MASCHERA E MASCHERAMENTI FEMMINILI (II parte) – Paola Piizzi Sartori

copertina

La maschera Mende ovvero le società segrete femminili

L’unica tradizione legata all’uso della maschera riservata alle donne in Africa è reperibile fra le tribù che abitano il confine fra la Sierra Leone e la Liberia, cioè i Mende, i Terrine e i Sherbro. Presso di loro l’autorità politica appartiene al capofamiglia, proprietario delle terre, e al capo del villaggio. È impensabile per le donne di questi paesi diventare adulte senza acquisire tutti i segreti dei riti d’iniziazione che producono le metamorfosi nel corpo e nello spirito ritenute necessarie per sposarsi, avere figli e partecipare alla vita culturale della comunità.

Le donne fanno parte di una società segreta chiamata Sande, controparte della società maschile di nome Poro, ove è presente come entità sia reale che fantastica. L’origine del diavolo dei boschi, o meglio della donna-diavolo, risale all’Ottocento, ma l’argomento è ancora attuale: la maschera rappresentava grandi valori morali e di costume eppure si continua a identificare la donna con il diavolo; per esempio, nel vocabolario dei Vai, il termine “nou” (diavolo) viene tradotto come “donna mascherata che nelle cerimonie Sande rappresenta il diavolo”.

La società segreta chiamata Bundu o Sande (anche se Sande, per alcune popolazioni, denomina solo la società e Bundu il boschetto dove la società si riunisce, invalicabile per i non adepti) riveste una funzione di grande importanza in quanto, oltre all’amministrazione della giustizia, è anche deputata alla cura dei riti di iniziazione ed è la sola società segreta di donne che dispone di una maschera nettamente caratterizzata. L’obbligo del segreto è molto importante e ogni mancanza viene severamente punita. L’iniziazione delle adolescenti allo status di donne adulte avviene attraverso una vera e propria scuola, custode e depositaria del sapere tradizionale; quanto si apprende è tutelato dal giuramento di segretezza che dura tutta la vita e vincola anche moralmente, per cui un ricercatore non può mai essere sicuro di quanto gli viene detto.

Durante l’iniziazione nel boschetto, la maschera appare tre volte a significare i passaggi più importanti. Uno di questi è la clitoridectomia ma, non essendo considerato un avvenimento lieto, la maschera non danza, esprimendosi solo in pantomima. Due settimane dopo, quando le ferite si sono cicatrizzate, la maschera riappare per annunciare che la ragazza ritornerà al villaggio. I parenti donano riso, olio, pesce e piante medicinali da portare al boschetto e, quando il giorno dopo le ragazze tornano con il viso e la parte superiore del corpo imbiancata dall’argilla, ha inizio una grande festa che dura tutta la notte. Le ragazze vi partecipano, ma in modo composto e disciplinato e lasciano il villaggio durante la notte. La terza volta segna il rientro definitivo in comunità delle ragazze che la avevano lasciata con il rango di bambine e vi tornano come donne. È una festa molto grande: comincia con il lavaggio rituale per rimuovere l’argilla bianca che indica “la rinascita alla vita”, quindi il corpo è unto d’olio in modo che il nero risplenda.

A proteggere il segreto del boschetto concorre anche Hale, la potenza chiamata anche “medicina”, che abita nel profondo delle acque, amica della società Sande, la quale è in grado di usarla e ne conosce la forza distruttiva anche a distanza. Le giovani iniziate devono prendere la “medicina” (un insieme di erbe cui attribuiscono il potere di ucciderle qualora ne violassero il segreto) insieme a un’altra “medicina” appesa al collo o al polso in un corno di tritombo (piccolo di antilope), che estende il suo potere su chi volesse indagare sui segreti della società o amoreggiare con una giovane donna.

Hale è presente anche nella maschera lignea femminile che, con il nome di Ngafa, rappresenta lo spirito, la forza che trasforma una giovane in donna. Le ragazze così mascherate attraversano il villaggio relazionandosi solo con gesti e danze allo spazio architettonico e agli spiriti presenti. La società segreta Sande forma anche le giovani al futuro ruolo di spose e madri; a volte, l’uscita dalla scuola “del boschetto” è subito seguita dal matrimonio. L’apprendistato appare duro ai nostri occhi perché contempla una ferrea disciplina, il rispetto per i vecchi, la modestia, oltre al ballo e alla danza. La durata di questa “scuola” variava da sei mesi ai tre anni, ora si limita alle vacanze scolastiche. L’età per l’ammissione è tra i sei e i dieci anni, salvo circostanze particolari.

La maschera, nel rito Sande, viene usata anche per i funerali dei suoi membri più importanti, per visite di personalità, per solennità e feste: questo uso profano serve a conferire più importanza all’evento diventando simbolo di armonia, legalità e moralità. Non mostra a priori la sua potenza, ma se un uomo si avvicina troppo al “boschetto” o tenta di sedurre una giovane Sande, la maschera appare improvvisa nel villaggio e, diventando grottesca, si avvicina all’uomo, indicandogli il boschetto con il dito a significare che, come colpevole, deve rimediare – cosa che avviene senza indugio e può risolversi nel pagamento di un’ammenda.

È interessante notare che la maschera appare anche durante l’iniziazione dei giovani maschi e nelle feste ufficiali della società maschile, il Poro, dove si trasforma in bastone scolpito a forma di testa che serve a cadenzare il ritmo della danza. La maschera Sande è una grande testa femminile ad elmo che acconcia chi la indossa: il viso ha una grande fronte bombata con losanghe ed emerge da un gran collo piegato da anelli circolari sovrapposti che evocano colli adiposi simboli di prosperità.

Una vecchia leggenda Mende narra che le prime maschere delle società segrete giacevano sul fondo di fiumi e laghi; i membri del popolo Vai asseriscono che le loro non sono opera di umani, ma provengono dal mondo degli spiriti. Anche il legno non è impiegato a caso, ma viene inteso come materiale vivo che continua a contenere la linfa possente dell’albero da cui proviene.

Le maschere bundu, che si differenziano per le acconciature, segnano il passaggio dall’adolescenza con scarificazioni evidenti ed esprimono lo spirito propizio alla fecondità; la danza viene eseguita dalle donne più vecchie che hanno raggiunto un grado elevato nella gerarchia bundu. Sono maschere di straordinaria bellezza, create in legno solo da scultori maschi che si spostano di villaggio in villaggio, colorate di nero – il colore della vita -, strofinate con olio di palma e realizzate seguendo schemi propri delle società segrete, che però lascia spazio alla fantasia dello scultore per quanto riguarda acconciatura dei capelli e ornamenti. Chi commissiona la maschera conosce bene i dettami della società segreta Sande e il dibattito con lo scultore sulla miglior realizzazione può durare giorni e giorni: gli elementi decorativi – come gli anelli attorno al collo, le acconciature, le scarificazioni, i talismani e altro – sono dettati da precisi parametri che, nel contesto culturale, consentono di comunicare una serie di valori.

A volte viene richiesto il rifacimento di una maschera vecchia o sciupata e qui sta l’abilità, intesa come magia, dello scultore che deve saper riconoscere il soprannaturale. Egli non profanerà mai il proprio mestiere creando oggetti di uso quotidiano come coltelli, pettini, ecc, ma dedicherà la vita a queste maschere scolpendo “senza riflettere, spinto da un’ispirazione interiore”.

Le ragazze iniziate abbandonano la loro identità durante il periodo di apprendimento e rinascono assumendo il nuovo nome e la proprietà della maschera assegnata loro dalla società.

L’iniziazione Sande dava un grande prestigio sociale e diversi privilegi. Le maschere copricapo degli spiriti, chiamate Sowei dai Mende, rappresentavano un modello ideologico e un prototipo di bellezza femminile. Le Sowei sono composte, oltre che dalla maschera vera e propria, anche da un grande costume conico fatto di balze di fibre che copriva quasi interamente il corpo. In nessuna altra parte dell’Africa è finora documentata la presenza di società esclusivamente femminili con riti propri.

               L’estetica in epoca moderna

Come la maschera Sande per le donne Mende, anche il velo islamico possiede un enorme valore simbolico per le donne musulmane. Nelle civiltà occidentali viene spesso inteso come limitazione, mentre fonti giuridiche islamiche riportano l’immagine di una donna “protetta” più che “discriminata”.

Il velo, diffuso nel mondo musulmano (haïk nella tradizione algerina, chador in Iran, burqa nel subcontinente indiano e così via) non fu introdotto dall’Islam, ma ripreso dalla tradizione bizantina per diventare il simbolo dello status del padrone di casa, a indicarne una posizione economica tale da poter tenere la moglie e le figlie a casa a garanzia dell’onore della famiglia. Il velo, cioè, sancisce la separazione tra il pubblico e il privato, l’esterno e l’interno, l’esclusione della donna; simbolizza la segregazione dei sessi, che può spingersi agli estremi con il burqa imposto dai taleban, ma risponde comunque sempre allo stesso principio. Questo è normalmente di color marrone o arancio e rappresenta quattro aspetti importanti nelle società beduine:

  1. modestia: dopo la pubertà, il viso di una ragazza non deve essere visto da uomini non appartenenti alla stretta cerchia familiare;
  2. dote matrimoniale e stato sociale: l’ammontare dell’argento che una donna può mostrare sul proprio corpo è motivo di orgoglio;
  3. estetica: le donne considerano il velarsi come parte vitale del loro modo di intendere la bellezza e l’adornarsi;
  4. religione e magia: gli ornamenti cuciti o tessuti nella maschera facciale hanno le funzioni degli amuleti per il hijab.

Per esempio, il turchese serve per tenere lontano l’occhio diabolico, la corniola per la fertilità, il corallo aiuta a raggiungere la prosperità e l’ambra la buona salute. L’amuleto che pende al centro del burqa porta l’augurio generico di buona sorte ed è lo stesso che si può ritrovare sui vestiti dei bambini o appeso agli specchietti delle auto o ai mobili di casa. È a base triangolare con tre sezioni di perline colorate, specialmente blu, che formano i numeri 1, 3, 7 o 12, separate tra di loro da asticciole di legno e terminanti con frange o monete.

Un tipo più leggero di maschera facciale è in uso presso le donne beduine nel sud della Palestina e nel Sinai. Consiste in una fascia da capo di seta tessuta a mano dalla quale pendono delle monete; dal centro parte un’altra fascia di cotone completamente ricoperta da monete turche che poggia sul naso e sotto gli occhi. È assicurata con stringhe che si allacciano dietro il capo e lascia visibile la bocca e gran parte della faccia; dalle tempie pendono lunghe catene spesso terminanti con pendenti, palline, campanelli o filamenti di vetro blu.

In Iran, invece, per coprire il viso, è in uso una mezza maschera di stoffa, il borqhà, sulla cui origine si possono esprimere solo delle ipotesi come, ad esempio, motivi religiosi o sociali. Per indicare la situazione della donna nella società, infatti, ne esistono vari tipi: le donne sposate indossano un borqhà molto raffinato, con particolari cuciture e decorazioni dorate mentre, in corrispondenza degli occhi, i fori hanno forme affascinanti e sono molto larghi, in modo da attirare l’attenzione degli uomini. Le ragazze nubili, le donne di mezza età e le vedove hanno poi un proprio borqhà, tipico della rispettiva condizione sociale, per permettere agli uomini di identificare subito lo status della donna.

Più semplicemente, inoltre, il borqhà è utilizzato anche per riparare il volto dal caldo e dal vento. In particolare, infatti, nella zona meridionale dell’Iran (Ese Jask, Minab) e nel Sistan (sud-ovest), la presenza di frequenti tempeste di sabbia e di alte temperature richiede un materiale molto rigido e resistente, e i fori in corrispondenza degli occhi sono dunque molto stretti. Il borqhà di queste zone è di colore rosso. Per dipingere le stoffe vengono adoperati colori chimici e un accorgimento per mantenerlo più stabile sul viso è quello di fissare un pezzetto di cartoncino sulla parte interna del naso.

Nella nostra società occidentale ritroviamo esempi di maschera di uso quotidiano nel Settecento: la bautta veneziana. Tale maschera non si limitava al solo periodo del Carnevale, ma era tollerata per molti mesi all’anno, a dimostrazione del fatto che era diventata ormai una sorta d’abito d’uso corrente. Era costituita da una sorta di cappuccio in seta nera o merletto (bauta de merlo) e da un mantello, nero anch’esso, che copriva metà figura (zendal). Sopra il cappuccio, calato sul capo, calzava il tricorno, tipico cappello in uso nel Settecento, indossato indistintamente da uomini e donne. Il volto veniva coperto con la cosiddetta larva, maschera che aderisce al volto sulla fronte e sul naso, ma non sul mento, in modo da permettere di bere e mangiare senza toglierla. Esclusivamente di uso femminile, invece, era la moretta, maschera ovale di velluto tenuta aderente al volto mediante un bottoncino interno da reggere tra i denti.

Al giorno d’oggi, invece, la maschera fa capolino nella pubblicità e nei film – cioè, più in generale, nell’immaginario collettivo quotidiano – i quali traggono spunto, senza averne consapevolezza, dal nostro plurimillenario bagaglio culturale e sociale. Per la promozione di vari prodotti, alcune modelle portano sul volto, ad esempio, indumenti intimi ricamati o di pizzo, quindi molto attraenti, o maschere di cristalli Swarowski che puntano l’attenzione sullo sguardo: la vera maschera che l’immagine propone è quella della donna seduttiva. Diversamente, alcune maschere dei carnevali vengono usate per pubblicizzare la genuinità e la tradizione di alcuni prodotti locali (formaggi, scarpe ecc)

II corpo e la maschera: la maschera neutra

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Quando Jacques Copeau, drammaturgo francese, fonda agli inizi del Novecento il Teatro del Vieux-Colombier, vengono poste le basi per l’utilizzo della maschera come mezzo teatrale per condurre gli attori alla familiarità con il proprio corpo.

Secondo Copeau, il corpo umano è fatto per esprimersi nello spazio. Ciò si può vedere nell’arte dell’attore/attrice con maschera quando interpreta un personaggio e scopre in essa un’insospettabile energia fino ad allora sconosciuta. Il suo corpo si trasforma, subisce una metamorfosi, la sua identità cambia in quella del personaggio.

II gesto e la voce vengono dettati dalla maschera. L’attore/attrice è chiamato a immaginare e a costruire la personalità e la storia del personaggio, così come dovrà immaginarne e costruirne anche l’aspetto fisico. L’interazione tra l’attore/attrice e il personaggio comporta un doppio sforzo che rivela l’interprete e, al tempo stesso, lo nasconde dentro il suo ruolo. Realizzare un personaggio significa quindi, sostanzialmente, subordinare i gesti, la mimica, il corpo e quant’altro ai tratti ritenuti caratteristici e rivelati prima di tutto dall’immagine fisica. La scoperta, o riscoperta, dell’attore/attrice come entità plastica tridimensionale (Mejercho’d) fa diventare centrale per la prima volta il problema della sua educazione corporea, molto marginale e secondario nella formazione teatrale tradizionale.

Il Teatro del Vieux-Colombier è stato il fulcro di questa nuova concezione e ad esso sono legate le personalità più importanti della scena teatrale del periodo. L’attore e regista Charles Dullin vi ha affiancato Copeau fino al 1921, mentre Etienne Decroux è uno degli allievi più sorprendenti, che da subito fa propria la consapevolezza secondo cui bisogna nascondere il viso per ritrovare la gestualità. Copeau confeziona, secondo una propria tecnica sperimentale, maschere di cartone dalle vaghe sembianza antropomorfe, senza espressione, che devono servire agli attori per esprimere le emozioni esclusivamente con le movenze del proprio corpo. Jean Dasté, allievo e genero di Copeau (ne ha sposato la figlia Marie-Hélène), fonda a sua volta nel 1945 una sua compagnia, Les Comédiens de Grenoble, di cui entra a far parte un giovane mimo, Jacques Lecoq.

Lecoq più di tutti ha contribuito a diffondere il mimo come tecnica di base per la formazione dell’attore. La tecnica di Lecoq verte, nella fase iniziale, su punti che precedono il dialogo e il personaggio. Nel suo disegno pedagogico la maschera neutra occupa un posto preciso e importante, prima e più delle altre. Prima di mettersi la maschera-personaggio, gli allievi vengono familiarizzati con la “maschera neutra”; lo scopo è liberarli da condizionamenti e abitudini e insegnargli a limitare l’uso del corpo. Lecoq parla della maschera neutra come di qualcosa che tende verso un fulcro che non esiste:

È la maschera base che piloterà poi le differenze dalle altre maschere. È con lei che si sapranno portare tutte le altre. È una maschera senza un’espressione particolare, senza un personaggio tipico, che non ride e non piange, che non è triste né allegra, che appoggia sul silenzio e sullo stato della calma. La figura dev’ essere semplice, regolare e non offrire conflitti.

La maschera neutra può essere sia maschile che femminile, ma si è preferito privilegiare l’aspetto femminile perché maggiormente inerente al tema di questa conferenza.

Meglio di chiunque altro, Lecoq, è riuscito a definire lo stato neutro di chi recita, come, appunto, lo si realizza con le maschere. Questa è la definizione che ne da Lecoq:

La maschera neutra è un oggetto particolare: è un viso, definito neutro, in equilibrio, che suggerisce la sensazione fisica della calma. Questo oggetto che si mette sul viso deve permettere a chi lo indossa di raggiungere lo stato di neutralità che precede l’azione, uno stato di ricettività riguardante ciò che circonda, senza conflitti interiori. Si tratta di una maschera di riferimento, una maschera di base, una maschera d’appoggio per tutte le altre. Sotto ogni maschera, infatti, espressiva o della Commedia dell’arte, ne esiste una neutra che ne regge l’assieme. Quando gli allievi avranno sperimentato questo stato neutro di partenza, il loro corpo sarà disponibile come una pagina bianca sulla quale si potrà scrivere il dramma.

La maschera neutra non ha niente a che fare con quella che modella il viso reale di una persona che sta riposando: non sarebbe che una maschera mortuaria. La prima volta che si mette questa maschera, essa sembra un oggetto eterogeneo che dà fastidio, soffoca. Poi a poco a poco, sentendosi nascosti, ci si comincia a muovere diversamente che nella vita. Infine, una volta abituati alla maschera, si arriva a una nuova libertà, più grande di quella conosciuta viso scoperto. Spogliati del nostro proprio viso e delle nostre parole – che sappiamo usare molto bene nei rapporti sociali – il corpo è il solo a portarci nel silenzio e noi cominciamo a sentirlo come un avvenimento. Con il corpo, senza più imbrogli, la maschera neutra che credevamo fatta per nasconderei, ci mette a nudo. Il nostro volto-maschera della vita quotidiana è caduto, il ruolo che giocava non ha più senso.

Una buona maschera neutra è difficile da realizzare. Naturalmente non ha niente a che vedere con le maschere bianche utilizzate nelle sfilate o nelle manifestazioni. Quelle sono maschere di morte, esattamente il contrario del neutro.

La scuola di Lecoq e le scuole teatrali utilizzano le maschere neutre femminili e maschili in cuoio create dagli scultori Amleto (1915- 1962) e Donato Sartori1, che derivano dalle maschere nobili di Dasté, un po’ “giapponesizzanti”, e hanno in comune con la neutra il fatto di essere maschere di calma, senza espressioni particolari, in stato di equilibrio. Lecoq e Amleto Sartori si incontrano nel 1948, quando entrambi vengono chiamati a tenere dei corsi (sul movimento del corpo il primo, sulla storia dell’arte e modellazione delle maschere il secondo) per il Teatro dell’Università di Padova, fondato e guidato da Gianfranco De Bosio. È proprio da questo connubio che nasce la moderna concezione di maschera neutra.

Una maschera neutra, come d’altronde tutte le maschere, non deve aderire completamente al volto, ma conservare una certa distanza che permette all’attrice di recitare. La maschera neutra sviluppa essenzialmente la presenza dell’attrice in relazione allo spazio che la circonda. La mette in una condizione di scoperta, di apertura, di disponibilità a ricevere. Le permette di guardare, capire, sentire, toccare le cose elementari con la freschezza della prima volta. Si entra nella maschera neutra come in un personaggio, con la differenza che qui non c’è un personaggio, ma un essere generico neutro. Un personaggio ha conflitti, ha una storia, un passato, un contesto, passioni. Al contrario la maschera neutra è in uno stato d’equilibrio, di economia dei movimenti: si muove appena, nell’economia dei suoi gesti e delle sue azioni. La maschera neutra, appunto, non caratterizza un personaggio come le maschere della Commedia dell’Arte, ma conferisce all’attrice la più grande neutralità con la cancellazione del volto, dello sguardo, delle emozioni, della parola: serve a concentrare l’espressione creativa sul corpo. La maschera neutra mette a nudo il corpo dell’attrice, non parla, non esiste mimica facciale, ogni gesto del corpo sarà sentito in maniera consapevole, permetterà all’attrice di manifestare tutta l’interiorità e la spiritualità che possiede, psiche, passione…

La maschera neutra rivela, unifica attraverso il corpo, il suo apporto è poetico ed emotivo: con essa, calma e silente, il più piccolo movimento del corpo assume la massima importanza. La maschera neutra è azione, energia, pulsione di vita, ritorno al primitivo contatto con la materia. E la materia stessa si appropria del corpo dell’attrice, consente di cogliere l’essenza stessa di ciascun gesto, di ciascun moto, di ciascun silenzio. La maschera neutra, se guarda il mare, diventa mare – il corpo è il ricettacolo dei segni dell’universo custoditi dalla storia dell’uomo.

Sotto una maschera neutra il volto dell’attrice scompare e si percepisce molto più chiaramente il corpo. Si parla generalmente a qualcuno guardandolo in viso: con la maschera neutra è l’intero corpo dell’attrice che viene guardato. Lo sguardo è la maschera e la faccia è il corpo. Quando l’attrice si toglie la maschera, se la ha portata bene, il suo viso è disteso. La maschera ha estratto da lei qualcosa che la ha privata di ogni artificio: possiede allora un viso bellissimo, disponibile.

Le maschere riprodotte in questo saggio sono soggette a copyright e appartengono alla Collezione Sartori, Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”, Abano Terme (Padova).

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Paola Piizzi Sartori, laureata in Architettura all’IUAV (Università di Venezia) nel 1981 e’ attualmente direttrice del Museo Internazionale della Maschera Amleto e Donato Sartori. Ha fondato il Centro Maschere e Strutture Gestuali assieme a Donato Sartori e Paolo Trombetta nel 1980. Successivamente ha progettato, ideato e allestito mostre in tutto il mondo sulle maschere della famiglia Sartori e mascheramenti urbani diretti dal marito Donato Sartori. Insegna dal 201 Mascherologia ed elementi di Storia teatrale presso il DAMS di Padova. Tiene e promuove seminari di etnologia e arti visive legati alla storia della maschera con conferenze e corsi formativi sia in Italia che all’estero. E’ autrice di vari articoli, saggi e testi sulla storia della maschera teatrale e rituale, dalle origini ai giorni nostri. Attualmente si interessa e indaga sulla storia mondiale della maschera e mascheramenti femminili.

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

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