimento le parole della Anzaldua vengono appropriate per sostenere argomentazioni volte a “trascendere la differenza” tralasciando il fatto che lei avesse lavorato non su una mestiza astratta o metaforica ma basandosi sulle proprie esperienze incarnate nel corpo di una femminista lesbica di colore che resisteva la violenza delle frontiere attraverso la politica radicale di nominare se stessa.

Come ci viene indicato da studiose come Ella Shohat  e Sabine Broeck, esiste ancora una grande ambiguità concettuale quando si parla di ibridismo o meticciato. La Broeck scrive che “la questione se l’ibridità è per scelta o viene imposta, accettata o respinta è decisiva ma spesso rimane nascosta sotto una certa estetizzazione del fenomeno” . Tale ambiguità ha conseguenze pericolose in quanto estetizzando l’ibridità non si prendono in considerazione i rapporti di potere, si ignorano le orribili condizioni che rendono possibili molti casi di ibridizzazione, dalla violazione sessuale di donne schiavizzate alla brutalità delle pratiche coloniali di estrazione economica – le intimità grottesche della dominazione imperiale che sono sottovalutate e trattate alla stregua di “contaminazioni” pittoresche e perfino trasgressive.

Ma criticare invocazioni di meticciato improntate alla cecità verso la razza e di neutralità verso il potere, entrambe praticate dalla sinistra non significa cancellare la complessità delle identità collettive o individuali. Per fare un esempio, il campo di Critical Mixed Race Studies (che ammettiamo è un campo emergente e variegato che contiene al suo interno molti approcci metodologici e concettuali diversi, alcuni che tendono ad esaltare in maniera problematica la figura del soggetto misto post razziale) suggerisce che è possibile riconoscere la porosità e malleabilità delle categorie razziali senza per questo rinunciare ad affrontare le stratificazioni sociali basate sulla razza. La collettanea Global Mixed Race , ad esempio, offre numerosi e complessi casi di meticciato compresi i sistemi di dominazione coloniale in Brasile (paese che di solito viene caldeggiato come “l’esempio di successo dell’ibridismo”) nelle quali le persone di razza mista erano state sfruttate come “popolazione cuscinetto” per mantenere l’ordine razziale che separava le élite bianche dalle masse nere schiavizzate.

 

L’Italia e il problema dei modelli astratti

Naturalmente nei diversi paesi le problematiche relative alla razza e alle lotte contro il razzismo si manifestano con modalità specifiche dettate dai particolari sviluppi storici di ogni nazione. Gli esiti sono generalmente il risultato dell’intersecarsi di diversi fattori, compresi aspetti politici, sociali ed economici, rapporti di potere, il quadro complessivo internazionale, le correnti intellettuali e le narrazioni prevalenti sia nel paese di origine che nel paese di arrivo. In base al fatto che l’immigrazione su scala relativamente cospicua è un fenomeno abbastanza recente confronto a quanto è avvenuto nelle Americhe o in alcuni altri paesi europei, non dovrebbe stupirci se in Italia si cerchi di rifarsi alle esperienze di altri paesi cercando di prevedere quali possano essere i problemi e le opportunità offerte dal fenomeno. Quello che abbiamo però notato è una eccessiva attenzione ai “modelli”, anche quando si parla di volerne creare di nuovi adatti alla situazione italiana e volti ad evitare le trappole in cui sono incorsi gli altri paesi. Nell’affidarsi a “modelli” sia nel senso di adottarli o di rifiutarli spesso si ignora che molto del lavoro di arrivare a trovare modalità nuove di stare insieme viene forgiato nel contatto con le situazioni concrete che oggi possono essere molto diverse da quelle dei modelli e comprendono altri fattori quali il fatto che le migrazioni adesso si verificano sotto l’egida della globalizzazione neoliberista in un periodo di crisi economica e di militarizzazione dei confini, in un contesto di resistenza alla globalizzazione che talvolta assume la forma e i discorsi del nazionalismo, per non parlare del fattore migrazioni dovute ai cambiamenti climatici e ai disastri ecologici.

Ritornando però alla questione dei modelli, questi vengono menzionati in quasi tutta la letteratura relativa a migrazione. Una delle analisi e degli schemi più chiari relativi a tali modelli si può trovare nel libro del compianto sociologo Khaled Fouad Allam “L’Islam spiegato ai leghisti”: il modello “melting pot” degli USA (più una fantasia che una realtà come attestano le differenze nel potere detenuto dai diversi gruppi etnici, dal razzismo istituzionalizzato e dalla brutalità esercitata contro “le minoranze”, etc; il modello delle ‘comunità’ che vige in Gran Bretagna dove gli immigrati provenienti da paesi diversi (molti storicamente originari dalle ex colonie) formano comunità proprie e parallele, con diritti e doveri e poco scambio (nella realtà si verificano anche qui molti degli stessi problemi degli USA); e infine un modello presumibilmente ‘universalista’ impostato in Francia in cui le popolazioni immigrate – molte delle quali originarie dalle ex colonie- sono accettate purché rinuncino alla propria identità di origine e adottino una sorta di ‘francesitudine’ cieca al colore della pelle che sostiene di aver raggiunto il culmine della civiltà umana, così come questa è definita dalle sue rivoluzioni, dal laicismo, etc. (e anche questo “tipo ideale” vengono in mente le rivolte delle banlieu, le proibizioni contro il velo, etc).

Accanto a questi ‘modelli istituzionali’ esistono poi ulteriori modelli elaborati dal basso da chi lavora direttamente con i migranti: per una chiara esposizione vedere il seguente manualetto didattico della Cestim

Uno dei fattori che potrebbe forse spiegare questa eccessiva attenzione ai modelli in Italia e la propensione a spostarsi tra l’uno e l’altro potrebbe essere l’inversione tra ‘modello’ e ‘pratica’ , tendenza forse rafforzata dal fatto che i termini del dibattito sulle tematiche migratorie sono quasi sempre in mano a ‘esperti/e’ di carattere istituzionale, quasi sempre italiani/e e bianchi/e e non scaturiscono dal vissuto e dalle lotte concrete dei diretti interessati (cosa che invece accadeva per esempio nelle lotte per i diritti civili negli USA, nel Black Power Movement e in altre lotte dal basso che si sono succedute negli anni). Quindi avviene un’inversione in base alla quale il ‘modello’ diventa l’elemento principale piuttosto che l’analisi di condizioni materiali e degli esiti di lotte in base a una valutazione collettiva, viene meno l’importanza di apprendere delle ‘lezioni’ dalle lotte, a prescindere dalle retoriche di chi detiene il potere. Basti pensare che la retorica e le narrazioni del ‘melting pot’ negli USA e quella francese dell’uguaglianza – entrambe delle quali convenientemente ignorano il retaggio del colonialismo e dello schiavismo- sono state bersaglio della resistenza da parte di chi era coinvolto nelle lotte contro il razzismo, cosa che ha portato a coniare terminologie alternative forgiate nelle stesse lotte (ad esempio, il termine ‘intersezionalità’ che scaturisce dalle lotte delle femministe nere).

 

Meticciato: dalla valorizzazione della diversità alla sua ‘gestione’

A livello pratico, nel corso degli ultimi dieci-quindici anni, i termini ‘meticcio’ e ‘meticciato’ sono entrati a far parte del discorso e delle narrazioni dei movimenti antirazzisti in Italia, come pure delle istituzioni (probabilmente per influenza dell’ex Ministro dell’integrazione e ora parlamentare europea Cecile Kyenge, che ha anche popolarizzato la versione francese ‘mixité’ e ‘metissage, come pure per l’apporto di altre figure istituzionali e amministratori di ‘sinistra’). L’adozione di tale terminologia è stato un ‘passaggio evoluzionario’ rispetto ad altri termini ritenuti poco soddisfacenti come ‘multicultura’, pluralismo culturale’, intercultura, e ha provocato anche uno spostamento nella nomenclatura delle iniziative dal basso per opporre la xenofobia e il razzismo, come pure nuove designazioni per i prodotti culturali.

Un fenomeno parallelo si è verificato anche sul fronte letterario, dove la battaglia tra i termini si è basata maggiormente su teorie di critica letteraria e postcoloniale rivali, con spostamenti quindi da termini quali ‘letteratura migrante’ a ‘letteratura della migrazione’ a ‘letteratura interculturale’ a ‘letteratura mondo’ per arrivare alla dicitura in auge in questo momento: quella di ‘letteratura meticcia’, con la sottodivisione in ‘romanzo meticcio’.

Seguendo questo spostamento semantico, perfino le proteste organizzate per contestare politici xenofobi e razzisti come Matteo Salvini della Lega Nord a Piazza Maggiore a Bologna a Novembre del 2015, avevano come uno degli slogan principali “Bologna meticcia”. E questo ci porta alla quarta area di significato della parola ‘meticcio’ nel Grande Dizionario dell’Uso di Tullio di Mauro che lega il termine a un territorio in cui vivano persone di diverse provenienze, o persone che sono il prodotto di ‘incroci’ di popolazioni diverse. Sia il Grande Dizionario della Lingua Italiana di Battaglia sia quello dell’Uso concordano nel mettere ai primi posti il significato zootecnico dell’incrocio tra animali di diverse razze, per poi arrivare al prodotto dell’incrocio tra persone di razze diverse, il ‘meticcio’ mettendo in risalto anche le origini coloniali del termine. Il termine ‘meticcio’, spiega il dizionario, viene dallo spagnolo ‘mestizo’ (https://en.wikipedia.org/wiki/Mestizo), tracciandolo alle Americhe, in particolare all’America latina dove i Conquistadores elaborarono el sistema de castas un tentativo sistematico di classificare la popolazione in maniera gerarchica con in cima naturalmente l’europeo, poi i discendenti di europei nati nelle colonie, e quindi gli incroci degli europei con le donne indigene, con le schiave africane, con nomi diverse per le varie generazioni, etc. In quello che potrebbe essere interpretato come un raptus di didatticismo, nelle corti coloniali si assunsero pittori per dipingere quadri raffiguranti le diverse tipologie.

Nonostante la popolarità al momento dei termini ‘meticciato e ‘meticcio’ incominciano ad esserci alcune obiezioni e ripensamenti, come questa che si rileva nel blog connessioni precarie 

Parte del disagio avvertito in Italia nei riguardi della diversità (altro termine coniato negli Stati Uniti nel corso delle lotte antirazziste e successore del termine tolleranza) potrebbe essere in qualche modo legato alle due principali tradizioni culturali ed ideologiche delle quali sono eredi, cioè il cattolicesimo e il marxismo. La prima si basa su una modalità mediata di stare al mondo e di concepire la divinità attraverso appunto la mediazione del clero (o dei santi nella cultura popolare) e quindi, da una posizione di privilegio, percepisce l’Altro, lo straniero, l’ospite attraverso la lente della caritas, come persone bisognose, un punto di partenza piuttosto scomodo per arrivare a un concetto di uguaglianza di reciprocità. Ironia della sorte però è proprio alla Caritas come istituzione che si devono rivolgere gli eredi del marxismo quando cercano le statistiche sulla migrazione, in quanto il loro rapporto annuale contiene i dati più completi ed aggiornati perché è proprio la Chiesa ad occuparsi di buona parte dei migranti attraverso la loro capillare rete che si estende su tutto il territorio nazionale.

Quindi per i cattolici l’arrivo dei ‘migranti’ e la necessità di occuparsene rientra in una storia secolare di contesa tra Chiesa e Stato per avere il primato come istituzione addetta ad occuparsi delle esigenze e del controllo dei bisognosi (sia che si tratti di malati, di invalidi, di persone con malattie mentali, poveri, criminali, donne che non rientrano nei ruoli, etc) . Infatti l’accoglienza della Chiesa ha preceduto gli sforzi dello stato di emettere leggi e di creare strutture per gestire l’afflusso dei migranti. All’interno di questo quadro misericordioso sfuggono i contesti internazionali e le problematiche legate alla giustizia che costringono milioni di persone a lasciare la propria casa.

Non che la situazione migliori molto se passiamo ad esaminare il comportamento dello stato nei riguardi dei migranti negli ultimi 30 anni, infatti non si riscontrano sostanziali differenze tra l’operato dei governi di centro destra e quelli di centro sinistra che si sono succeduti in questi anni. L’approccio marxista elaborato nel 20 e 21 secolo in Italia specialmente per quanto riguarda il PCI e le formazioni partitiche che hanno raccolto la sua eredità dagli anni 90 in poi tendono a focalizzarsi non tanto sui bisogni ma sui diritti e i doveri, e in crescente misura su tematiche securitarie. In relazione alla questione dei diritti si tende anche a mettere in evidenza come la presenza di una sottoclasse come quella dei migranti possa costituire una minaccia ai diritti degli altri lavoratori (autoctoni) e alle conquiste sindacali, specialmente nel contesto della crisi economica. A questo bisogna aggiungere un certo disagio storico del marxismo ad affrontare quella che un tempo veniva eufemisticamente chiamata “la questione nazionale”, cioè come relazionarsi alle nazioni oppresse o alle minoranze all’interno di una nazione, e purtroppo il socialismo reale nella ex Unione Sovietica, o in Cina oppure a Cuba non hanno fornito soluzioni esemplari. In Italia in particolare vanno valutati anche i persistenti effetti della tendenza del ‘terzomondismo’, corrente molto forte nel marxismo italiano che ha un impatto sul modo in cui vengono visti i migranti oggi.

Un ulteriore elemento che potrebbe rafforzare l’attuale ‘disagio’ della sinistra di fronte a problematiche di razzismo e discriminazione potrebbe avere radici storiche, le più recenti nella sua riluttanza ad affrontare apertamente tali problemi durante le grandi migrazioni interne dal Sud dell’Italia al Nord, avvenute negli anni 50, 60 e 70 (probabilmente un tentativo di salvaguardare l’unità della classe operaia). Già nei primi decenni del 900 Gramsci ed altri intellettuali avevano scritto molte pagine definendo l’unificazione della penisola come processo coloniale (la famosa questione del Mezzogiorno). Nei 150 anni dall’unificazione vi è stata una saturazione del pregiudizio ideologico del nord verso il sud che si è manifestata anche in una certa riluttanza della sinistra istituzionale a tracciare una linea di demarcazione netta rispetto alla Lega Nord, specialmente all’inizio della sua ascesa ma anche negli anni a seguire (come dimenticare l’affermazione di D’Alema che la Lega è una costola della classe operaia, una certa bonarietà verso questa formazione anche più tardi quando conveniva dal punto di vista politico e perfino il tentativo di convincere che i “migranti” convengono agli italiani dal punto di vista economico).

A livello ancora più profondo, forse teorico, alcune di queste ambiguità vanno ricercate nella difficoltà del marxismo a riconoscere il valore della diversità come fenomeno a sé stante, come elemento di libertà che esula dalla centralità della classe operaia, dal discorso di diritti e doveri. Infatti si riscontra spesso in chi ha avuto una formazione marxista un certo sospetto di fondo verso le tradizioni e il pensiero che possono essere importati nella penisola dagli immigrati, specialmente in relazione a una minaccia alla laicità (e qui bisogna considerare il fatto che ci troviamo geograficamente nel paese che ‘ospita’ il Vaticano).

Lasciando alle spalle per un momento il discorso delle ambivalenze della sinistra italiana rispetto alla migrazione e al razzismo, soffermiamoci un attimo invece sulle lotte concrete nel settore agricolo, le ribellioni e rivolte, intraprese dai diretti interessati, i loro tentativi di formare sindacati, da Rosarno ai campi di pomodoro della Puglia e della Campania. La nascita di movimenti di lavoratori migranti improntati all’autonomia ha attirato l’interesse, simpatia e la solidarietà di molti giovani attivi nei movimenti antirazzisti e di solidarietà con i migranti. Questi sviluppi hanno anche suscitato l’interesse di numerosi studiosi anche stranieri che cercano di costruire lenti analitiche, paradigmi e metafore che si discostano da quelli tradizionali, ad esempio tutto il discorso su quello che Alessandra di Maio chiama “il Mediterraneo nero” considerato al di fuori della lente emergenziale. Tra questi studiosi si possono annoverare Heather Merrill, Federico Oliveri, Timothy Raeymaekers, e Gabriele Proglio che si basano sulle tradizioni del marxismo nero e altri approcci interdisciplinari e intersezionali che da tempo vedono l’interconnessione profonda fra le lotte contro il capitalismo, sessismo e razzismo.

Parte del lavoro di analisi delle debolezze delle pratiche e del discorso della sinistra nei confronti del razzismo, è stato affrontato al livello di critica del linguaggio dei media e di contesti istituzionali da studiosi e giornalisti italiani (tra cui Salvatore Palidda, Anna Maria Rivera, Giuseppe Faso, Giulio di Luzio) che fanno parte della tradizione marxista, particolarmente per quanto concerne il ‘razzismo democratico’. Ciò che emerge chiaramente è la necessità di addentrarsi in un’analisi più approfondita di tutti i fattori che concorrono all’attuale situazione italiana rispetto al razzismo e alla migrazione e superare i punti ciechi creati dalle ideologie. Questo è un compito particolarmente importante in un paese in cui lo Stato e la Chiesa continuano a dominare i discorsi sul potere a tutt’oggi, nel 21esimo secolo. Vista la complessità di queste problematiche questo articolo non può che fornire osservazioni iniziali e incomplete che necessitano di un’analisi approfondita, specialmente adesso che stiamo acquistando una certa distanza dalle pratiche e dai paradigmi del 20esimo secolo, e potremmo forse essere in grado di valutarne meglio gli effetti.

 

Resistenza e immaginazione radicale

Un importante effetto collaterale dell’analisi dei rapporti reali tra le persone, le loro reali differenze di potere quando le mettiamo a confronto con idee basate su pie illusioni è che sgombra il terreno per lasciare spazio al dibattito su che cosa significa l’esistenza di persone che detengono privilegi rispetto a tutto un altro gruppo di persone. Cioè, per esempio per chi è abituato a sentirsi ‘solidale’ si aprono degli spazi di sperimentazione e “brainstorming’ su cosa potrebbe significare invece agire come alleato, complice o con-cospiratore, tutto uno schieramento di figure che non possono emergere dall’attuale configurazione dei discorsi, delle narrazioni e delle pratiche, ma che costituisce un balzo in avanti necessario se desideriamo uscire dal pantano.

Oltre a quello che abbiamo discusso finora, cioè la necessità di un’analisi approfondita delle diverse sfaccettature del razzismo/migrazione in Italia, un’altra urgente necessità è quella sviluppare pratiche di resistenza, specialmente da parte dei diretti interessati. All’interno di queste auspicabili pratiche vi è l’importante componente della produzione artistica, con tutto il ruolo che essa può giocare come forma di resistenza ma anche come proiezione di un modo tutto diverso di rapportarsi tra persone, permettendo a tutte le potenzialità insite nella diversità di scaturire in pratiche di liberazione e libertà.

Alla possibilità di immaginare e di realizzare un mondo diverso ci teniamo accanitamente. Ma chiaramente non si tratta di trastullarci in un volontarismo fatto di utopie, fantasie post-razziali senza lotte concrete in mano ai diretti interessati, cioè coloro le cui vite sono rovinate da varie forme di violenza razziale. Riprendendo lo slogan del World Social Forum, un mondo diverso è possibile ma è tutt’altro che una mera inevitabilità dovuta alle macro forze dei cambiamenti demografici e dell’immigrazione – è un risultato per cui bisogna lottare strenuamente. Uno degli interstizi in cui abbiamo visto baluginare queste possibilità è il lavoro di un’associazione di giovani di area milanese il ‘Comitato per non dimenticare Abba e per fermare il razzismo’ , formatosi dopo l’omicidio del diciannovenne Abdul Guiebre nel 2008 (questo stesso gruppo ha anche organizzato una manifestazione per onorare Emmanuel Chidi Nnamdi quest’estate a Milano). Il comitato comprende sia i figli di immigrati che quelli di italiani autoctoni. Come hanno affermato in un’intervista in ottobre essi desiderano ricontestualizzare il concetto di meticciato, spostandolo da una connotazione di contaminazione e degradazione per invece scaricare le categorie discriminatorie di integrazione, immigrato ed extracomunitario costruendo al loro posto una nuova lingua che smantelli le strutture di potere interconnesse di razzismo, militarismo, fortificazione delle frontiere e capitalismo (per approfondire questo discorso vedere il capitolo di Annalisa Frisina e Camilla Hawthorne di prossima pubblicazione nel volume “A fior di pelle. Razza e visualità”)

Come è stato osservato da Sabine Broeck (http://www.brill.com/products/book/reconstructing-hybridity ) e altri studiosi, i Caraibi costituiscono un bacino fondamentale per la nascita di teorie che hanno sviscerato il concetto di ibridismo- perfino CLR James  argomentava che i Caraibi devono essere considerati come modo per riconcettualizzare la modernità lungo i nuovi rapporti che furono forgiati nella violenza dello schiavismo e del colonialismo. Edouard Glissant sosteneva che le forme culturali creolizzate creativamente nei Caraibi avrebbero potuto sfidare le fissazioni coloniali sulla purezza della stirpe, ma aveva anche avvertito che questo contatto transculturale era stato anche il prodotto della violenza coloniale. Per questa stessa ragione, Robert Young  si concentra sulla storia di violenza razziale di questo concetto, in modo che possiamo continuare a considerare la sua ambiguità politica e storica.

Dovremmo quindi ascoltare l’avvertimento di questi studiosi che ci indicano i pericoli del ricadere in versioni sterilizzate di ‘scambio’ – sia che si tratti di scambi coloniali di merci e di persone o il marketing neoliberista del ‘multiculturalismo’ o delle ‘culture etniche’ – in quanto continuano a fare affidamento su una sorta di desiderio coloniale di ‘impadronirsi’, ‘consumare’ o ‘possedere’ l’altro. Un esempio di un’artista che è stata vittimizzata da tale tipo di consumo ma che ci ha lasciato una produzione artistica che ci fa riflettere su tali processi è la compianta scrittrice etiope-italiana Carla Macoggi che ha pagato un prezzo altissimo per il meticciato storico in Italia. Nata in Etiopia da padre italiano e u madre etiope, era stata portata in Italia sotto circostanze sospette di cui lei, per la giovane età, ignorava la natura. Nei suoi romanzi ha fornito la cronaca della sua travagliata storia di identità e inganno, una storia alla quale ha scelto di non sopravvivere, ma che ci ha lasciato perché la potessimo sottoporre a scrutinio, forse come avvertimento, nei due romanzi “Kkeywa- Storia di una bimba meticcia” e “La nemesi della rossa”.

Per scongiurare questi esiti funesti è bene dare ascolto a quegli studiosi, scrittori, artisti e attivisti radicali che ci ricordano che se desideriamo parlare di ibridismo dobbiamo sempre farlo accanto a esempi di resistenza. Cioè la resistenza di popoli schiavizzati, colonizzati, e razzializzati contro i sistemi che hanno cercato e cercano tutt’oggi di annullarli e distruggerli. Una resistenza che elabora forme nuove e creative con le scarse risorse di cui dispone.

 

 

Nello spirito di assistere il processo creativo di cui sopra, lamacchinasognante.com lancia l’appello per continuare il dibattito con il contributo di lettori e scrittori sugli argomenti delineati nell’articolo, in forma di saggi o scrittura creativa. Desideriamo anche incoraggiare l’organizzazione di eventi che possano aiutare a discutere insieme di questi argomenti come è successo il 29 ottobre all’evento “Sprigionando pensieri” a Bologna e il 17 dicembre a Reggio Emilia nell’ambito dell’evento “La bellezza della diversità” organizzato da DiverCity Hub di cui forniamo un resoconto in questo numero de lamacchinasognante.com.

 

 

 

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CAMILLA HAWTHORNE  è dottoranda all’università di California Berkeley in Geografia. Attualmente abita in Italia. Scrive da molti anni su questioni di razza  e si occupa particolarmente del “Mediterraneo nero”. E’ attiva anche nei movimenti antirazzisti negli Stati Uniti e in Italia. E’ promotrice di progetti per educazione digitale ed è presente nei TED talks.

Foto in evidenza da articolo in Wikipedia.

Foto dell’autrice a cura di Camilla Hawthorne.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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