MASCHERA E MASCHERAMENTI FEMMINILI (I parte) – Paola Piizzi Sartori

arlecchino sartori-2

 

 

II mio primo incontro con la maschera risale agli anni ‘80, durante un viaggio di studio con Donato Sartori in Indonesia. Incontro fortuito come spesso sono gli episodi che marcano profondamente la nostra vita e il nostro lavoro. Mi ritrovai subito, e con piacere, immersa in quel mondo che l’essere umano conosce da sempre, perché da sempre ha fatto uso della maschera, che accompagna popoli con disparate credenze etnico-religiose, ancorché politiche, sociali e teatrali, nei riti tribali, propiziatori, evocativi e spettacolari della cultura orientale e occidentale. Quella passata e quella presente.

 

images (1)

Ecco perché la maschera mi ha sempre interessata, incuriosita, affascinata. Sin dalla nascita avvenuta nel 1979, il Centro Maschere e Strutture Gestuali trova nella maschera la sua peculiarità’ e ragione d’esistere; oltre che  richiamare attorno al proprio nucleo operativo e creativo  (formato originariamente da Donato Sartori, Paolo Trombetta e dalla scrivente – ora diretto da mia figlia Sarah Sartori) una moltitudine di collaboratori internazionali progressisti, fortemente motivati e  impegnati  in varie discipline, a seconda delle esigenze comuni e pluridisciplinari. Va detto che le maschere Sartori, quelle realizzate nel Centro Maschere e Strutture Gestuali da circa un secolo,  non sono mai state e non sono un espediente meramente estetico ma aiutano a trasformare un oggetto per sua natura inanimato, in una comunicazione e un testo di lettura in grado di esprimere passioni e sensazioni. Molti ‘maschereri’ di oggi, alcuni dei quali sono stati nostri ex-allievi e imitatori, sia in Italia che all’estero, non rispettano questo onesto mandato culturale, etica della creazione che si riassume nella semplice frase “l’onore del vero”.

questo va detto. Che si tratti delle maschere espressive, nate come strumento di pedagogia e inventate per la scuola di Jacques Lecoq, così come di tutte le altre maschere teatrali di Amleto e Donato Sartori, possiamo parlare di vere e proprie opere d’arte. Diventano scultura viva, attraverso linee e piani, luci e ombre. Si parla di “maschera” e di “contromaschera” e sono capaci di trasmettere le emozioni del personaggio, nel momento della metamorfosi dell’attore. L’invenzione ed elaborazione singolare dei Sartori è stata perciò quella di creare un alfabeto della maschera, una grammatica del corpo, lavorando in collaborazione con attori diversi, studiandone i gesti e la loro metamorfosi.

 

Confe02NOM

Alla fine del 2004 ad Abano Terme, presso la seicentesca Villa Trevisan Savioli, è stato aperto il Museo Internazionale della Maschera intitolato ad Amleto e Donato Sartori, di cui sono direttrice oltre che moglie di Donato Sartori. A sorpresa, i nostri grandi amici Franca Rame e Dario Fo hanno voluto poi elargire un grande dono creando per il nostro Museo lo spettacolo teatrale Maschere Pupazzi e Uomini dipinti, presentato in prima nazionale nelle tre serate del 3,4 e 5 giugno 2005 nel cortile appositamente allestito, alla presenza di oltre duemila persone e, successivamente, al Festival Internazionale di Atene. L’evento è stato trasmesso dalla terza rete Rai in settembre in due puntate, oltre che riproposto più volte in replica sui canali satellitari della Rai.

 

 

 

 

 

 

            Introduzione: le maschere

 

d0qkfznxcaimkl7

La maschera mi ha sempre interessata, incuriosita, affascinata. Per maschera in generale si intende di solito un oggetto che serve a nascondere, modificare, svelare. Esso ricopre in parte o del tutto il corpo di un uomo e di una donna nascondendone l’identità o, più spesso, cambiandola: tende a caratterizzare l’intera sembianza di chi la indossa in un personaggio, sacro o profano.

Costruita con diversi materiali (paglia, fibra vegetale, legno, cera, cartapesta, tessuto, plastica, cuoio, metallo ecc.), l’uso e il significato della maschera è cambiato da un contesto all’altro nel tempo e nello spazio, rimanendo tuttavia sempre parte integrante della comunicazione sociale. In quanto oggetto-scultura, essa ricopre funzioni strettamente legate alla vita quotidiana, assumendosi il compito di tramandare e comunicare la cultura dei popoli attraverso forme simboliche, diventando così strumento di comunicazione in un contesto religioso nonché politico-sociale-teatrale nei riti tribali, propiziatori, evocativi e spettacolari, da Oriente a Occidente. Come dice Roger Callois, antropologo e poeta francese contemporaneo:

È un fatto che tutta l’umanità porta o ha portato una maschera. Questo accessorio, enigmatico e senza destinazione utile, è più diffuso della leva, dell’arco, dell’arpone o della carrucola […] Non v’è un utensile, un’invenzione, una credenza, un costume o un’intuizione che unisca l’umanità o almeno che lo faccia allo stesso grado come il portatore di maschera.

Ancor oggi la maschera è uno strumento magico che alcune popolazioni, specialmente in Africa, considerano come un oggetto sacro che conferisce a chi la porta un potere soprannaturale, elevandolo al livello degli spiriti.

Il personaggio mascherato non cerca di nascondersi agli occhi della folla né di ingannarla: semplicemente vuoi perdere il proprio stato di essere umano, e la maschera gli conferisce le virtù degli eroi mitici, dell’animale feticcio o dello spirito che rappresenta.

Non a caso, è l’uomo il delegato a indossare la maschera in questi riti preclusi alle donne e l’usanza, tramandata fino ai giorni nostri, non si ritrova solo nell’ambito rituale di culture diverse, ma anche in alcune tradizioni teatrali: nel Teatro Nò giapponese, ad esempio, il personaggio femminile con maschera viene interpretato da un attore.

La storia della maschera è vastissima: qui prenderò in esame solo alcuni esempi, partendo dai graffiti rupestri.

Esistono tracce dell’uso di maschere in tempi di gran lunga anteriori all’inizio della coltivazione della terra, probabilmente anche all’ estrazione e lavorazione dei metalli, presso numerosi popoli di tutti i continenti. Anche se in certi casi un tipo particolare di maschera o il principio stesso della mascheratura derivavano dall’imitazione di un popolo vicino, l’utilizzo praticamente universale prova che l’idea di mascherarsi è apparsa spontaneamente in numerose regioni del mondo ed è quindi un carattere intrinseco alla natura umana. Si può anche pensare che l’uomo, nel corso della propria evoluzione, abbia fatto ricorso alle maschere allorché ha cominciato a concepire l’idea che esseri soprannaturali intervenissero in modo positivo o negativo nella sua esistenza: ha così tentato di influenzarli con preghiere e sacrifici, sforzandosi di ottenerne i favori o di placarne la collera, di cui si riteneva responsabile.

Tuttavia, questa non era che la prima tappa per cercare di acquisire qualità e potere delle forze soprannaturali. Grazie alle pratiche dette di magia imitativa, mirate a raggiungere il risultato desiderato attraverso l’imitazione di certi fenomeni o caratteristiche, l’uomo ha creduto di riuscire nel proprio intento adottando l’aspetto di quelle forze che immaginava o intravedeva in sogno.

 

images (4)Oltre a questo processo mentale attivo, un altro processo, di carattere passivo e difensivo, potrebbe aver giocato un ruolo importante nella genesi della maschera: appropriarsi di un volto differente per modificare la propria identità, proteggendosi così dagli esseri soprannaturali, sviandoli o addirittura tenendoli a bada con un aspetto “spaventoso”. Una motivazione simile spiega il moltiplicarsi dei differenti tipi di maschere, utilizzate nelle situazioni più disparate: ad esempio in occasione di nascita, malattia o morte di un membro della comunità o di un animale associato agli umani attraverso legami totemici di parentela, oppure in occasione dell’iniziazione di un giovane, o ancora nei preparativi a una caccia o durante la semina e il raccolto. In situazioni di questo tipo, ciascuna comunità tendeva ad obbedire a certe regole di condotta e di azione, la cui violazione avrebbe potuto minacciare la vita della comunità stessa e dei suoi membri.

In Egitto, ad esempio, le maschere funerarie erano collegate all’uso della mummificazione e quindi alla credenza della sopravvivenza del corpo umano, in particolare la testa, anche dopo la morte. Molte di esse sono giunte a noi poiché situate in tombe destinate a durare in eterno, come eterne erano la giovinezza e la bellezza fissate dalle maschere. Gli occhi, grazie al trucco sapiente, acquistavano profondità e lucentezza, e la sottolineatura degli occhi è tuttora in uso presso le donne di tutto il mondo. Nei recenti anni Sessanta era molto di moda proprio l’allungamento degli occhi di ispirazione egizia con eyeliner nero: Fuso del kajal in molti paesi (per esempio India e Paesi arabi) ha lo stesso uso estetico e curativo del kohl usato dagli antichi Egizi.

I più antichi esemplari di maschere funerarie egizie sono di tre tipi: involucri in tela del corpo nella sua interezza; involucri in gesso del corpo intero o del solo volto; coperture del volto e delle spalle in tela e gesso (cartonnage), dipinte e talora dorate. Queste ultime ebbero grande diffusione a partire dal 2180 a.C. e l’esemplare universalmente noto è la maschera del faraone Tutankhamen, in oro intarsiato e pietre dure.

L’uso delle maschere funerarie continuò anche in epoca tarda e assunse poi, in età romana (30-324 d.C.), la particolare connotazione stilistica della ritrattistica greco-latina.

 

L’estetica in epoca primitiva

 

Uno dei massimi esempi di arte paleolitica è l’opera straordinaria raffigurante una danzatrice in corsa, rinvenuta in una grotta completamente isolata nel deserto del Tassili n’Ajjer (Sahara); già si nota come gli uomini primitivi avessero una grande capacità di ricerca estetica pur ignorandone ovviamente lo studio scientifico. L’arte, o piuttosto il valore dell’arte, non aveva per essi alcun significato; in altri termini facevano dell’arte senza saperlo e le figure che tracciavano sulle rocce avevano nel loro spirito un’efficacia magica che oggi chiameremmo pratica e funzionale. Inspiegabile, del resto, è la presenza sui dirupi del Tassili di segni presenti nelle pitture rupestri di Atlante, Fezzan, Libia, Levante spagnolo e Francia meridionale.

È  sorprendente come in regioni così lontane l’una dall’altra e così diverse nello stile delle raffigurazioni, ricorrano soggetti quasi identici – cerimonie, incantesimi, scene di guerra e di caccia, di vita quotidiana – tutti trattati in maniera narrativa e dinamica: quasi ovunque, all’ingresso delle caverne, appaiono arcieri in corsa, figure di donne danzanti.

Un esempio di pittura riconducibile al mascheramento estetico femminile è la danzatrice in corsa del Tassili che, munita di corna e sontuosamente abbigliata, ha il corpo dipinto di verde, cosparso di puntini bianchi che stanno ad indicare certamente delle scarificazioni, cioè piccole incisioni praticate sulla pelle per far uscire il sangue quale atto di sacrificio. Dai bracciali e dalla cintura pendono sottili fili di fibre bianche che accentuano i movimenti della danzatrice. La posizione piegata delle gambe, l’ondulazione graziosa delle braccia, la curvatura delle corna, l’armonia dell’assieme, dicono di un’arte consumata. Non manca nulla: la suprema eleganza della linea, l’equilibrio delle proporzioni, il ritmo grafico e coloristico, la stessa composizione piena di intelligenza. Diecimila anni prima di Matisse, un uomo è stato capace di eseguire una pittura così squisita. L’origine spirituale di questa danzatrice, che porta sulla testa e sul volto qualcosa che sembra una maschera, potrebbe essere il muflone a cui si riferiscono le corna: come nella maggior parte delle pitture di stile arcaico, abbiamo una serie di immagini intermedie tra l’animale e la maschera propriamente detta.

Sembra anche che le diverse manifestazioni di arte rupestre africana abbiano seguito una medesima legge di evoluzione. L’artista esprime dapprima intenzioni magico-religiose per mezzo di forme elementari: un tratto breve e forte in cui l’essere umano e l’animale tradiscono l’indifferenza per il reale. In seguito egli sente il bisogno di esercitare la sua abilità e di rappresentare ciò che vede. Tale fase naturalistica è seguita dalla tendenza alla semplificazione e all’astrazione.

Ciascuna pittura di questo stile è in effetti sempre accompagnata da un insieme di figure geometriche simboliche quali linee, punti, festoni, fregi diversi. Per le donne mascherate, i segni geometrici sono disegnati generalmente sullo stesso personaggio, talvolta in un modo limitato. Si potrebbe credere che si tratti di ornamenti (tatuaggi o scarificazioni), ma la coincidenza di questi modelli con quelli simili di altre figure disperse sulle rocce del Tassili non possono essere fortuiti.

 

Dalle pitture si sprigiona un simbolismo che riempie ogni opera di mistero, di potenza, di una presenza malefica quasi insopportabile e ciò nonostante, come già detto, l’artista del Tassili non abbia alcuna nozione di ciò che noi chiamiamo “estetica”.

Si può pensare che i canaloni e le caverne dipinti fossero luoghi sacri; che il pittore mesolitico o neolitico attesti la realtà della sua tribù su questa terra e il suo destino nell’altro mondo; che egli affermi, con gli uomini e gli animali raffigurati, il rito propiziatorio di cui gli uni e gli altri hanno bisogno quando vivono in comunità. Così facendo, è irresistibilmente portato ad affermare la propria personalità sulla materia, ad esternare i propri sentimenti e impulsi. Per tradurre concretamente la sua cosmogonia, egli ha trovato in se stesso il modo di espressione migliore, più limpido, più conforme alla legge d’equilibrio. Ecco perché, se il significato religioso e sociale di queste pitture resiste al nostro bisogno di sapere, ci è sufficiente apprezzare la loro affascinante ricchezza plastica e ritrovare, attraverso essa, l’individuo di carne e ossa che noi siamo.

Il pittore primitivo, però, poteva agire anche sulla prima e più semplice tela a sua disposizione: la pelle del proprio corpo. Tuttavia egli raramente la apprezza per la sua levigatezza, la sua glabrezza, la sua disponibilità in superfici lisce e omocrome, considerandola troppo nuda, troppo sola, troppo insignificante. Nel desiderio intimo del primitivo c’è un mondo esogeno da rappresentare, che sia solo suo e di cui se possibile egli possa essere l’artefice e il creatore. Il primitivo sente istintivamente la disponibilità completa e l’unicità fisica di questa disponibilità del corpo, in senso squisitamente possessivo. E, in secondo luogo, sente nascere in sé il desiderio di adornare, di abbellire, di usare forme e colori che rendano più attraenti e producenti le superfici corporee. Si tratta di una vera opera di cosmesi artistica che implica l’ammirazione dell’altro sesso, la maggior accettazione di sé, a seconda dei casi: le stesse “causali” base che vedremo per il tatuaggio. Il dipingersi la pelle è molto meno impegnativo del tatuaggio e viene diffusamente usato per il trucco del viso con tinte molto semplici, si complica in figurazioni diversissime per la cosmesi artistica del corpo. In Melanesia è in uso questo canto che ben riassume la magia del mascherarsi con i colori:

 

Le pitture del mio corpo (fiori, animali, paesaggi)

Sono vive come me, sono parte di me

Sono un vestito impalpabile fatto della mia pelle

Che ha il mio tepore, che batte col mio cuore.

Le donne le carezzano, i bimbi ci giocano, i miei compagni le apprezzano.

Ma soprattutto esse danno esca ai miei sogni.

 

 

Un’altra forma di mascheramento del corpo è data dalle modificazioni permanenti: la mutilazione e la deformazione estetica, la scarificazione e il tatuaggio. In tutti questi casi la fisionomia della persona viene modificata per ragioni di carattere ideologico che hanno a che fare con ritualità del passaggio di condizione o con modelli ideali di bellezza, forza e virtù.

 

             Il tatuaggio

 

II tatuaggio possiede una sua poesia profonda che si perde completamente nelle imitazioni occidentali. I primitivi lo amano come una seconda vita che essi stessi hanno fatto nascere secondo i propri desideri ed esigenze. Non si tratta di un accessorio cosmetico inutile o di pura decorazione occasionale, ma riveste un significato profondo e importante. Lo conferma il fatto che, in tutti i tatuaggi per infissione, il dispendio di sacrificio e dolore fisico è sempre notevole. “Ho imprigionato bellezza nella mia pelle – recita un canto polinesiano – e nessuno potrà rubarmela, neppure lo spirito del Male”. Tra i primitivi, il tatuaggio è un segno di bellezza e creatività; al di fuori di queste culture decade ad altri significati, non altrettanto estetici e significativi.

In Polinesia l’arte tatau (“imprimere, marcare, segnare”, termine dal quale deriva la parola inglese tattoo, tatuaggio) ha origini lontanissime. Al di là delle possibili ricostruzioni storiche, per i tahitiani la pratica del tatuaggio ha origini divine ed è, in sintesi, storia d’amore e seduzione.

I figli artigiani del dio Ta’aroa, Mata Mata Arahu e Tu Ra’i Po’, si ornarono il corpo di tatuaggi per sedurre Hina Ere Ere Manua, la figlia del primo uomo e della prima donna nella genesi polinesiana. Rinchiusa e sorvegliata dalla madre, Hina Ere Ere Manua fu talmente affascinata dagli originali ornamenti sul corpo dei due dei che riuscì a scappare dalla sua prigionia spinta dal desiderio irrefrenabile di farsi tatuare. Gli esseri umani conobbero così la seduzione e la bellezza del tatuaggio e ne perpetuarono la pratica per generazioni e generazioni. I due figli di Ta’aroa, la principale divinità tahitiana, sono considerati ancora oggi gli Dei dei tatuaggi e vengono invocati durante la pratica di ornamento del corpo dai tatuatori, considerati al pari di stregoni e sciamani.

In seguito, i polinesiani svilupparono l’arte del tatuaggio come strumento per segnalare l’appartenenza a clan, famiglie o ordini, oltre che per sottolineare il rango sociale o la storia personale (il matrimonio, la nascita dei figli, i combattimenti in battaglia ecc.).

A volte il tatuaggio era particolarmente doloroso in quanto effettuato, ad esempio nelle Samoa, con una punta di osso dentato fissato in cima a una bacchetta di legno, che veniva ripetutamente colpita per far penetrare i piccoli denti e il colore nella pelle.

Altra civiltà che usa tatuarsi da secoli è quella giapponese, presso cui la pratica assume, in un certo periodo, un significato diametralmente opposto a quello estetico.

Antichi testi cinesi e coreani affermano che i giapponesi erano soliti tatuarsi tutto il corpo già nel 250 a.C, ma nel 550 d.C. l’usanza è limitata alle braccia degli appartenenti alle classi inferiori (macellai, boia, circensi e altri); tale uso negativo del tatuaggio si riscontra ancora nel Settecento, quando lo si applica al viso (ad esempio scrivendo indelebilmente la parola “traditore”) per marchiare i delinquenti. Gli aristocratici, invece, si facevano praticare piccolissimi tatuaggi intorno agli occhi. Comunque, nonostante l’utilizzo in queste occasioni, il tatuaggio assunse il ruolo di arte raffinata dal XIII secolo. Nell’Ottocento, inoltre, dopo essere stati importati dalla Cina verso la metà del secolo precedente tramite una sorta di albo a fumetti (anche oggi, ad esempio sulle nostre spiagge, giovani asiatici propongono piccoli cataloghi dove il turista può scegliere il simbolo preferito per adornare il proprio corpo), i tatuaggi artistici su tutto il corpo tipici del Giappone raggiungono l’apice della qualità, tanto da spingersi sino all’Inghilterra vittoriana e interessare diversi monarchi. Sulla scia di questo consenso, molti esperti cinesi e giapponesi si trasferiscono in Europa e negli Stati Uniti, dove trovano anche apprendisti locali. La popolarità delle decorazioni è incrementata dal successo delle esibizioni di persone tatuate nei luna-park. Per finire, un accenno ai nostri anni Sessanta, periodo in cui numerose subculture, come quelle degli hippy, degli Hell’s Angels o dei punk, si fanno praticare tatuaggi più o meno estesi, spesso per esprimere la propria ribellione nei confronti delle norme sociali correnti. Ora invece, nel quotidiano, il tatuaggio è ritornato ad essere per lo più simbolo esclusivamente estetico.

 

                   La scarificazione e la deformazione estetica

Nel senso scientifico, il termine scarificazione (in uso specialmente in Africa) si riferisce alla creazione, attraverso una qualsiasi tecnica, di una o più cicatrici permanenti su una qualsiasi parte del corpo. Esse vengono ottenute mediante piccoli tagli della pelle (con coltelli, rasoi, conchiglie, pietre affilate ecc., generalmente a lama molto bassa) in forme lineari o curvilinee, in modo da far penetrare polveri o sostanze irritanti (sabbia, cenere, penne con succhi di piante ecc.), così, dopo alcuni giorni si producono cicatrici incavate secondo le forme desiderate. La scelta di non lasciar guarire le cicatrici, ma di ritardarne la guarigione per irritazione continua delle ferite, provocando la formazione di cheloidi rilevate e dure, porta a un risultato indubbiamente caratteristico, a un abito perenne ben visibile e tattile, di cui molte popolazioni africane non possono fare a meno. “Senza di esse – dicono molte donne – non avremmo assolutamente trovato marito”.

In tutta l’Africa le scarificazioni fatte per riconoscersi tra appartenenti a una stessa tribù sono, in ambo i sessi, praticate su parti ben visibili (braccia, fronte, guance, collo, petto), ma nelle donne traducono un netto carattere subsessuale assumendo maggiore importanza quanto a forma, estensione e dimensione: le zone preferite sono l’addome, le braccia, il pube, le natiche e in particolare la fascia interna superiore delle cosce.

Oggi la scarificazione è intesa come ornamento del corpo e, alla pari di qualsiasi trucco, è una scelta individuale; ma nei secoli passati, soprattutto tra le popolazioni tribali, la decisione era presa da un’autorità superiore anche senza il consenso dell’interessata.

La scarificazione può essere praticata anche per ustione con punte roventi che, sulla falsariga di disegni prestabiliti, provocano cicatrici superficiali, e quindi i bassorilievi cutanei che si desiderano. I popoli della valle africana dell’Omo (tra cui Mursi e Bumi) sono famosi per la molteplicità delle decorazioni che ornano il volto e il corpo, spesso parte di un complesso rituale dove la caccia e i morti giocano un ruolo importante. Presso i Kaleri della Nigeria, le donne sono molto orgogliose delle proprie cicatrici, simbolo evidente del dolore che hanno dovuto sopportare per aumentare la propria femminilità e rendersi più attraenti e desiderabili.

Ciò avviene, del resto, in tante altre società africane dove la disposizione delle cicatrici diventa decorazione interpretabile solo se si conosce il ruolo sociale della persona: età, parentele, tribù ecc. Essa scandisce spesso anche i cicli della vita e si comincia a praticarle sui neonati, aggiungendole poi con regolarità. Per le donne costituiscono i segni delle prime mestruazioni, del primo bambino, della fine dell’allattamento… Sempre sono indici sessuali ed erotici. L’assenza di cicatrici denota asocialità e codardia.

Sinonimo di bellezza per le donne Mursi (tribù etiope) è la deformazione delle labbra, che si ottiene inserendo un disco di argilla nel labbro inferiore prima dei vent’anni e sostituendolo nel tempo con dischi labiali (a volte triangoli) sempre più grandi, asportabili solo per mangiare e dormire. È probabile che la grandezza del piattello stia a indicare il numero di capi di bestiame che la famiglia della ragazza chiede per concederla in moglie: un grande piattello labiale può equivalere anche a cinquanta capi di bestiame.

L’unico altro posto al mondo dove si può incontrare l’uso del piattello labiale come forma di abbellimento è Amazzonia. Proprio nella foresta amazzonica brasiliana, vicino ai confini con Perù e Colombia, risiedono i Tikuna o Tucuna, la cui bravura comprende l’arte di lavorare il giunco, scolpire il legno e la pietra, creare maschere utilizzate per cerimonie in onore degli antenati o connesse all’iniziazione di giovani, ai riti di fertilità e ai funerali: rappresentano la forza vitale della foresta pluviale. In genere le maschere sono scolpite in legno, colorate con sostanze naturali e hanno forme zoomorfe perché, secondo le mitologie locali, alcuni animali sono considerati gli antenati della popolazione attuale. I danzatori personificano gli spiriti degli anziani che vegliano anche sullo svolgimento dei riti funerari: gli spiriti dei morti sono potenti e temuti e potrebbero nuocere alla popolazione se le pratiche funerarie non fossero scrupolosamente rispettate. Una delle funzione degli uomini mascherati presso i Tucuna è sorvegliare lo spirito del morto finché il cadavere non abbandona la casa. Prendendo parte ai funerali, gli spiriti degli antenati, gli esseri mitici, gli animali e i mostri della foresta affermano la propria parentela con il morto e, attraverso di esso, con gli altri membri della comunità. Presso alcune popolazioni, al termine dei riti funerari, la maschera viene bruciata.

Sebbene le danze mascherate siano eseguite esclusivamente dagli uomini, anche le fanciulle e le giovani donne portano una maschera nel corso del rituale che celebra la loro pubertà. Le maschere, di cui soltanto qualcuna è femminile, personificano animali fantastici e demoni creati individualmente da chi le indossa. Essi sono a volte più di cinquanta e si radunano in un luogo sacro della foresta, poi si recano a gruppi nella casa dell’ospite dove danzano e prendono parte a un festino. Dopo il rituale, i danzatori si tolgono maschere (che in questo caso non sono sacre) e costumi facendone un mucchio intorno alla fanciulla iniziata: a questo punto appartengono all’ospite e vengono gettati alla fine della cerimonia.

Tradizionalmente, quando una ragazza raggiungeva la pubertà, andava ad abitare per due o tre anni in una capanna isolata dove solo la madre poteva farle visita. Alla fine di questo periodo il padre organizzava una festa: alla ragazza veniva fatta bere una pozione inebriante e il padre le strappava i capelli a significare che era pronta a sopportare il dolore del parto.

Oggi la maggior parte dei Ticuna non attua più queste cerimonie (dall’isolamento allo strappo dei capelli), ma segue altri rituali che includono sempre la danza con le maschere.

Parte II a seguire nel numero 21 de La macchina Sognante, prevista per il 1 maggio 2021

 

26060194_909171979258833_4680398731457484527_o

 

Paola Piizzi Sartori, laureata in Architettura all’IUAV (Università di Venezia) nel 1981 e’ attualmente direttrice del Museo Internazionale della Maschera Amleto e Donato Sartori. Ha fondato il Centro Maschere e Strutture Gestuali assieme a Donato Sartori e Paolo Trombetta nel 1980. Successivamente ha progettato, ideato e allestito mostre in tutto il mondo sulle maschere della famiglia Sartori e mascheramenti urbani diretti dal marito Donato Sartori. Insegna dal 201 Mascherologia ed elementi di Storia teatrale presso il DAMS di Padova. Tiene e promuove seminari di etnologia e arti visive legati alla storia della maschera con conferenze e corsi formativi sia in Italia che all’estero. E’ autrice di vari articoli, saggi e testi sulla storia della maschera teatrale e rituale, dalle origini ai giorni nostri. Attualmente si interessa e indaga sulla storia mondiale della maschera e mascheramenti femminili.

Immagine di copertina: Foto per gentile concessione del Museo Internazionale della Maschera di Abano Terme.

 

Riguardo il macchinista

Walter Valeri

Walter Valeri poeta, scrittore e drammaturgo è stato assistente del premio Nobel Dario Fo e Franca Rame dal 1980 al 1995. Ha fondato il Cantiere Internazionale Teatro Giovani di Forlì nel 1999. Successivamente ha diretto il festival internazionale di poesia Il Porto dei Poeti a Cesenatico nel 2008 e L’Orecchio di Dioniso a Forli' nel 2016. Ha tradotto vari testi di poesia, prosa e teatro. Opere recenti Ora settima (terza edizione, Il Ponte Vecchio, 2014) Biting The Sun ( Boston Haiku Society, 2014), Haiku: Il mio nome/My name (qudu edizioni, 2015) Parodie del buio (Il Ponte Vecchio, 2017) Arlecchino e il profumo dei soldi (Il Ponte Vecchio, 2018) Il Dario Furioso (Il Ponte Vecchio, 2020). Collabora alle riviste internazionali Teatri delle diversità, Sipario, lamacchinasognante.com Dal 2020 dirige i progetti speciali del Museo Internazionale della Maschera “Amleto e Donato Sartori”. È membro della direzione del prestigioso Poets’ Theatre di Cambridge (USA).

Pagina archivio del macchinista