Mai fidarsi del carbone di Sergio Sichenze

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Il carbone, la fonte energetica primaria che consentì l’ascesa inarrestabile dell’industrializzazione moderna, è ritornato in auge alla Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite di Glasgow: Cop 26.

Il nero combustibile fossile, nonostante la sbandierata e propugnata transizione ecologica, ha proseguito indisturbato il suo necroforo lavoro d’infallibile killer, lasciando una scia di morti a causa del suo elevato potere di inquinante atmosferico, in quanto, a seguito della sua combustione, miliardi di sottili particelle carboniose, definite particolato sospeso (particulate matter o PM), vengono inalate, provocando danni soprattutto a carico del sistema respiratorio.

La lunga carriera del carbone, non fu interrotta nemmeno nel 1952. Un evento catastrofico, passato alla storia come il “Grande smog di Londra”, provocò una vera e propria strage (12 mila decessi in pochi giorni, e oltre 100 mila nel tempo, per le conseguenze di tale accidente). Tra il 5 e il 9 dicembre, uno strato di aria calda superiore intrappolò al suolo aria fredda stagnante, generando una completa assenza di ventilazione e impedendo qualsiasi ricambio atmosferico. Le rigide temperature spinsero i londinesi ad aumentare il consumo di carbone per il riscaldamento domestico, producendo in tal modo un’enorme quantità di smog che si andò a sommare a quello già abbondantemente prodotto dalle ciminiere industriali. Giova ricordare che il termine smog fu coniato nel 1905 da Henry Antoine Des Voeux, che, in una comunicazione a un convegno a Londra sulla salute pubblica, mise in relazione il fenomeno della nebbia (fog) con quello dei fumi (smoke), ovvero delle emissioni atmosferiche prodotte dalla combustione del carbone, sia domestiche che industriali, provocando lo smog, una miscela venefica.

La conferenza di Glasgow, città la cui etimologia viene fatta risalire a “Piccola Valle Verde” (che coincidenza!), che si è tenuta dal 31 ottobre al 12 novembre 2021, aveva in agenda molteplici temi negoziali da concludere[1], con un “Patto per il clima” che ne ha rappresentato l’atto finale[2].

Gli asettici numeri parlano di 39.509 i partecipanti registrati provenienti da 197 paesi. Quelli che afferivano agli Stati sono stati 21.695, mentre le organizzazioni non governative contavano 11.734 persone. Per la stampa, sono stati 3.781 gli accrediti rilasciati.

Questo imponente schieramento cosa ha prodotto? e soprattutto cosa c’entra il carbone? Presto detto.

La prima cosa da evidenziare è che come ogni decisione, in ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), e di conseguenza anche alla Cop 26, debba essere presa con il consenso dei 197 Paesi che sono parte della Convenzione, sostanzialmente all’unanimità. E il consenso unanime, su ogni riga dei testi che compongono le numerose decisioni finali, si presenta come un percorso accidentato.

Ecco che, da tale premessa, entra in gioco il carbone.

Leggiamo cosa scrive Gabriele Crescente, giornalista di Internazionale il 15 novembre 2021: «La ventiseiesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop26), che si è conclusa a Glasgow il 13 novembre, è stata definita dai suoi organizzatori “un enorme passo avanti” nella lotta al cambiamento climatico. Dopo tutto, l’accordo raggiunto al termine di oltre due settimane di negoziati e sottoscritto da quasi duecento paesi menziona per la prima volta esplicitamente la necessità di limitare l’impiego dei combustibili fossili – anche se all’ultimo minuto Cina e India hanno imposto di modificare il passaggio che chiedeva di eliminare l’uso del carbone, sostituendolo con uno più generico a ridurlo»[3].

Dunque, all’ultimo minuto, cioè a notte fonda quando la faticosa negoziazione era già stata messa in cassaforte, l’India, con la complicità silente di Cina e Australia, si sono sfilati dagli impegni presi, sostituendo la parola “fine” (phase out) a “progressiva riduzione” (phase down), del carbone. È fallito, in altri termini, il tentativo di mandare definitivamente in soffitta il famigerato killer, che da oltre 200 anni, in nome della magica e accattivante parola “progresso”, legata indissolubilmente a “benessere”, prosegue nella sua attività di potente inquinante. Progressivamente si può dunque continuare a bruciare carbone, inquinare, spingere l’acceleratore sulla macchina della produzione, limitando, sempre progressivamente s’intende, gli impatti catastrofici sulla salute umana e sull’intero Pianeta.

Interessante è il lavoro di Carbon Brief[4] che evidenzia come dal 2000 a oggi sia stata raddoppiata la potenza energetica che utilizza il carbone, arrivando a circa 2.000 GW, a causa soprattutto della crescita esponenziale in Cina e India; 236 GW sono gli impianti in costruzione e 336 GW sono quelli pianificati. Viceversa, in particolar modo tra Europa e Stati Uniti, 14 Paesi stanno pianificando di abbandonare definitivamente il carbone nei prossimi anni. Ciò vuol dire che mentre l’Europa perseguirà le politiche di uscita dal carbone (coal phase-out), con l’occidente quasi a zero carbone, avremo al contrario degli Stati orientali, soprattutto Cina e India, che continueranno a investire in questo settore.

Alcune buone notizie da Glasgow.

Il primo segnale positivo è quello di ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030 (rispetto al 2010); impegno che se sarà concretamente attuato, potrebbe limitare l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5°C, considerato dalla comunità scientifica internazionale il limite da rispettare per evitare, o quantomeno calmierare, gli effetti dell’impatto globale dei cambiamenti climatici.

Altri accordi hanno riguardato la riduzione del 30% delle emissioni di metano e quello per fermare la deforestazione entro il 2030. I due paesi responsabili delle maggiori emissioni di gas serra al mondo, Cina e Stati Uniti, hanno stabilito di cooperare nella lotta al cambiamento climatico: staremo a vedere sul reale ottemperamento di tale accordo!

Un piccolo ma significativo passo è stato il Boga (Beyond oil and gas alliance), ovvero un patto per eliminare l’uso del petrolio e gas dai combustibili in uso nei diversi Paesi. L’alleanza, promossa da Danimarca e Costa Rica, vede per ora la simbolica partecipazione di 11 Parti (cioè non solo Nazioni, ma anche singoli Stati come la California). Si spera che le file del Boga potranno quanto prima essere ingrossate.

Come valutare gli obiettivi raggiunti a Glasgow? Diamo voce a due contributi.

Il primo. Riprendiamo l’articolo di Gabriele Crescente, già richiamato, citando alcuni passaggi delle sue conclusioni: «Per stabilire se la conferenza di Glasgow è stata un successo o un fallimento bisognerebbe prima stabilire precisamente cosa s’intende con questi due termini. Se dobbiamo giudicarla alla luce del suo obiettivo dichiarato – evitare che entro la fine del secolo la temperatura media globale aumenti di più di 1,5 gradi rispetto all’era preindustriale – allora non c’è dubbio che la Cop26 ha fallito. In base ai calcoli dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), se tutti i paesi si atterranno ai piani per la riduzione delle emissioni di gas serra che hanno presentato a Glasgow (i cosiddetti NDC[5]), nel 2100 il riscaldamento globale toccherà 1,8 gradi. (…) Se invece dobbiamo valutare la Cop26 rispetto ai precedenti, il quadro cambia nettamente. Al tempo della conferenza di Parigi, nel 2015, lo stesso Climate action tracker calcolava che con le politiche allora in vigore l’aumento della temperatura avrebbe raggiunto i 3,6 gradi. L’ondata di entusiasmo suscitata da quel vertice “storico” si era ben presto esaurita, anche perché l’anno successivo Donald Trump era stato eletto presidente degli Stati Uniti e aveva annunciato di voler abbandonare l’accordo. Nei quattro inconcludenti vertici annuali che si erano succeduti dopo Parigi, la distanza tra le parti e la chiara mancanza di impegno condiviso avevano portato molti a dubitare della possibilità stessa di un approccio coordinato a livello globale per limitare il cambiamento climatico. A Glasgow il cambio di passo è stato evidente, così come la determinazione degli organizzatori a superare gli ostacoli emersi durante la giornata conclusiva ed evitare che la conferenza si concludesse in un fiasco completo. A fare la differenza, oltre allo sviluppo di un movimento globale per il clima sempre più vasto e all’uscita di scena di Trump, è stata soprattutto l’enorme impressione creata dagli eventi climatici estremi degli ultimi due anni: stavolta i negoziatori sapevano che al momento di leggere le conclusioni del vertice avrebbero avuto letteralmente gli occhi del mondo addosso. Con almeno vent’anni di ritardo, l’emergenza climatica si è finalmente imposta tra le priorità globali. La conferenza di Glasgow lo ha certificato, e questo era probabilmente il risultato più importante che potesse ottenere».

Il secondo contributo è costituito da alcuni stralci dell’articolo di Giacomo Talignani (16 novembre 2021 La Repubblica), sulla sua prima speciale lezione in “DAD”, dedicata agli studenti presenti al summit di Green&Blue, del premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi: «spesso non viene capito che quando si parla di scienze esatte bisogna tener conto che queste includono incertezza nei risultati. Nella scienza la maggior parte del lavoro è capire queste incertezze (…) Questo vale per tutte le scienze, anche i modelli climatici. Quarant’anni fa le previsioni davano dei valori, con incertezze, ma non molto diverse da ora sull’aumento della temperatura. Dunque da 40 anni sappiamo che c’è questo aumento legato alla CO2 e il grosso del lavoro fatto dagli scienziati è cercare di quantificare l’incertezza del modello, verificare le ipotesi, capire discrepanze e errori». Se, dunque, è esperienza oramai comune che i cambiamenti climatici sono in atto e che gli eventi estremi colpiscono su scala globale, e che, come dice Parisi, «il problema del cambiamento climatico ha tanti aspetti ancora non compresi», dobbiamo necessariamente prendere coscienza che «noi non dobbiamo salvare il Pianeta, ma noi stessi. Il Pianeta ha cinque miliardi d’anni, ha grandi animali da mezzo miliardo d’anni, è sopravvissuto alla caduta di asteroidi e altri cambiamenti climatici. Quindi io non credo che il Pianeta sia in pericolo, ma noi lo siamo. Tutta la nostra civilizzazione è basata su risorse agricole estremamente delicate da gestire con il cambio della temperatura. Immaginiamoci se si fermano i monsoni nell’oceano indiano: cesserebbe di piovere nel sud est asiatico e miliardi di persone nell’Asia, senza cibo, vorrebbero emigrare altrove. Ecco perché la situazione è estremamente difficile». Tale affermazione porta lo stesso Parisi a considerare la Cop26 un sostanziale fallimento: «serve una quantità di provvedimenti urgenti subito, è ridicolo parlare di limitare l’aumento – come dire mezzo etto in più o in meno dal macellaio – senza un impegno preciso».

Sarebbe sufficiente rilevare la posizione di Cina e India sul carbone, per comprendere che impegni precisi non sono stati volutamente presi.

Il premio Nobel Parisi, a conclusione del suo intervento, incita i ragazzi all’impegno: «Voi ragazzi siete i più colpiti dal cambiamento climatico. Serve consapevolezza di cosa sta accadendo, cercare di capirlo, recuperare informazioni di alta qualità e cercare di convincere adulti, genitori, nonni, che è fondamentale che il tema del cambiamento climatico entri dentro la politica. Quando si vota alle elezioni generali questo tema dovrà essere fondamentale per la scelta delle posizioni. Quindi dovete insistere, insistere, insistere sull’importanza del cambiamento climatico, cercando di convincere chi vota e gli adulti. Le decisioni sono in mano ai governanti e i giovani devono spingere perché se ne occupino».

Non solo scienziati, autorevoli come Parisi, leggono con accenti preoccupati la complessa realtà che stiamo attraversando. Nell’intervista di Paolo Mastrolilli allo scrittore statunitense Paul Auster (America mia non sai chiedere scusa, La Repubblica 9 dicembre 2021), Auster afferma, riferendosi al riscaldamento globale, «Rischiamo l’estinzione del genere umano, ma non facciamo nulla. E sapete cosa succederà? La Terra andrà avanti senza di noi. I più illuminati avvertono che stiamo distruggendo il pianeta. Non è così: stiamo distruggendo noi stessi. Una volta che non ci saremo più l’inquinamento sparirà, le foreste ricresceranno, gli animali torneranno. La Terra si rigenererà, perché non ha alcun bisogno di noi. L’esperimento umano fallirà perché siamo così stupidi. Non abbiamo mai imparato a cooperare: vogliamo solo ucciderci a vicenda, per una ragione o l’altra».

Abbiamo il dovere, verso noi stessi e le future generazioni, di non essere così stupidi, di non lasciarci condurre, senza resistere, alla trasformazione (tutt’altro che ecologica!) da homo sapiens a homo oeconomicus, dove la realtà sociale si piega e si adatta alle sole motivazioni economiche, legate alla massimizzazione della ricchezza.

Oggi dobbiamo fare i conti con l’adattamento climatico e riappropriarci dell’umanità, sbrigativamente svenduta, sedotti dall’incanto di scintillanti ed effimeri beni materiali che stanno mostrando il vero volto della loro nefasta natura.

 

[1] https://unfccc.int/process-and-meetings/conferences/glasgow-climate-change-conference-october-november-2021/outcomes-of-the-glasgow-climate-change

conference?fbclid=IwAR0GrJKeI3kNnta8J_e_ZSPsiaGSXrCjX_DnQmIzvpv8bV1OYKwKLnp3mqQ

[2] https://unfccc.int/sites/default/files/resource/cop26_auv_2f_cover_decision.pdf

[3] https://www.internazionale.it/opinione/gabriele-crescente/2021/11/15/glasgow-cop26

[4] https://www.carbonbrief.org/

[5] Nationally Determined Contributions. Si tratta delle promesse che sono state avanzate dai governi di tutto il mondo in termini di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

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Sergio_Sichenze

Sergio Sichenze è nato a Napoli nel 1959. Vive e lavora a Udine. È biologo e naturalista, si occupa di processi educativi per la sostenibilità. Ha pubblicato racconti e raccolte poetiche. Sue poesie compaiono in alcune antologie di poesia. Nel 2018 ha vinto il Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Dal 2019 è membro della giuria Premio Nazionale di Poesia Terra di Virgilio. Fa parte del comitato di redazione della rivista letteraria “Menabò” (Terra d’Ulivi Edizioni) per la quale cura la rubrica “Pi greco”.

 

 

 

 

 

Immagine di copertina: Foto di Sumana Mitra.

 

 

Riguardo il macchinista

Bartolomeo Bellanova

Bartolomeo Bellanova pubblica il primo romanzo La fuga e il risveglio (Albatros Il Filo) nel dicembre 2009 ed il secondo Ogni lacrima è degna (In.Edit) in aprile 2012. Nell’ambito della poesia ha pubblicato in diverse antologie tra cui Sotto il cielo di Lampedusa - Annegati da respingimento (Rayuela Ed. 2014) e nella successiva antologia Sotto il cielo di Lampedusa – Nessun uomo è un’isola (Rayuela Ed. 2015). Fa parte dei fondatori e dell’attuale redazione del contenitore online di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com. Nel settembre’2015 è stata pubblicata la raccolta poetica A perdicuore – Versi Scomposti e liberati (David and Matthaus). Ė uno dei quattro curatori dell’antologia Muovimenti – Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi Edizione – ottobre 2016), antologia di testi poetici incentrati sulle migrazioni. Nell’ottobre 2017 è stata pubblicata la silloge poetica Gocce insorgenti (Terre d’Ulivi Edizione), edizione contenente un progetto fotografico di Aldo Tomaino. Co-autore dell’antologia pubblicata a luglio 2018 dall’Associazione Versante Ripido di Bologna La pacchia è strafinita. A novembre 2018 ha pubblicato il romanzo breve La storia scartata (Terre d'Ulivi Edizione). È uno dei promotori del neonato Manifesto “Cantieri del pensiero libero” gruppo creato con l'obiettivo di contrastare l'impoverimento culturale e le diverse forme di discriminazione e violenza razziale che si stanno diffondendo nel Paese.

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