“Mediterranea” o della militanza poetica del rolling: intervista a Jonas Carpignano di Reginaldo Cerolini

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MEDITERRANEA O DELLA MILITANZA POETICA DEL ROLLING

In questo momento (6 nov. 2015 23.00) a Roma il regista Jonas Carpignano sta probabilmente considerando la ricezione di pubblico, giornalisti  e critici al il suo film Mediterranea . Chissà come è andata? Domando a me stesso ripensando a quando, ieri, sono dovuto uscire a fare due passi, subito dopo aver visto il suo film, mentre uno strano malessere mi aveva preso allo stomaco e come una corrispondenza mi ha fatto ricordare la stessa sensazione, 18 anni fa, quando lessi 1984 di Orwell. Era tempo che qualcosa non mi toccava così tanto da farmi sentire che l’aria non mi bastava, e che quella catarsi andava diluita almeno con una camminata. Ha avuto una simile reazione E. Nina Rothe che ha descritto, mirabilmente, le sue sensazioni davanti al film sull’HuffingtonPost (6 nov. 2015).

Ormai tra Italia, Francia, Germania, Stati Uniti il nome di Carpignano brilla come un segno sicuro. Lo dicevo a Pina (qui la macchinista madre) al telefono, mentre camminavo per la mia Arese, citando gli articoli, sicuro che, è un segno pieno di significato. Perché? Perché Mediterranea come atto terzo (o meticcia sintesi hegeliana) dei due prodromi, in corti, a Chijana e a Ciambra ha creato in Italia una poetica dei migranti, interna, articolata e resistente. Sembra strano, mentre continuano a morire (e chissà per quanto) nelle coste d’Europa, loro come altri in tutto il mondo nelle mai così tanto maledette frontiere. Eppure, per una volta, parliamo di quelli che ce l’hanno fatta e resistendo tentano di farcela. In molti hanno detto, lo stesso Carpignano, di Mediterranea che si tratta di un ibrido tra documentario e film. Io mi permetto di dissentire, solo per il dubbio velato che qualche critico possa azzardarsi a dire che tenda più al documentario, il cui valore, pertanto, si riduce alla poetica del contingente contro i tristi naufragi europei. Mah!… Si tratta invece di un film con piena dignità del mestiere: un film autentico. Per questo suo affondare la riflessione sulla narrazione di una esperienza da poco trascorsa, per i soggetti, e quindi vibrante ancora. Le persone recitano se stesse, con il beneficio di una situazione vicina all’intensità dell’appena vissuto o del quotidiano esorcizzabile. Da qui forse l’intensità enorme e la credibilità della finzione filmica. Un’opera quasi taumaturgica, credo, per i soggetti almeno. Il film sembra così un ponte, il ponte di Gioia Tauro, tra i migranti  dal sud del globo e una presunta europeità. Mi  fa ricordare un sogno a cui non avevo mai, prima d’ora, saputo dare un nome, un luogo. Nel sogno una voce diceva con forza “Porto di Gioia”: si spera. Si deve!

Intervisto Jonas Carpignano il mattino dell’11 novembre. Nonostante avessi pensato di fare l’intervista in inglese, parliamo in italiano. Ha una voce solare, un mix di accento americano e calabrese che danno alla sua cadenza un fascino particolare.  Su ogni domanda ha un esitazione pensante, breve e intensa come, se stesse rielaborando bene i contenuti più impliciti della domanda, poi risponde deciso e concisamente. Ogni tanto  esplode in una risata, con l’eco di un trillo nella voce che fa pensare ad un ruscello e il tono che segue è di una avvolgente e semplice umanità.

 

Le posso chiedere chi è?

Mi chiamo Jonas Carpignano e sono il regista di Mediterranea, ma questo lo sapevi( ride …) .

Che cosa non la avrebbe portata a fare il cineasta?

Sinceramente non lo so perché io sono nato e cresciuto nell’ambiente. Mio nonno, infatti, è stato un regista del Carosello negli anni 70’. Non intendo dire di essere stato uno di quei ragazzi in giro con la super 8 già in tenera età a girare filmati, però il mondo del cinema mi è sempre stato vicino.

Basta la curiosità per rimanere a Rosarno?

Personalmente vivo là non perché sono curioso ma perché mi trovo veramente bene. Quindi non si tratta più di una questione di curiosità. Ero andato giù per conoscere meglio la situazione dei fatti di Rosarno del 2010 ma, non credo che questo sarebbe bastato per rimanerci, per me non di certo. Se infatti non mi trovassi piacevolmente con la gente e con il mondo che là vivo, non ci starei. E’ ormai un mondo affascinante che mi appartiene.

Incontra relazioni tra il Bronx, dove è cresciuto, e il sud della Calabria?

E’ impossibile paragonare il Bronx alla Calabria, sarebbe troppo forzato. Sono, queste, due realtà e popoli completamente diversi. Io associo il Bronx alla mia infanzia, a vari amici mentre, la Calabria è un posto che ho conosciuto alcuni anni fa. Mi ha trascinato.

Che cosa insegna il cinema che non sappiamo?

C’è davvero qualcosa di cui non veniamo a conoscenza subito oggi … ?(ride), ormai le persone pensano di sapere tutto. Io credo che in risposta a questa sovrabbondanza di informazioni il cinema possa essere una sintesi, qualcosa che possa raccogliere per le persone un’esperienza, magari facendo avvicinare le persone tra loro.

Che cosa rappresenta Koudous Seihon, protagonista e soggetto da cui è tratta la storia, per lei?

… Koudous per me è un amico. Viviamo insieme. Non è una rappresentazione di niente. Se invece parliamo del suo ruolo all’interno del film, il termine ‘rappresenta’ è un po’ pericoloso nel contesto della migrazione perché lui non può su se stesso assumere la varietà delle esperienze di tutti i migranti in Italia. Koudous, nel film, fa vedere con il suo ruolo che i migranti non vengono in questo Paese a succhiare e sfruttare le nostre risorse ma, possono anche fare tanto dando un contributo a un luogo. Spero che la gente, conoscendo l’esperienza filmica di Koudous, percepisca che siamo fortunati ad avere immigrati nel nostro paese.

Attraverso la scelta di attori non professionisti, il suo film indipendente restituisce una misura corale delle narrazioni individuali; come è giunto a questa scelta?Attraverso due vie. A livello cinematografico sono sempre stato ispirato dal Neorealismo, per l’influenza di mio nonno che mi ha sempre fatto vedere i film di Visconti, Rosellini. A me piace molto il modo di fare del Neorealismo. La scelta di usare non professionisti parte da lì. Dall’altra parte raccontando di fatti reali è stato per me importante dare la parola e l’opportunità alle persone che vivono, tutt’ora, questa realtà di esprimersi. Era più giusto lasciare a loro la parola, senza filtrare invece, in modo artificiale.

Qual è la sua impressione rispetto alla ricezione di pubblico e critica sia sul suo lavoro sia sulla tematica?

Questa è una domanda difficile, essendo questo un film del momento, per motivi che sono leggermente lontani dalla realtà del film. Il momento storico che stiamo attraversando è focalizzato sulla questione dei profughi mentre il mio film parla più degli immigrati. E’ vero che tra questi due termini ci sono somiglianze, però sono categorie diverse. Io credo che la gente, soprattutto, risponda bene all’umanità della storia. Si tratta di un film, che senza retorica né intenti didattici  vuole parlare di una persona. Credo che questo venga apprezzato. Un atteggiamento dunque di riflessione e un senso critico che dovremmo avere anche verso la cronaca e le statistiche, consapevoli che dietro a tutti questi articoli sui profughi e immigrati ci sono esseri umani.

Da un punto di vista cinematografico, quando la gente riesce a capire chi sono le persone che hanno mosso la mia riflessione io, sono contento perché vuol dire che il messaggio è arrivato.

I movimenti della telecamera –quel rolling- sono proverbiali, come è arrivato a questa scelta?

Insieme ai tecnici, volevamo essere sempre attaccati al punto di vista del protagonista  Ayiva per evidenziare e dare più peso a quello che lui vede. Sin dall’inizio, quando ancora stavo scrivendo le scene, ho sempre voluto privilegiare le immagini secondo la sua prospettiva. A chi mi dice tecnicamente “perché nel deserto e nel mare non mostri il campo largo dei posti?” io rispondo sempre che quando tu – come emigrato- fai direttamente questi viaggi non te ne frega niente della bellezza dei posti ma, invece ti concentri sugli spostamenti, sulle persone  e le difficoltà. Persino quando ci sono, effettivamente, dei campi larghi noi abbiamo cercato di mantenere una sorta di tensione, attraverso  un movimento della telecamera. Abbiamo cercato di usare i movimenti e gli spostamenti della telecamera come se fossero legati emotivamente al protagonista Ayiva.

L’uso della musica nei suoi lavori ha una polivalenza semantica che non ho mai riscontrato altrove, da dove nasce ?

Per me è fondamentale, quando fai un film, usare le musiche che le persone ascoltano. Il fatto che io conosca Rachmaninoff non si lega molto, secondo me, alla realtà di certi contesti narrati, se per esempio devo parlare della storia di un bambino rom, perché risulterebbe forzato. Anzi, per mantenere quell’atmosfera e sapore che appartiene ai personaggi e diminuire lo stacco dalla prospettiva del regista, si deve entrare nel mondo dei personaggi con le loro musiche.

Si può dunque dire, in riferimento a questa sua scelta, che ci sia una sorta di critica o superamento rispetto a come il Neorealismo trattava invece la tematica da un punto di vista musicale rimanendo in qualche misura classico. Qui, con la sua scelta registica di inclusione, abbiamo anche la musica come testimone oggettivo della realtà dei soggetti narrati. Dico bene?!

Certo, come dici tu c’è sempre un avanzamento. Il neorealismo, infatti, è nato molto tempo fa e nel frattempo il dialogo del cinema mondiale è andato avanti, così come l’uso della musica popolare è entrato nel modo di fare cinema. Sono convinto che gli stessi registi neorealisti, se fossero qui oggi, userebbero anche loro musica popolare nei loro lavori. Io non mi ritengo un neorealista tassativamente legato  a quelle scelte musicali che fecero, questo perché siamo andati progressivamente avanti  e  ormai anche la musica pop e popolare appartiene al cinema.

Lei ha raccontato coloro che in qualche modo ce l’hanno fatta a superare i confini, ritiene che sia possibile raccontare anche i morti e i naufraghi?

Noi sappiamo ormai ogni giorno che ci sono morti e statistiche. Per me è stato importante, come lo è tutt’ora, concentrarmi su quello che succede dopo queste tragedie. Questo perché sembra invece che vogliamo dimenticare quelli che sono riusciti a venire qui nel nostro Paese e ci sono ancora. Certo è ovviamente importante parlare della gente che muore, ma questo è una cosa che la gente sa. Non è necessario raccontare quello che la gente già conosce, perché dopo si diventa didattici.

Lei dice bene, la sovrabbondanza di notizie ci distacca da un punto di vista emotivo e del significato. Io però intendevo chiederle se invece, una riflessione filmica possa aiutare a comprendere il senso e il peso emotivo di una morte?

Assolutamente sì, ma la gente capisce quello che succede. Io non so quanto sia utile e necessario rinforzare l’emozione di quando uno muore. Non conosco infatti una persona che non sappia cosa voglia dire perdere qualche caro, quello che invece non sappiamo è come vive una persona che in questo paese cerca di sopravvivere. E’ forse questo ad essere più lontano e più specifico.

Quali sono le cose a cui sta attualmente lavorando?

Sto preparando un film ambientato nella comunità rom a Gioia Tauro. il film parla di Pio questo ragazzo che è il protagonista del cortometraggio Chambra; sto lavorando con lui adesso. Spero di incominciare le riprese  del film nei prossimi mesi.

Ho concluso le domande e la ringrazio.

Senti ho io una domanda, tu non sei brasiliano ma sei milanese?! (ride)

Io (rido) Per via del mio accento?

Mi avevano detto che sei brasiliano.

Io. E’ perche’ sono cresciuto in Italia come figlio adottivo. Volevi un accento più brasiliano? (lo accenno…)

(ride) Ero leggermente confuso, ma ora ho capito.

11 Novembre 2015 Arese

 

Notte tra 6,7 nov. 2015 Arese (00.34) Licenza Creative Commons  Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale.

 

 

Foto in evidenza di Melina Piccolo

Riguardo il macchinista

Reginaldo Cerolini

Nato in Brasile 1981, Reginaldo Cerolini si trasferisce in Italia (con famiglia italiana) divenendo ‘italico’. Laureato in Antropologia (tesi sull’antropologia razzista italiana), Specializzazione in Antropologia delle Religioni (Cristianesimo e Spiritismo,Vipassena). Ha collaborato per le riviste Luce e Ombra, Religoni e Società, Il Foglio (AiBi), Sagarana, El Ghibli . Fondatore dell’Associazione culturale Bolognese Beija Flor, e Regista dei documentari Una voce da Bologna (2010) e Gregorio delle Moline. Master in Sceneggiatura alla New York Film Academy e produttore teatrale presso il National Black Theatre. Fondatore della CineQuartiere Società di Produzione Cinematografica e Teatrale di cui è (udite, udite) direttore artistico. Ha fatto il traduttore, il lettore per case editrice, il cameriere, scritto un libro comico con pseudonimo, l’aiuto cuoco, conferenziere, il commesso e viaggiato in Africa, Asia, Americhe ed Europa.

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