Marasma a Milano, da “L’amore scritto” di Julio Monteiro Martins

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MARASMA A MILANO

 

– Sai chi è stato beccato stavolta?

– Dimmi. – disse Toni, dopo un leggero sussulto.

– Il ragazzino figlio di Silvia. Ti ricordi? Un biondino. Aveva una dozzina di bustine nello zaino quando l’hanno portato via dal treno.

– I treni sono una fregatura. Se ti beccano lì, sei incastrato, sepolto vivo. Non puoi nasconderti, non puoi scappare da nessuna parte. È un macello.

Avvicinandosi al blocco stradale, il vecchio fece finta di essere addormentato, le mani ossute sulle cosce, la candida chioma appoggiata alla cintura di sicurezza che gli premeva sul petto scarno. La donna bruna, che i poliziotti credevano fosse sua figlia, mostrò i documenti, che le furono restituiti con un “Vada pure” dopo una breve occhiata all’interno del veicolo.

– Sono stufo di questo lavoro, Marialuisa. Sì, perché si tratta di un lavoro, no? È cominciato come un favore che ti ho fatto, ma un favore è un favore, cento favori sono un lavoro, non è così? E che ci guadagno io a fare il personaggio insospettabile dell’anziano rincoglionito che porta la droga ai tuoi clienti senza che tu corra alcun rischio? Sono lo spacciatore perfetto! Ma poi?

– No. Tu sei il mio uomo, Toni. Ma sei anche il mio socio. Quello che guadagno con la roba è per noi due, e lo sai.

– Eh no! D’ora in poi facciamo le cose nel modo giusto. Deciditi a dirmi finalmente quanto costa la droga, e la differenza la dividiamo a metà, poi dividiamo anche tutte le altre spese, va bene? Ché non voglio che continui a pagare le cose per me. Facciamo tutto fifty fifty.

– Sciocchezze… Ma se vuoi lascio tutto a te. Non me ne frega niente. Oggi compriamo la roba insieme, okay? E non voglio più sentire questi discorsi.

La BMW nera aveva appena superato il terzo controllo dei carabinieri in meno di venti minuti. Da un lato e dall’altro della strada, macchine e furgoni bruciavano, qualcuno rovesciato su un fianco o capovolto. In mezzo alla rotonda, un autobus espelleva lingue di fuoco da tutti i finestrini. Le fiamme tingevano la notte di un rosso cupo, che s’intravedeva a volte anche più in alto, tra le fessure nelle colonne di fumo, come lampi durante una tempesta. La furia delle periferie, le favelas milanesi che avevano preso di mira la città rendevano più sicuro girare in continuazione con la macchina tra le vie, sempre con i vetri blindati chiusi, piuttosto che lasciarla parcheggiata da qualche parte.

– Dài, gira di qua, prendi Via Torino. Andiamo verso Zona Tortona, dove sta quel tuo amico napoletano. In questo cazzo di città non ci sono più parcheggi sicuri, e non ce ne saranno più, a meno che non finisca questo casino. Questi qui non hanno niente da perdere. Qualcuno dovrà decidersi a dargli qualcosa che poi non vorranno perdere.

– Qualcosa da perdere, no. Qualcosa che gli faccia paura, sì.

– Loro non temono niente, e nessuno li potrà fermare. I poliziotti non sono eroi né martiri, lo sappiamo bene. E neanche l’esercito è in grado di affrontare questi qui. È una guerra, non lo vedi? E loro alla fine la vinceranno…

– Ma che! Sono bambini. Nient’altro che bambini, gente lesionata.

– Stavolta i lesionati siamo noi, cara mia. Guardati intorno. Guarda quel palazzo lì in fondo alla strada. Lo vedi? Dentro brucia tutto. Fra poco crollerà. Sarà come nel ’45. Macerie dappertutto.

– Come nel ’45?…

– Sembra Londra dopo i bombardamenti delle V2.

– V2?… Solo tu ti ricordi ancora di queste cose. Nessuno sa più cosa siano le V2, Toni. Solo tu… Piccino… Vieni qua…

Erano le undici di sera. Ogni quartiere di Milano era stato trasformato in un’immensa fiaccolata, come una lussuosa festa notturna per giganti che non sarebbero mai arrivati.

– Il traffico è tutto bloccato da questa parte. Sembra un inferno laggiù, vedi? Faccio il giro e prendo Corso Vercelli. A Porta Genova c’è Babu. Avrà qualcosa per noi.

Dopo altri venti minuti e un altro controllo dei poliziotti che cercavano invano di presidiare la città, arrivarono all’ingresso dell’edificio. Marialuisa fece un cenno di riconoscimento ad uno degli uomini armati che sorvegliavano la grossa Porshe Cheyenne di Babu parcheggiata in Via Cesare da Sesto. Era l’unica macchina rimasta indenne in quella zona, un simbolo di sfida agli assalitori.

Toni aprì il vetro dello sportello della BMW. Oltre alle esplosioni dei serbatoi dati alle fiamme si sentiva anche il rumore, al contempo minaccioso ed impotente degli elicotteri della polizia che barcollavano in mezzo al fumo denso incombente su tutto.

Babu li fece entrare nel suo ufficio dopo che erano stati perquisiti. Era un nero alto quasi due metri venuto dalla Sierra Leone qualche anno prima. Portava un copricapo bianco ricamato con fili d’oro. Sul tavolino accanto alla poltrona un mitra portatile Uzi e un portacenere stracolmo di cicche. Dopo aver offerto loro un bicchiere di vodka on-the-rocks e, mentre lo sorseggiavano aprì lo sportello della cassaforte e prese una grossa partita della cocaina più pura che vi fosse in città e la mise sul tavolino accanto al mitra. Marialuisa la prese e se la mise nella borsetta di pelle nera.

– Okay. Ti lascio i soldi ora?

– No. Ci risentiamo più tardi. Che Dio vi accompagni.

– Grazie.

– Avete visto in quale stato hanno lasciato la città? Sembrano i postumi di una guerra. È peggio dell’Iraq qui. Sono proprio disgustato.

– Dicevo la stessa cosa a Marialuisa poco fa – commentò Toni, con sguardo malinconico.

– È tutta l’Europa che brucia da un bel po’ di tempo a questa parte ormai. Io me ne torno a casa, in Sierra Leone. Non ho più niente da fare qui. Basta.

– E a chi pensi di lasciare i tuoi affari? – chiese lei.

– A nessuno per ora, tesoro. Era solo un pensiero. Per ora non mi muovo. Un’altra vodka?

– No, grazie. Dobbiamo andare.

– Che Dio vi benedica.

Con il sacchetto nascosto sotto il sedile tra le molle i due partirono verso Via Montenapoleone, dove due clienti li aspettavano. Toni mise in testa il suo cappellino a scacchi e la sciarpa anch’essa a scacchi intorno al collo. Vestito come un nonnetto di provincia allacciò la cintura di sicurezza e si preparò per il numero del pisolino, che funzionava sempre.

– Sai che stavolta mi è venuto sonno davvero? Forse è stata la vodka.

– Approfittane e dormi. Il viaggio a quanto pare non sarà breve con tutti questi controlli.

Vicino al Duomo, in Via Orefici, videro i vigili del fuoco che si davano da fare al Burger King della galleria, e presero una via laterale. Dovevano fare un giro più lungo. Toni intanto si era addormentato. Una sua mano era scomparsa tra il sedile e lo sportello e a Marialuisa venne un pensiero buffo: il suo amante poteva aver nascosto un’arma proprio lì dove ora nascondeva la mano, e se avesse voluto spararle quando la macchina si fosse fermata ad un semaforo lei non avrebbe potuto difendersi, e nessuno avrebbe notato niente in mezzo alla metropoli arsa.

Scosse la testa, e al primo semaforo rosso levò a Toni il cappellino e lo gettò sul sedile posteriore, passò le dita tra i suoi capelli bianchi, ora più lunghi del solito, e li sistemò un po’, poi portò la mano sinistra di lui fino alle sue labbra e la baciò. Sapeva benissimo quanto tutto era fragile nelle loro vite, in mezzo a quell’inferno. E del resto, quanto tutto era incredibilmente fragile in quei tempi. E che strano momento era quello per innamorarsi di un uomo così improbabile, il suo Toni, che sospettava di lei e si sentiva fregato, forse a ragione, ma che l’amava a modo suo, e non l’avrebbe mai confessato.

Il semaforo divenne verde e la macchina ripartì, in mezzo alla nebbia nera della benzina e della materia plastica.

Prima dell’alba – lei in quel momento non poteva saperlo – sarebbero bruciate anche le macchine allora in circolazione con i loro passeggeri.

Ma l’alba era ancora distante. O forse non ci sarebbe stata alba. Le macchine incenerite l’avrebbero posticipata, o cancellata.

Le battaglie decisive è meglio combatterle all’ombra, così non lasciano testimoni né tracce di sé.

 

 

 

 

 

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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