LUPUS IN TEMPERIE. Intervista ad Andrea Lupo. Seconda parte: indagine sull’ombra (a cura di Marina Mazzolani)

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Le ultime domande ad Andrea Lupo riguardano due delle ultime produzioni del Teatro delle Temperie. Cominciamo da “Il circo capovolto”.

È per “Il circo capovolto” che ho visto in scena Andrea per la prima volta. Molti, tra il pubblico, l’hanno scambiato per un vero Rom. Certo, l’occasione congiurava, visto che nell’itinerario teatrale che il pubblico stava compiendo (vedi, nel n. 3 de “La macchina sognante”: SETTE PAIA DI SCARPE HO CONSUMATE… ovvero addomesticare l’impossibile) in scena c’erano molti strani attori, e quindi un vero Rom con accento straniero ci poteva anche stare, ma la sostanza è che Andrea è molto bravo. È bravo perché risulta vero.

Ancora una volta (vedi prima parte dell’intervista)… semplice!

“Il circo capovolto” è la trasposizione teatrale del romanzo di Milena Magnani, per la regia di Andrea Paolucci, di e con Andrea Lupo. Vuol dire che la trasposizione l’ha fatta Andrea Lupo, che la drammaturgia è la sua. Gli chiedo, quindi, di raccontarci.

L’ultima richiesta è di dirci qualcosa de “Lo stronzo” (che ha debuttato il 25 novembre), ovvero della nuova impresa che lo vede come drammaturgo e regista e unico attore. Dev’esserci stata una grande necessità.

 

Ecco le domande e le risposte di Andrea:

 

 

  • Da “Il circo capovolto” romanzo a “Il circo capovolto” atto unico. Com’è che è andata e… perché?

 

E’ andata così. Milena Magnani, scrittrice de “Il circo capovolto” – ci conoscevamo, per vie traverse – cercava qualcuno che facesse insieme a lei le presentazioni del suo libro, perché la Feltrinelli l’ha mandata in giro per tutt’Italia a presentare il suo libro, dentro le librerie Feltrinelli e anche in altri spazi, molto interessanti. E allora mi ha chiesto se le leggevo alcune parti. Io appena ho letto il romanzo mi sono innamorato di questo personaggio, Branko Hrabal, bellissimo. Un romanzo molto potente, da tanti punti di vista. Milena anche si è un po’ innamorata dell’interpretazione che avevo dato io a certe pagine del suo libro. Ed è stata proprio lei che mi ha spinto, diceva “dai, devi farci uno spettacolo, perché la tua visione di Branko Hrabal è così bella, è così giusta… io proprio lo vedo… sei tu, sei tu”. Io ho aspettato tre anni, e per tre anni l’abbiamo portato in giro così, nelle letture, poi ho detto “vabbè, dai, ci provo”. Mi sono fatto spedire il pdf del romanzo, me lo sono stampato sulle mie pagine, perché a me piace stamparlo in un certo modo, impaginato in un certo modo. Era una roba sterminata, perché sono 170 pagine… non mi ricordo più… L’ho messo per terra, a me piace tanto lavorare così… quindi erano queste 170 facciate, messe lì, sul palcoscenico, e ho cominciato a dividerlo, perché è fatto di tante storie e di tante sotto-storie, questo testo. Ho cominciato a dividerlo in filoni narrativi, per cui c’era sopra l’autostrada di una storia, in mezzo l’autostrada di un’altra e sotto l’autostrada di un’altra storia. Ho cominciato a camminarci sopra – ho bisogno di camminarci dentro, io – e a rileggerlo e a riassumerne delle parti e a vedere se una cosa poteva stare con l’altra, se questo allora riguarda questo o quell’altro… per averne la mappa, mentale e fisica, su cui camminarci sopra. E poi mi sono buttato a riscriverlo, a riscriverlo dal punto di vista di Branko Hrabal… in personaggio… ho prima indossato il personaggio e poi è come se avessi chiesto a lui di mettersi in bocca le parole di quel libro, masticarle, digerirle e restituirmele tradotte a suo modo… ri-vissute.

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La cosa che mi ha convinto a fare questo spettacolo è che dare la voce agli ultimi credo sia uno dei grandi doveri del teatro. Insomma, il teatro ha sempre dato la voce sia ai re sia ai becchini. Faccio l’esempio di Shakespeare e dell’Amleto: parlano i principi ma parla anche il becchino. È stata sempre la grandezza di Shakespeare, questa, far parlare i primi e gli ultimi, e molto spesso faceva dire le cose più belle agli ultimi invece che ai primi. Dare la voce agli ultimi è anche un grande impegno che prendono molte compagnie e che la nostra compagnia ama molto fare, e Branko è proprio l’ultimo degli ultimi, perché era già un “ultimo” prima di sapere la storia della sua famiglia, era un semplicissimo muratore in Ungheria, poi viene a sapere la storia della sua famiglia, la storia di una famiglia Rom circense, sterminata a Birkenau, durante al seconda guerra mondiale. Tutti si ricordano dello sterminio degli Ebrei, pochi si ricordano che sono stati sterminati anche i Rom, oltre ad altre categorie, chiamiamole così, nei campi di sterminio. Lui recupera questa storia e per me era molto importante, proprio lo sentivo come un dovere, dare voce a questa persona e a questa storia molto dimenticata.

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Devo dire che nel percorso dello spettacolo ci sono state due cose davvero straordinarie, che mi hanno molto ripagato della fatica, perché è stato anche molto faticoso, come spettacolo. Una è successa una volta a Torino. Allo spettacolo seguiva il dibattito, per cui ci sono state le domande del pubblico, molto intelligenti, domande davvero belle sul linguaggio, perché io parlo una lingua molto strana, in questo spettacolo, sulla ricerca che avevo fatto sul linguaggio, e sulle scelte, anche drammaturgiche, che sono state fatte per l’allestimento. Stava per finire l’incontro, io avevo trentotto di febbre, stavo malissimo, non ce la facevo più anche perché dopo lo spettacolo sono veramente distrutto – dura 55 minuti, ma sono 55 minuti di cavalcata emotiva davvero molto forte -, e, alla fine, si è alzata una mano, sul fondo, di un ragazzo con una semplicissima maglietta bianca, che si è alzato in piedi e ha detto: “Posso fare domanda anch’io?”. Ho detto: “Certo, puoi fare tutte le domande che vuoi!”. Dice: “Io sono Rom ed anche tutti loro”. C’era tutta la fila, s’era portato tutta la famiglia, tutti i fratelli, perché a Torino c’è da tantissimi anni, da tantissimo tempo, una comunità di Rom e Sinti italiani, residenti, stanziali, non più nomadi. E insomma mi ha fatto uno dei complimenti più belli che mi potessi aspettare, ha detto: “Ti vogliamo ringraziare moltissimo, perché siamo venuti con dei pregiudizi, pensando… che cosa fa questo non-Rom, come si permette di raccontare la nostra storia… invece ti ringraziamo molto perché la nostra etnia Rom, come molte altre etnie Rom condividono questa cosa, che non possono raccontare il loro passato”. Loro culturalmente non possono nominare i nomi dei morti. Mi ha detto: “La storia di mio nonno la so, ma non te la posso raccontare, perché dovrei dire il suo nome, e non posso. Noi viviamo solo il presente e il futuro, non possiamo vivere nel passato”. “Capisco perché siete nomadi”, ho detto, “non avete radici, in nessun senso”. E lui: “Sì, è proprio così. Allora che tu abbia restituito in questa maniera così emotivamente forte, coinvolgente e sentita, la nostra storia che noi non possiamo più raccontare, per noi è molto commovente e ti ringraziamo molto, perché l’hai fatto con grande rispetto e con grande affetto”. Dico, “Guarda, ti ringrazio tantissimo, è il più gran complimento che tu mi potessi fare”. E questo è stato il primo grande successo di questo progetto, secondo me.

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Il secondo grande successo è stato che un’organizzazione Ungherese chiamata European Rom and Sinti Digital and Cultural Archive (RomArchive), è venuta a sapere, non so come, che stavo facendo questo spettacolo. Mi hanno contattato perché volevano sapere chi era quel matto italiano che aveva messo su uno spettacolo in cui il protagonista è un rom ungherese. Io ho risposto: “La mia è una storia inventata, presa da alcune testimonianze reali, ma inventata”. Mi fanno: “Ma a noi ci interessa tantissimo, è un documento prezioso, mandaci qualcosa!”. Ho mandato il testo, in italiano, ho mandato un link al video integrale, e una scheda di presentazione dello spettacolo, in inglese. Loro sono riusciti a vedersi il video, a farsi tradurre delle cose dalla loro interprete e mi hanno chiesto il permesso di registrare questa cosa nel loro archivio perché per loro era preziosissima.

Questi io li considero i due più grandi successi di questo spettacolo unitamente al fatto che in ogni posto dove sono andato a rappresentarlo il pubblico mi ha sempre restituito un grande affetto ed entusiasmo.

©ph.tamaraboscaino2016

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  • Cosa ti ha spinto, Andrea, a lavorare a “Lo stronzo”, ovvero ad indagare sulla violenza inconsapevole e latente che può albergare negli individui maschi della nostra specie, almeno da queste parti (ormai globalizzate)?

 

È una bella domanda. Questo spettacolo chiude un percorso lunghissimo, è la fine di un ciclo. Io ho avuto la fortuna/disavventura di fare anche l’Assessore, nel Comune di Crespellano, per quattro anni. Mi hanno chiesto questa “cortesia” e io sono stato felice di mettere a disposizione le mie poche competenze, per una cosa così alta come la res publica e l’ho fatto volentieri, per quattro anni, poi ho smesso, perché avevo un lavoro a cui tornare. Ero Assessore alle Politiche Giovanili e allo Sport ed anche alle Pari Opportunità, perché quel sindaco, una gran persona, ha detto: “È giusto che delle Pari Opportunità, soprattutto di Genere, se ne occupi anche un uomo”. L’ho trovata una cosa molto intelligente, da parte sua, perché è nostra responsabilità, anche, mica solo delle donne. Abbiamo fatto un bel lavoro, secondo me. In quell’occasione ho conosciuto una donna straordinaria, Letizia Lambertini, che guidava la Commissione Mosaico, che radunava tutti gli Assessori alle Pari Opportunità di questa parte di territorio di Bologna. Ma lei lavora in tutt’Italia, è una libera professionista che si occupa proprio di Pari Opportunità nel senso più ampio del termine. Tra me e lei c’è stato uno scambio di amore e di passione per questo mestiere, che è leggere la realtà, leggere le persone, leggere le comunità. Questo scambio ci ha portato a considerare le Pari Opportunità non solo una questione di Genere, ma una questione molto più ampia, e ci siamo inventati insieme, su una mia idea che lei ha sviluppato in un modo straordinario, le famose tre G: Generi, Genesi e Generazioni. Le grandi 3 differenze, le grandi 3 questioni sulle Pari Opportunità: le differenze di Genere, le differenze di Generazioni, perché è un problema grosso anche quello delle Pari Opportunità fra giovani e anziani, fra pensionati e lavoratori, e di Genesi, ovvero da dove vieni. Dove sei nato conta, purtroppo, nella vita di tutti. Questo mi ha molto sensibilizzato sulla questione delle differenze di Genere, perché abbiamo parlato tanto, abbiamo fatto tanti progetti, abbiamo inventato la Festa delle differenze, apposta, perché secondo me sono da festeggiare le differenze: ben vengano, in teatro sono un grande valore, nella società purtroppo sono considerate molto meno. Tutto questo percorso ci aveva soprattutto fatto riflettere sulle statistiche, che sono terrificanti: il 75 o l’80% delle violenze fisiche sulle donne avvengono all’interno di un rapporto, non ad opera del famoso immigrato violento, né di uno sconosciuto, ma di un ex, un marito, un padre, uno zio… La violenza fisica si consuma all’interno di un rapporto amoroso o pseudo tale. Ma la cosa che interessava ancora di più è che c’è un sommerso di violenze non fisiche che non vengono mai fuori, non vengono neanche riconosciute, perché spesso culturalmente non sono nemmeno considerate violenze: sono incredibili, sono una marea, sono tantissime e sono insite in tutti noi, fanno parte anche della nostra cultura. In questo spettacolo c’è una battuta che a me piace molto. Lui a un certo punto, esasperato, urla alla sua donna chiusa di là da una porta: “Ma allora secondo te, cosa fa di un uomo un uomo?”.

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È una domanda terribile, da farsi, per un maschio, per un uomo. “Cosa fa di me un maschio e di te una femmina? Non possono essere solo dei centimetri di carne” dice Luca “dev’essere qualcos’altro. Io devo capire questo mio essere uomo cosa vuol dire per me e come lo devo esercitare, anche nella nostra relazione. È un valore aggiunto, nella nostra relazione, che io sia maschio, che tu sia femmina? Non vuol dire niente? Ce lo dobbiamo dimenticare? È un problema molto profondo. Di identità, anche. Ci hanno insegnato, in tanti anni: “Fai l’uomo! Fai l’uomo!”. Che cazzo vuol dire, fai l’uomo? Non l’abbiamo capito più. Le nostre stesse mamme ci dicono: “Dai, sei un maschio, fai l’uomo!”. Perché? Cosa vuol dire? Aiutami a capire cosa!”

E allora ci ho pensato tanto, ho cercato di rifletterci molto, ho letto molte cose, ho cercato di studiare, ho parlato con tante persone, ho parlato anche con tanti altri semplici uomini come me: lo studio più interessante mentre preparo uno spettacolo è sempre quello sul campo fra gli esseri umani. Ho parlato anche con persone che l’hanno studiata tanto, questa tematica, ma devo dire che gli stimoli per fare questo spettacolo gli ho ricevuti molto di più da sconosciuti incontrati al bar. Sì, quando preparo gli spettacoli mi piace parlare con la gente al bar. Mentre bevi una birra, chiedi: “Tuo papà cosa ti diceva?”. Ho scoperto delle cose atroci. Gli uomini stessi hanno, nella loro educazione, ricevuto delle violenze micidiali, sulla formazione del loro essere uomini. “Cazzo piangi, sei un maschio!”. Guarda, è una banalità, ma le cose diventano banali perché sono ripetute, e quindi perché sono vere. Una cosa diventa banale perché è talmente ripetuta nella storia dell’uomo, da diventare banale, tanto è vera, per cui rispettiamola per vera, prima, poi diciamo che è banale. Allora sono andato in cerca delle banalità, ho fatto una grande ricerca sul banale. “Cos’è che è banale? Dimmi dai!”. Lo chiedevo a tutti. “Che cos’è, secondo te, banalmente, essere uomini?”. “Ah… Non piangi, sei forte fisicamente…”. Così mi hanno risposto. Ed è vero. Ci hanno inculcato nella testa che essere uomini è quella cosa lì. Che se di notte c’è un rumore… “Ah, vai tu, che sei un uomo”. Ma io mi cago addosso più di te! Posso essere un uomo lo stesso, anche se mi cago addosso? Per cui mi sono molto interrogato su queste banalità, per cercare di capire cosa ci si nasconde dietro, sotto. Poi come faccio sempre ho immaginato un personaggio e ho cercato di indossarlo. E a lui ho chiesto di scrivere questo testo, improvvisando, immaginandolo in diverse situazioni.

E mi sono immaginato un uomo non aggressivo, tranquillo, un uomo comune.

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Ho cercato di costruire un personaggio senza alcuna specifica caratteristica che lo rendesse particolare: un uomo senza alcun trauma infantile specifico, senza alcun esempio di uomo aggressivo in famiglia… senza alcun alibi e senza scuse!

Poi ho provato a calzarmelo addosso e a sperimentarlo… a metterlo alla prova… con suo nonno burbero ma mai aggressivo… con suo padre dolcissimo e vulnerabile… con suo fratello spaccone ma mai violento… con tutti gli esempi di uomo insomma che aveva avuto nella sua crescita e formazione personale e che mai gli hanno portato esempi di violenza o di aggressività nei confronti del genere femminile.

Poi l’ho inserito in un contesto lavorativo di successo e soddisfazione in modo che anche questo aspetto non potesse dare appigli per spiegare nervosismi o reazioni violente.

Poi gli ho assegnato una lunga e felice storia d’amore con Lilli (la sua compagna di sempre)… ed è qui che ho cercato di sperimentare più profondamente il suo essere maschio, uomo, marito.

In quanti modi e a quanti livelli può un uomo usare violenza nei confronti della donna che ama?!

Quanti atteggiamenti o comportamenti che vengono da chiunque riconosciuti come “normali” e non particolarmente violenti sono in realtà veri e propri soprusi?

Quando e quanto e come Luca è stato violento verso Lilli in tutti gli anni della loro relazione, senza che forse neppure lei se ne rendesse davvero conto?

Non solo alcuni uomini ma spesso anche alcune donne non riconoscono come violenti o opprimenti o discriminanti alcuni comportamenti che invece lo sono e in modo spesso devastante per la libertà e l’indipendenza e la stessa identità di alcune donne.

È questo il caso che mi interessa descrivere: una coppia felice, rispondente ad ogni possibile criterio di “normalità” (media su ogni media).

Un uomo comune come può essere chiunque di noi.

E un viaggio intimo e profondo nella sua sensibilità, nella sua forma mentale, nel suo essere uomo.

Cosa fa di un uomo un uomo?

È questa la domanda che mi ha accompagnato per mesi e mesi e alla quale non ho mai avuto la presunzione di dare risposta… ma che mi è servita come fune sulla quale arrischiare un precario equilibrio narrativo e drammaturgico.

Quali sono i pensieri, le reazioni, i comportamenti che comunemente vengono etichettati come maschili?… E lo sono davvero?… E vanno davvero a formare l’essenza dell’essere un maschio?…

Ho poi messo Luca in una situazione stressante che lo portasse a scontrarsi con tutte le proprie certezze e le proprie forme culturali e mentali.

Una situazione che lo mettesse profondamente alla prova e lo costringesse a fare i conti con se stesso e la propria mascolinità.

Ne è venuto fuori un viaggio massacrante in cui ogni caratteristica del maschile ne esce fatta a pezzi, ridicolizzata, banalizzata al punto da risultare non solo obsoleta ma anche inutile e totalmente inconsistente.

Arrivato a questo punto di consapevolezza e messo alle strette da una moglie che se ne vuole andare, Luca ha solo due possibilità, arrendersi e cercare di ricostruire un sé maschile differente e nuovo e personale, oppure richiudersi, irrigidirsi, rifiutare l’evoluzione e scacciare ogni dubbio e ogni possibilità di cambiamento e crescita compiendo il gesto estremo e risolutivo: eliminare ciò che lo fa sentire così inadeguato e incapace… eliminare il differente… abbattere quella maledetta porta che lo separa dal femminile che non riesce a comprendere né a tollerare più…

Luca sceglie la violenza, l’aggressività… sceglie di non capire… sceglie di non scegliere… e lascia che il suo essere maschio per esser maschio, ancora una volta, abbia bisogno di opporsi fino allo schiacciare fino al distruggere il suo opposto… l’essere femmina.

Una sconfitta per ognuno di noi… una vergogna per ogni uomo…

Uno spunto di riflessione spero… perché mi piacerebbe che usciti da teatro gli uomini ripensassero a tutti quei piccoli gesti quotidiani in cui il loro essere e sentirsi uomini prevede in qualche modo l’umiliazione o l’oppressione dell’essere femmina… perché mi piacerebbe che le donne uscendo da teatro riconoscessero di essere ferite un poco ogni giorno… e non lo permettessero più a nessuno.

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http://www.teatrodelletemperie.com

 

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Andrea Lupo

Attore, regista e autore, si diploma al corso europeo superiore di prosa nel 1995 presso la Scuola di Teatro di Bologna “Alessandra Galante Garrone”. Riceve diversi riconoscimenti e premi fra i quali la segnalazione come “miglior attore emergente” al premio Ubu 2000 per lo spettacolo Kvetch. Nel corso degli oltre vent’anni di carriera lavora sia nel cinema, che nella televisione e per la pubblicità. In teatro, come attore, con i principali registi italiani, tra i quali Lorenzo Salveti, Walter Pagliaro, Vittorio Franceschi, Sergio Maifredi, Tonino Conte, Nanni Garella, Luigi Gozzi, Alessandro D’Alatri. È autore, regista e drammaturgo di produzioni teatrali, cortometraggi e libri.

Dal 2006, con altri giovani artisti, dà vita alla compagnia Teatro delle Temperie di cui è direttore artistico e per la quale cura i progetti culturali, organizza e conduce corsi e laboratori di teatro, è regista, attore e autore.

Dal 2013 si avventura nella scrittura di libri illustrati per l’infanzia pubblicando una collana di quattro testi ai quali sono ispirati altrettanti spettacoli di teatro ragazzi.

Riguardo il macchinista

Marina Mazzolani

Marina Mazzolani Vive a Imola. Laureata in Architettura a Venezia, si occupa di teatro dal 1977. E’ attrice, regista, drammaturga, ideatrice e organizzatrice di eventi culturali, direttore artistico. Scrive poesie e altro. Progetta azioni e percorsi teatrali ed artistici con forti valenze sociali, come induttori di movimento (motus contra status quo). Collabora o partecipa a progetti di altri.

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