Fu senza dubbio l’ultima frase che fece cambiare loro idea. La voce di lui si mescolò con il brusio delle zanzare così che la fecero sembrare triste e decadente.” Ah quei poveretti, quegli sventurati Michele e Nadia! Ah… ah! Lo sapete, no? La storia … in Mauritania?” Ecco, se non ci fosse stata quella frase lì, detta in quel modo, con l’orrore leggero e polverizzato, sarebbero andati a casa da un bel po’. E Maurizio non si dovette sforzare. In fin dei conti la serata al ‘Cavallino bianco’ era proseguita scorrevolmente, come la minestra calda d’inverno, liscia e lattea, piccante quanto basta, una mescolanza di componenti banali e misteriosi. Quanto basta. Ma ecco che a Maurizio era saltato in testa di raccontare una storia lunga e curiosa, una di quelle storie da raccontare proprio quando il sole calava, e fuori pezzi di luna si amalgamavano con pezzi di cielo e nuvole. Era la serata giusta. E Maurizio conscio di tutto ciò si grattava il naso con la stanghetta degli occhiali, toglieva con il dito le cispe agli angoli dell’occhio e passava il palmo della mano sopra la camicia. A dire il vero, forse, fu soprattutto questo linguaggio del corpo che fece sì che gli altri lo prendessero sul serio e, in seguito li indusse ad accomodarsi meglio sopra le sedie di paglia, rimettere i portafogli dentro le tasche e girare gli sguardi verso Maurizio che aspettava, con le mani incrociate dopo aver rimesso gli occhialini con la montatura bianca. Fu cosi che aveva cominciato a raccontare nei minimi particolari, con pause e aria significativa, la cronistoria famosa che loro non conoscevano. Così lei tornò a casa verso l’una, e da quell’ora in poi non riuscì a prendere sonno. Inutili gli scherzi di Memo per farla ridere, banalizzare la paura, il sonno non venne. Per ore e ore si girò nel letto da destra a sinistra, tutta la notte osservò come la luna inserisse tra le tapparelle i suoi timidi raggi, come un liquido denso color ambra, come certi corpi nella notte si avvicinassero e si spingessero, si scontrassero e ridessero.
Si alzò d’un colpo. Fu chiaro che non sarebbe riuscita a dormire, e si dirisse verso la vasca. Aprì il rubinetto dell’acqua calda e si mise a ricordare pezzi del discorso della sera prima. Nel frattempo programmava la mattinata, e mentre faceva questo, ancora una volta balzò prepotente il pensiero di Mahmudu. Questo pensiero le occupò tutto il resto della giornata come anche la notte, la avvolse nella paura per tenerla calda e fresca, le rinfrescò l’incubo ed il subconscio. Ecco il perché non riusciva a prendere sonno. Sentì il primo fischio del treno e chiuse l’acqua. Si immerse con tutto il corpo, anche la testa. Rimase cosi una decina di secondi e poi sporse fuori il naso e le labbra. Oggi aveva tante faccende da sbrigare, commissioni e appuntamenti. Mancava anche la riunione con Mahmudu … sospirò angosciata. Ovunque posasse gli occhi appariva la sagoma di Mahmudu. Sopra la saponetta di colore rosa scialbo, sopra l’asciugamano sul pavimento del bagno,di colpo dentro il vapore visualizzato sullo specchio del lavandino. Anche sulla maniglia della porta sembrava pendesse il corpo esile di Mahmudu. Talvolta vestito di un mantello, talvolta in un costume color verdognolo, e altre con i pantaloni da Schutzen con un bastone in mano. Non poté cacciarla, era impossibile, saltava da tutti gli angoli della stanza.
Si alzò disperata e rassegnata, indossò la vestaglia e si diresse verso la cucina. Aprì il pensile e mise fuori il barattolo del caffè con sopra la scimmietta che beve la coca-cola, il cucchiaino e la moka. Mise il naso dentro il barattolo e annusò desiderosa quel profumo forte del buon caffè. In seguito, automaticamente, aprì la moka, mise dentro quattro cucchiaini colmi, la chiuse per bene e la appoggiò sopra il fuoco. Dopo pulì la punta del naso dal caffè. Erano movimenti meccanici, piccole cose quotidiane che la rendevano felice, sopratutto il rumore del caffè mentre bolliva, quel vapore sotto il coperchio che aspettava di esplodere fuori, poi quel rigagnolo insostenibile del caffè che si versa dormiente nelle vecchie tazzine di porcellana, grosse e rotonde. Il caffè era pronto. Spense il fuoco e si sedette sulla sedia in attesa che si svegliasse Memo.
Pensando a ieri, il bar “Cavallino bianco” era semi vuoto, i camerieri sbadigliavano e avevano cominciato a sistemare i tavoli liberi. Tutti al tavolo erano pronti per alzarsi quando Maurizio iniziò a raccontare una storia capitata a due missionari in Africa, alcuni anni fa. Per appunto, a Michele e Nadia. Il discorso non aveva niente a che fare con tutto ciò di cui si parlava prima. In effetti Emma aveva appena trattato in maniera disinvolta il tema dell’energia positiva, cosa che le aveva fatto pensare al turbante dell’indiano Pakun, il ragazzo che da oltre un anno faceva il postino della Europa Novacella. Pakun andava in giro per le strade di Bolzano con una motocicletta rossa, con il turbante color visciolo e una tuta gialla. Sopra la motocicletta appoggiava una borsa di pelle vecchia stipata di carte, e un sacchetto di plastica con dei panini per il pranzo. Ma quel turbante lì per la Emma era l’espressione di un amore sconfinato per l’universo e la pace, contrariamente a come lo considerava Lucia appunto, alla quale quel turbante le faceva girare gli zebedei. Lei lo inseriva dentro un’altra proiezione il buon indiano Pakun, e ogni tal volta scorgeva la punta del suo turbante avvicinarsi tra la folla le veniva da vomitare. Ricordava una fresca mattina di primavera quando aveva visto da lontano il suo capello dalla forma di lumaca che correva. Il ragazzo era corso ancora un po’ di metri più in giù e appena si era trovato vicino al bidone delle immondizie aveva rallentato il passo. Poi si era fermato proprio davanti, e, con un movimento nobile, mentre un paio di anziani trattenuti per pura curiosità lo osservavano, aveva spalancato il coperchio, messo il dito a fianco del naso, e facendo così aveva soffiato con grande zelo nel bidone. Per sua sfortuna la Lucia aveva notato quella massa grigia saltare dalle narici dentro il bidone, probabilmente sopra un sacchetto di immondizie residue, visto il color verde militare.
La Lucia dirigeva da oltre vent’anni un bar, e ultimamente, diversamente da come profetizzava Emma, la sentiva, altroché se la sentiva girare intorno l’energia negativa. Aveva fatto solo la scuola elementare ma non le serviva tanta istruzione per percepire come questa energia sudicia accerchiasse i clienti che andavano su e giù con un solo caffè e un bicchiere d’acqua, o come li ipnotizzasse questa energia quando veniva il momento di pagare un bicchiere di Pinot bianco. La osservava in come sbattevano il portafoglio sopra il banco, come scavavano ansimando dentro le tasche strette per portare fuori monetine dopo monetine. E proprio per questo, quella sera, mentre ognuno stava calcolando a occhio il conto da pagare e pareva che nessun altro argomento potesse tenerli più a lungo, salta fuori la storia dei dieci missionari che partono da Milano per la Mauritania. Non ci voleva, ma la curiosità fece il suo dovere. Furono accompagnati da un prete, disse Maurizio, dopodiché capii che doveva iniziare, da cinque o sei chiatte zeppe di cibo e vestiti, ed un furgone. Descrisse minuziosamente tutto l’itinerario dei viaggi fantasmagorici attraverso il Sahara, queste dune distese e alte, di là coni e di qua onde sabbiose, sempre il sole al tramonto e la luna piena, certe sere un po’ graffiata, l’accompagnatrice pignola dalla stessa rotondità ovale. Questo accentuò Maurizio, sembrava che la luna volutamente non cambiasse per l’intero viaggio questa forma non perfetta ma ovale. C’erano delle mattine nelle quali si accorgevano meglio dei residui scheletrici di cavalli mescolati con quelli umani, secchi e delicati per via dell’afa infernale. C’erano delle giornate che si trovavano vicini alle tende di varie tribù, e così che Maurizio raccontò la storia con la tribù dei gialli. Li chiamarono gialli non per via del colore giallastro del corpo, ma per una specie di maschera gialla che indossavano sopra il viso con dei lineamenti neri. Questi avevano azzardato delle pretese un po’ particolari. Volevano scambiare la loro merce per le donne della spedizione. Fu inutile l’intervento del prete che, conoscendo la lingua, si dava da fare con le braccia aperte e voce alta, con le mimiche e dittongazioni per spiegare le regole del mercato europeo. Il mercato europeo! Conosceva queste zone come gli angoli della chiesa, e questo gli faceva sperare che quegli orrendi poveracci lo capissero. Quando la situazione fu uscita fuori controllo, e con possibilità che la tribù furiosa e offesa decidesse di attuare violentemente lo scambio, reagendo a un chiaro segno del prete che sottintendeva allarme, gli autisti salirono sopra i camion con la velocità del fulmine, fecero segnali di luce anche agli altri che erano ancora fuori, e volarono attraverso il deserto accompagnati dalle urla delle donne che, terrificate come erano, dimenticarono sopra la sabbia, vicino alle tende, di fianco ad una magra duna, gli slip sporchi che cambiavano sempre ogni mattina. Vagarono così per un paio di settimane, tra caldo e il sudore, le malattie e la febbre, fino a che distribuirono come e dove poterono tutto il materiale: i cibi, i giocatoli per bambini, i quaderni, le matite multicolori. Al ritorno successe che ebbe un guasto l’ultimo camion, lì nel bel mezzo del deserto. Dopo tante discussioni decisero di partire verso il paese più vicino lasciando là ad aspettarli, assecondando la loro richiesta, Michele e Nadia. Questi due, a dire il vero, durante tutto il viaggio si lusingavano a vicenda tramite messaggi sofisticati, sottintesi; era forse il deserto che evocava le sirene d’amore, faceva sì che si dimenticassero di essere sposati, faceva sembrare lontano il matrimonio, come se riguardasse gli altri e non loro. Erano magici anche quei cespugli esili di là e di qua, il sole fiammeggiante al tramonto. Avevano aperto la loro tenda a fianco ad una piccola palma, l’unica palma, ed erano accostati ad una oasi magnifica, come un grande occhio blu in un viso pallido. Avevano fatto l’amore sotto la tenda, e quindi ebbri di un entusiasmo viscoso, vuoi per la passione, vuoi per via del cielo nero carbone, adornato di stelle che ballavano sotto un ritmo di valzer, decisero di immergersi cosi com’erano, nudi e sudati nell’oasi intrigante e graziosa, con acqua calda e plasmata come l’olio. Dopo aver sguazzato come due papere felici, misero addosso qualcosina di leggero,si buttarono sotto la tenda, sopra un grosso asciugamano disteso sulla sabbia. Bastò tutto ciò. Il sesso, la stanchezza e il caldo fecero il loro, caddero in un sonno profondo e dormirono senza sosta fino a tarda mattina. Appena desti si accorsero di un paio di occhi rossi e fiammeggianti che li osservavano da sopra. Parecchi occhi e teste oblunghe. Si alzarono in fretta come paralizzati dalla paura, e capirono che erano circondati da una tribù di circa una trentina d’uomini. Tutti neri come la notte, con addosso dei mantelli bianchi come la neve. Notarono anche il capo, seduto accosciato in mezzo alla folla. Non c’è bisogno che gli altri lo facciano sapere, hanno imparato a riconoscere i capi. Si distingue un capo, si distingue dal modo in cui muove gli occhi per osservare, come si accoscia in mezzo alla gente, da una piccola bacchetta nella mano destra con la quale disegna sopra la sabbia segni e forme, e da un bastone nella mano sinistra con il quale dà dei colpi alle calcagna dei sudditi, quando vuole uscire dal cerchio. Il nostro capo del Sahara non sembrava molto bendisposto, nemmeno gli altri. Da lì in poi venne chiarito come fossero profondamente offesi dal fatto che avessero osato usare l’oasi, lavarsi e risciacquarsi laddove loro, ogni mese si fermavano una intera notte, e lungo la quale adoperavano l’acqua per i loro bisogni. Tutto ciò venne chiarito in un italiano chiaro e puro da un membro della tribù, che guarda caso era emigrato in Italia e si chiamava Safà. Dopo aver discusso relativamente a lungo con i ragazzi, chiedendo loro delle spiegazioni e ascoltandole con attenzione, Safà partì verso la tenda del capo e stette lì un bel po’. Poi lo videro uscire e dirigersi verso di loro con due coppe in mano. Era una specie di latte fresco, dolce e denso, come il salep, e lui aveva un sorriso delizioso mentre lo offriva. Questo diede grande speranza ai ragazzi che lo presero per un chiaro segno di riappacificazione, e ragionando così, ringraziando con tante reverenze a destra e a manca, con gli occhi spalancati di felicità e movimenti delle mani, con tanto d’inchini e incurvature, prosciugarono d’un fiato lo strano liquido. Come raccontò Maurizio, sia Nadia sia Michele, caddero letteralmente nel sonno.
Fu cosi che, secondo la testimonianza di Maurizio, venero uccisi, poi spellati, e poi stufati sopra un fuoco improvvisato. E in seguito serviti per pranzo. I due amanti sconsolati finirono nelle pance buie della tribù, ed ovvio, la parte migliore, quella piu tenera, nella pancia scortecciata del capo. Quando la Lucia chiese con lo sguardo atterrito “il perché”, Maurizio aggiunse alzando le spalle ”E’ il capo, o no..? è chiaro!” .
Verso il tramonto, al ritorno, gli amici degli sventurati trovarono vicino all’oasi solo le ossa dure, quelle che non si potevano addentare. Come lo capirono? Maurizio non seppe chiarire bene come e perché si capì che le ossa erano dei nostri ragazzi. Presumibilmente dal reggiseno blu appeso sopra le foglie della palma, o dai pantaloni di Michele piegati per bene sotto due teschi bruciacchiati. Così che appena finì di raccontare chiuse il discorso e cominciò a pulire gli occhiali.
La situazione diventò tesa. La Emma si alzò per prima e disse:
Leggenda metropolitana di merda !la nostra ignoranza che vuole accomunare l’emigrante africano con una tribù di cannibali! la solita buffonata!
Aveva detto questo e chiamato il cameriere. Mentre Lucia aveva mormorato:
Beh … a dire il vero stelle mie, questi qui, sono aumentati che non ce la facciamo più….e chi me lo assicura che non ci sbranino quando gli girano i coglioni!– ma appena si era imbattuta con lo sguardo nervoso della Rina si era affrettata ad aggiungere:
Oh stellina, non per cattiveria,non ce l’ho con te, te sei come noi…– e aveva girato gli occhi verso la Emma come per chiedere aiuto. Però quest’ultima dopo averle buttato un sguardo del tipo “Hai proprio esagerato!”, aveva fatto un secco cenno di saluto, era salita sopra la bici per poi sparire tra le stradine mezze buie. Erano rimasti con lei Maurizio, con i suoi occhialini da grande miope, e la Lucia che si sforzava di calmare la situazione.
Faceva l’impossibile per non dare nell’occhio ma si capiva chiaramente che Maurizio se la rideva e se la giocava, cercava di tenere il tipico atteggiamento dell’intellettuale che sa più di quello che fa vedere. Rina non aveva parlato più, e zitta zitta si era diretta verso il portone del bar con sopra la grande statuetta del Cavallino Bianco. Mentre passava sotto ed appena aveva dato un occhiatina alla criniera bianca, sentì dietro le spalle la voce di Maurizio : ” Eppure… se fossi al tuo posto avrei fatto un po’ di attenzione con i miei amici africani! Inter cultura – Inter cultura ma…l’uomo mangia l’uomo…niente da dire.. è successo. Dammi retta!”
Fu così che era passata la serata, e Rina non aveva chiuso occhio tutta la notte. Non avrebbe voluto, ma gira e rigira le si ripeteva la stessa scena. Le sembrava di vedere Mahmudu andare verso di lei con un bastone a mano. Pare di voler porgerle chissà cosa ma lei scappa e corre. All’inizio a piedi, poi non sa come, ma si curva come un asinello e cavalca. Questo alleggerisce la corsa e lei cavalca e cavalca, sente di cavalcare con mani e piedie si salva. Ce l’ho fatta, pensa, mentre le sembra di essere adagiata sopra una nuvola grande, grigia e fumosa. E allorché le venne in mente che quel giorno sarebbe dovuta andare a una riunione con Mahmudu si indignò. Ecco, ragionò, ma sono cose normali queste …per carità?! E’ come se io andassi in Senegal, per portare degli aiuti al paesino del mio amico Mahmudu, e costui senza il minimo ripensamento, senza vergognarsi, o perché stanco o offeso…mi mangiasse? Ma, è normale questa ingordigia ? E chi poi, Mahmudu? Per carità!
Sentì aprirsi la porta della camera e vide il viso ancora addormentato di Memo che leggendo tutti i suoi pensieri sussurrò:
Ehi!!! Andrai oggi si…alla riunione? – e le fece l’occhiolino – Se avrà fatto una buona colazione difficilmente ti divora stamattina!
Ma Rina tenne duro e resisté con dignità alla sua provocazione. Fece finta di sorridere, come se disprezzasse Maurizio e la sua storia illogica, come se non credesse mai in un probabile tradimento da parte di un presunto emigrante. Insomma fece finta che non le passasse per la mente neanche per un decimo di secondo la terribile possibilità che così, a ferri corti,ad esempio per non aver ancora concluso il progetto I giochi nel mondo, Mahmudu le ordinasse di bere quel liquido denso e bianco, e zag e tac la spellasse per bene, la facesse a pezzi- qui una coscia e un seno, là un dito e un naso. Dopodiché in tempo record, la stipasse nei pacchettini, e quando negli uffici non si fosse mossa anima viva li portasse a casa, dentro il congelatore…E deve averne uno di quelli grossi senz’altro, pensò con il cuore alla gola e gli occhi socchiusi. Fatto questo ha fatto tutto, continuò terrificata. Per mangiarci …mica ci sono dei problemi! Oh mamma, certo che ci mangia, e annuiva con la testa! Una festa oggi e una domani. Mica è un problema a trovare le occasioni, pensava esasperata e quasi svenne dalla delusione.
Intanto Memo stava mescolando il caffè tranquillo, e come se leggesse i suoi pensieri atroci bisbigliò:”Va beh … però …se ci rifletto un attimo … non credo che ti mangerebbe! Ti stima! – affermò con la testa fingendosi serio- Le persone non possono essere cosi ingrate! – e accentuando le parole aggiunse – Si mangia l’altro ma almeno per una causa sana, non cosi…. mi rompi le balle…e ti ingozzo…
Guarda caso in quell’attimo alla TV si vede Kofi Annan. Grazioso, sicuro, con quel passo agile e quella pelle di cioccolata. E mentre Rina stava per spruzzare un po’ di pensieri positivi su quelli sporchi, così come l’ammorbidente dentro la lavatrice che se anche non pulisce almeno profuma e ammorbidisce, sentì Memo esclamare:
In grande forma signor Annan! Avrà scortecciato stamattina qualche poveraccio…si vede…è rilassato…
E basta… – contraddisse lei infastidita- non sono cosi rimbambita!
E mentre diceva “rimbambita” stava contemplando e inconsciamente immaginando Kofi Annan con una coppa in mano e una collana di ossa al collo, una di quelle collane che andavano fino sotto la pancia nuda, liscia e scura. Lo vede mentre si dirige verso il deserto del Sahara come per concludere quello che nella sua mente aveva oramai avuto inizio.
La strada fino a Piazza Vittoria la fece a piedi con le cuffie alle orecchie. Il mattino era cosi attraente, con le viali immersi negli odori di fiori e del caffè, stratificazioni di profumi d’erba, di dolci, di cornetti pieni di crema vaniglia, caldi, appena sfornati. Tutto questo subbuglio, le macchine che vanno e vengono,il ponte dove lei ogni giorno ama dondolarsi appoggiata al muro fissando il fiume e le montagne, le cime degli alberi colmi di castagne e Bob Marley che suona nelle orecchie, Stop the train I’am living! Stop…stop the train I’am living…living again…. tutto ciò le fece tutto d’un tratto dimenticare Mahmudu. A Piazza Vittoria incontrò Khadija, che di suo vide da lontano Sanosy . Sanosy in giorni di festa camminava lentamente come se venisse dritto da Tambakunda, con quella tunica di lino leggero color latte e con i sandali bassi. Gli fece un segno alzando la mano in modo che lui la scorgesse al piccolo bar di fronte alla chiesa di Sant’Antonio. Aveva con sé il tamburo. Offriva ogni tanto concerti per i bambini malati di San Maurizio. Questi bambini saltavano come degli scoiattoli appena scorgevano la esile e alta silhuette di Sanosy, con dietro degli amici griots, carichi di sabar,kora e balafon.
Sanosy arrivò e si sedette in mezzo alle donne, al chè Rina ordinò del caffè, cappuccino e strudel. Spettava a lei visto che l’ultima volta aveva offerto Sanosy. E mentre parlavano di tutto e di più finalmente gli chiese quello che voleva sapere. Se esisteva dove era nato lui il cannibalismo. E mentre aveva a malapena completato la sua domanda si accorse che lui non si era stupito. Rimase un attimo attento ad assaporare in bocca un sorso del caffè. Lo girò tra la lingua e i denti, alzò gli occhi verso il cielo e poi lo mandò giù. Rina ebbe paura che lui si fosse offeso, che adesso si alzasse e andasse via, la lasciasse lì, con il caffè e lo strudel in mano. Ma no, dopo che lui ebbe agitato ancora una volta la tazzina con quel poco liquido rimasto e lo girò di colpo, sussurrò qualche cosa del tipo elhamdulilahi, e disse:
..è da tempo che nonsi usano più questi riti da noi. Magari…non so..nelle zone più disperse e scuotendo la testa chiarisce – si …certo…qua e là puoi anche trovarli…
Qua e là, ripetette la Rina a se stessa, e girò la testa verso di lui mentre Khadihja stava ascoltando con grande attenzione.
Noi siamo amici…no? – disse di colpo e lo guardò come se aspettasse da lui l’affermazione. E di fatto anche lui annuì con la testa, rassicurandola: – “Facciamo finta che io, un giorno … un giorno qualsiasi facessi una visita, là, dove vivi tu. E siccome, io,così … facciamo finta … che tu avessi un’oasi … e decidessi di fare dei tuffi … cioè..facessi dei bagni senza chiederti il permesso … no?- poi schiarì la voce continuando – A questo punto… tu… ti offenderesti a tal punto … ed hai ragione, niente in contrario… insomma tu – e si fermò.
Lei si accorse che Sanosy proprio in quel momento, benché avesse gli occhi fissati sul tamburo e stesse battendo le dita sopra come se volesse convertire il suo discorso in una melodia, la stava ascoltando con tanta premura. Stava aspettando anche lui che lei finisse il ragionamento. Dopodiché smise anche di battere le dita sopra il tamburo e aspettò. Rina fu come si fosse paralizzata con le labbra aperte “come un uovo” avrebbe detto Memo. Le serviva scegliere la frase giusta. “E tu, carissimo Sanosy mi avresti mangiato?”,oppure ”Amico mio mi avresti raschiata e arrostita … per condanna .. .e cosi via onorare la tua tribù!!!”.
Sanosy stava aspettando tutto orecchi, fissando la donna sulle labbra. Dopodiché incurva un sopracciglio come un punto di domanda e le dice:
Je ne comprends pas!
Non intendo tu… – continuò lei – ma … magari la tua gente. Decidono di svolgere quel vostro rituale cannibalesco … la vostra tradizione, niente da dire…intendiamoci! Ma …tu …l’avresti permesso … che mi sbranassero?- e detto questo si accasciò sulla sedia rassegnata. Rimase un po così, con aria stupefatta, come se fosse stata una forza soprannaturale a costringerla a dire quello che aveva appena detto.
Poi guardò il suo amico africano, lo guardò con così tanta compassione che si pentì.
Ma lui non rispose. Si alzò in piedi. Mo sì che si è offeso, si allarmò . Ma ancora no, fu solo perché qualcuno li stava informando che era ora di andare all’ufficio sopra. Allora si alzò anche Rina e proseguì con il suo amico Sanosy. Salirono le prime scale e mentre gli altri andarono a piedi, loro due si diressero verso l’ascensore. Entrarono. Solo loro due. Sanosy e Rina, che lo osservava con un sorriso servizievole e gentile con la speranza che anche lui, così per scherzarci un po’ su, rispondesse con altrettanto senso di umorismo. Anche una frase qualsiasi, nessun problema. Basta che si fracassasse come una vecchia porcellana cinese quella situazione imbarazzante. Ma lui non disse niente. La stava solo contemplando minuziosamente e mentre l’ascensore saliva verso il terzo piano, là dove li stava aspettando Mahmudu, lei avvertì il panico salire dalle piante dei piedi. Non ci poteva credere ma la mente impazzita ripeteva come un megafono rotto,”Ah si,come se non ti mangia, ti divora costui, manda al diavolo l’intercultura e chi l’ha fatta l’intercultura! E mentre continuava a offrirgli sorrisi sdolcinati sentiva il sudore scivolare sulla pelle dal collo e giù. Non smise di pensare, ed esausta da così tanta paura concentrata in una manciata di minuti, si accostò leggermente al tamburo che lì in mezzo sembrava l’unico riparo dai probabili spargimenti di sangue. Arrivarono. Si accorse che il sudore era aumentato e abbondantemente scorreva dal petto sulla pancia. La porta dell’ascensore si aprì,e Sanosy si girò verso di lei. Con l’eleganza da invidiare gettò il tamburo sopra le spalle,l e tese la mano per tirarla fuori,e mentre stavano uscendo le disse:”Rina, ma cheri, stai tranquilla! Non ti divorerò, anche se volessi tu, non lo farei mai”, e girando lo sguardo sul suo corpo smilzo e tremante aggiunse:”Non pesi nemmeno 50 chili mon amie. Non sazieresti neanche il capo, pensa un po’ tutta la tribù!”. Poi scoppiò in una risata meravigliosa come poteva fare solo un senegalese, e continuò a tirarla verso l’entrata della porta dell’ufficio, dove li aspettava, con addosso una camicia azzurra e una giacca blu, Mahmudu. Non sembrava né affamato né arrabbiato. Semplicemente stava lì, ad aspettare. Fu in quell’attimo che sentì la vergogna soffocarla, e tutto d’un tratto si sentì come un punto qualsiasi sopra un foglio pieno di parole. Un punto casuale e inutile in mezzo a decine di parole sensate. Poi si inginocchiò stanca, svuotata, e piombò sul pavimento. I ragazzi non dissero niente. La lasciarono fare. Arrivarono gli altri e non dissero niente. Lei mise il viso tra le mani e pianse a lungo, e bene. Dopodiché tese la mano a Mahmudu e si alzò. Lui la diresse verso l’ufficio. Nel corridoio si sentiva il mormorio dei partecipanti e l’aria fresca che fuoriusciva dal condizionatore. Avvertì anche una leggera melodia sottofondo. Summertime …Billie Holiday…
di Gentiana Minga, per gentile concessione dell’autrice, prima pubblicazione in El Ghibli, rivista online di letteratura della migrazione”, Anno 11, n. 46 , dicembre 2014.
Gentiana Minga , nata il 12 aprile 1971 nella città di Durazzo (Albania). Nel 1993 si è laureata in Letteratura e Lingua Albanese presso la Facoltà di Storia e Filologia dell’Università di Tirana. Subito dopo la laurea fino al 1998 è stata insegnante di lingua e letteratura albanese nelle scuole medie di Durazzo(Albania). È stata per diversi anni bibliotecaria presso la Biblioteca Pubblica di Durazzo e giornalista professionista per una serie di testate albanesi. Dal 2000 vive in Italia, a Bolzano. Ha collaborato e collabora tuttora con diverse riviste letterarie, tra cui Poeteka Trimestrale Letterario Albanese, El-Ghibli, Rivista di Letteratura della Migrazione italiana, Almatea rivista trimestrale di cultura, Salto Bolzano, il portale d’informazione network alto atesino, Enmigrinta bollettino di multi-ultura online in Alto Adige. In quest’ultima è redattrice per la sezione di Bolzano. È membro del direttivo dell’Associazione Rete dei Diritti dei Senza Voce Bolzano, membro sostitutivo della Consulta Provinciale per l’Integrazione degli Stranieri in Alto Adige. Opere edite:- “Autopsia e shkatërrimit” (Autopsia del disastro), (racconti e novelle), (edizione Europa, Tirana, 1993);– “Zonja e Shkodrës” (La signora di Scutari) ( poesie), (edizioneFlorimont, Tirana)- “Abbracciata dalla luce”, (E përqafuar nga drita) di Betty J. Eady (edizione Medaur, Tirana, 2003).- “Se fossi Narin” e “Finchè arriva il giorno”, poesie , antologia “Sotto cielo di Lampedusa II”,edizione Rayela.– “La mamma di Zeqo in cima di cornioli”, narrazione, antologia “Premio Prato città aperta”,edizione Marco del Bucchia, 2016.– “ Ancora tiepido letto” , poesie, “Il Cristallo”, rivista quadrimestrale del centro Cultura Alto Adige, anno LVIII-n.1-aprile 2016.edizione Alphabeta verlag.- Attualmente. Sue poesie sono state incluse in “Muovimenti – segnali da un mondo viandante” –Terre d’Ulivi (2016), e la stessa casa editrice ha appena pubblicato la sua silloge Ciao mamma, un saluto da Bolzano (2017).
Immagine in evidenza di Teri Allen Piccolo.