L’ultimo amore di Aristotele, di Paolo Zardi

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L’avevo conosciuto più di quarant’anni prima, quando entrambi eravamo ospiti in un collegio per studenti universitari indigenti, un luogo un po’ tetro gestito da un’associazione benefica a sfondo religioso che consentiva a ragazzi come noi, orfani, diseredati, esuli o figli di operai, di arrivare a laurearsi. C’erano persone da tutta Italia, tutte brillanti, e tutte intenzionate a riscattare, attraverso la cultura, un passato di rinunce e sacrifici. La prima volta lo incontrai in mensa, o almeno così ricordo, io studente di filosofia dell’ultimo anno, e lui da poco iscritto a matematica. Avevamo amici comuni, gente del mio paese che lui aveva conosciuto sui banchi di scuola, e nonostante la differenza di età, e sebbene politicamente fossimo agli antipodi – io leggevo “Il capitale”, lui alcuni libricini di mistica fascista che aveva recuperato non so dove – trovammo molti punti in comune: il gusto per la provocazione intellettuale, una sana vis polemica, una spavalderia che, lo capii molto tempo dopo, era strettamente legata alla nostra giovane età. La sera, dopo lo studio, ci incontravamo in biblioteca e là ci sfidavamo come due retori ateniesi; a volte attorno a noi, spinto dalla curiosità si riuniva un gruppetto di persone, e la presenza di quel pubblico ci rendeva ancora più competitivi. Lui, cattolico, era convinto che l’esistenza di Dio potesse essere dimostrata come un teorema matematico; io, ateo militante, tentavo in tutti i modi di smontare le sue strampalate conclusioni. Quasi sempre si finiva col tirare fuori una bottiglia di vino e uno di quei salami che mia madre mi regalava quando, ogni due o tre mesi, tornavo a casa, e quel rito conviviale, quella condivisione così elementare, eppure così profonda nel suo significato più intimo, appianavano ogni divergenza. Altre volte, invece, ci davamo una mano, e questo accadeva specialmente nel periodo in cui ero assorbito nella compilazione della mia tesi di laurea; allora lui cercava, spulciava, scavava, tra i volumi della biblioteca universitaria, convinto che la filosofia avesse bisogno anche del contributo di una mente matematica e razionale come la sua. Mi laureai a pieni voti e quindi, poco dopo, come prevedeva il regolamento, dovetti abbandonare il collegio. Ci salutammo con calore, promettendoci che non ci saremmo persi di vista. Tornai a trovarlo spesso, e lui mi raccontava dei suoi progressi universitari. Si era messo in testa di studiare la matematica degli antichi greci partendo dai testi originali, un lavoro filologico di indubbio valore. Gli alessandrini, mi diceva, avevano raggiunto vette speculative che con il tempo erano state dimenticate; esisteva un corpus di opere, spesso arrivate a noi attraverso le traduzioni di alcuni arabi degli inizi dell’undicesimo secolo, che era ancora tutto da esplorare. In quell’amore per i testi intravedevo un po’ dell’affetto che l’aveva legato a me. Si laureò con una tesi piuttosto importante, che fu poi tradotta anche in Francia; andò a lavorare alla Sorbona, e poi in America. Tornò in Italia che aveva già trentacinque anni. Io, nel frattempo, ero diventato professore di Estetica all’Università – mi occupavo soprattutto di San Tommaso, per il quale nutrivo un’ammirazione trattenuta: allora mi sembrava impossibile che una mente acuta come la sua fosse incappata in quell’errore madornale che io chiamavo teologia. Quando gli raccontavo i miei dubbi, lui mi diceva che non la pensava così, e ma in fondo conosceva poco l’argomento e le sue erano speculazioni tanto acute quanto ingenue. Continuammo a frequentarci, seppure saltuariamente. Mi volle come testimone alle sue nozze, che celebrò con una donna che incarnava tutte le sue idee più retrograde su famiglia, educazione dei figli, rapporti tra i coniugi; però, al di là delle sovrastrutture che ingabbiavano il loro matrimonio, erano felici in modo sincero: vedevo, nei loro sguardi innamorati, tracce di una sensualità che forse non sarebbero stati disposti ad ammettere. Poco dopo entrò in politica, pur mantenendo la sua cattedra di Matematica 2. Coerentemente con il suo percorso, scelse di schierarsi dalla parte dei “valori tradizionali”, come diceva lui. Qualche volta ne parlammo ma l’agonismo leggero delle nostre gare dialettiche giovanili aveva lasciato il posto alla presuntuosa arroganza che ciascuno intravedeva nell’altro: le reciproche posizioni si erano consolidate fino a diventare parte di noi e nessuno dei due era disposto a cedere un centimetro, su niente. Presto iniziammo ad evitarci, perché sapevamo che i nostri punti di vista erano inconciliabili. Un inverno lo incrociai mentre andava a spasso con la moglie e i suoi due figli, imbacuccati come se fossero sul punto di partire per una spedizione antartica. Ci salutammo, fingendo un grande entusiasmo per quell’incontro fortuito; ma dopo cinque minuti di convenevoli, non sapevamo più che dire. Un’altra volta lo vidi in televisione, a una tribuna politica, dove aggrediva una femminista che rivendicava maggiori diritti per le donne, e per un attimo mi chiesi dove fosse finito il ragazzo vivace che avevo conosciuto. Poi, per anni, il silenzio, fino a quando non ho letto sul giornale una notizia che lo riguardava. Alcuni suoi studenti avevano fatto girare delle foto in cui lui, il loro professore, se ne stava nudo, legato con delle manette a un letto, mentre una specie di amazzone, nuda pure lei, ma molto più giovane, brandiva una frusta. Sul momento sorrisi di fronte a quella ridicola, e prevedibilissima, nemesi: in fondo, pensavo, se l’era cercata, e non poteva che finire così. Ma quando lo incontrai, durante una delle mie lunghe, lente, penose passeggiate serali (sei mesi prima mi ero fratturato un femore e ancora mi trovato impelagato in quel faticoso percorso di recupero), provai una stretta al cuore. Se non ricordavo male, aveva tre anni meno di me, ma sembrava più un settantenne che un uomo entrato da poco nella sessantina: i riccioli neri che che ricoprivano la sua testa di brillante studente di matematica, e che avevo visto bianchi, ma ancora folti, quando l’avevo incrociato mentre se ne andava a spasso con la sua famiglia, non c’erano più; e anche il sorriso, che non aveva perso neppure quando era entrato in politica, si era trasformato in una smorfia di sdegno e amarezza. Forse era malato; forse stava morendo. Mi fermai con lui, perché non potevo, moralmente parlando, sottrarmi al suo disperato bisogno di confidarsi con qualcuno; ma c’era freddo, là in strada, e così entrammo in un’enoteca frequentata per lo più da ragazzi, probabilmente studenti universitari, ci sedemmo a un tavolino e ordinammo un bicchiere di rosso: a distanza di più di quarant’anni, eravamo di nuovo uno di fronte all’altro, come ai vecchi tempi, senza mogli, figli, studenti o giornalisti a distrarci. Il tempo aveva svolto pazientemente il suo lavoro sui nostri corpi: io portavo la dentiera, anche se forse non di vedeva, e lui aveva un paio di occhiali spessi come il fondo di una bottiglia; sulla fronte, ora ampia, c’erano diverse macchie ed escrescenze, nei e rilievi cheratinici, e io, in cambio, facevo attenzione a tenere nascosta la mia mano sinistra, che da un po’ aveva preso a tremare con insistenza sempre maggiore. Però su di lui si era accanito una forza cattiva che forse mi stava ancora risparmiando. Ma anche se lui era messo peggio, tutti e due avevamo perso il vigore dell’età adulta, quella forza ferma e virile che ci aveva allontanato, e in cambio era tornata un po’ di quella vulnerabilità che ci aveva uniti quando eravamo ancora convinti che le parole potessero plasmarci, e trasformarci. Brindammo un po’ incerti al nostro incontro; poi, quando entrambi fummo più rilassati, lui iniziò a raccontarmi quello che era successo.

“Mi sono innamorato. Non sarebbe dovuto succedere, ma mi sono innamorato. Non l’ho scelto: è successo, come succede che un ponte crolli o un fulmine si abbatta su un albero secolare. Avrei dovuto resistere, ma non ci sono riuscito, lo ammetto. Mi sono lasciato trascinare dalla passione, senza considerare troppo le conseguenze di quello che stavo facendo. È colpa mia, su questo non c’è dubbio. Sai cosa dicono alcuni miei colleghi? Che la famiglia mi stava troppo stretta. E credo di sapere cosa stai pensando, adesso… Che avevo scelto un regime di vita troppo rigido per poter essere sopportato per lungo tempo. Lo stai pensando, vero?”

A differenza di lui, non ero solito ragionare in termini di colpa – il cattolico era lui – però c’era andato vicino. Si era imposto un cilicio e le ferite si erano incancrenite. “Ti conosco da molto tempo, ho visto come ti sei trasformato. Ora, però, assomigli di nuovo al ragazzo che avevo conosciuto al collegio. Sembri meno sicuro delle tue idee e questo di per sé non è una cosa negativa”. C’era un’aria di fallimento, nella sua faccia, ma non gli stava male addosso, perché conteneva tracce importanti di libertà.

“Ho lasciato che l’amore mi travolgesse e sono andato a fondo”. Mentre lo diceva, pensavo alle foto di lui con le manette: cosa c’entrava l’amore? Glielo chiesi, forse per provocarlo.

“L’altro giorno” mi ha risposto, divagando “ho letto un articolo su di me. Era su un sito di pettegolezzi. Il mio medico cerca di convincermi che farei meglio a disinteressarmi di quello che dicono gli altri, ma io sono curioso, lo sai. Il giornalista diceva che mi ero reso ridicolo di fronte al mondo. Anche i miei studenti lo pensano. Dopo la divulgazione delle foto, avrei voluto continuare a insegnare, ma ho dovuto smettere. Durante le lezioni in aula li sentivo ridere per tutto il tempo. Ridevano per quello che mi era successo.”

Non era facile, per me, che pure ero di vedute più ampie delle sue, ritenere che i suoi studenti e i suoi colleghi, sbagliassero nello sghignazzare alle sue spalle. Insomma: avevano ragione a farlo, il mondo andava così da migliaia di anni, ὕβϱις kaí νέμεσις. Poiché stava zitto (forse aveva finito la riserva delle poche forze che gli erano rimaste), gli raccontai una storia.

“Aristotele aveva delle idee terribili, sulle donne. Le considerava irrimediabilmente lussuriose e incapaci di controllare i loro desideri. Un pericolo per gli uomini, o quantomeno un fastidio serio, da tenere sotto controllo. Era un bacchettone, se vogliamo dirla tutta, e in questo tu gli assomigli”.

“I greci non erano bigotti”.

“Ti sbagli. I greci avevano un rapporto molto problematico con il sesso, pieno di precetti, idiosincrasie, leggi – solo che queste leggi, queste idiosincrasie, questi precetti, terribili e durissimi, erano diversi dai nostri. In ogni caso, il suo pensiero sulle donne si è tramandato per secoli, condizionando pure il cattolicesimo, che, come sai meglio di me” (non era vero, ma mi piaceva stuzzicarlo in quello che lui riteneva essere il suo campo) “è sempre stato terribilmente aristotelico in tutto. Intorno al tredicesimo secolo, Jacques de Vitry, un teologo e cardinale francese, in suo sermone raccontò che Aristotele, il sommo filosofo, un giorno aveva rimproverato Alessandro il Macedone, suo allievo, di trascurare gli affari di Stato per la moglie. E la moglie di Alessandro, la bellissima Fillis, cosa fa? Decide, comprensibilmente, di vendicarsi. Lo fa innamorare e poi gli promette di concedergli i suoi favori se lui prima acconsente che lei lo cavalchi, seduta sulla sua schiena… e quel bigotto di Aristotele aveva ceduto, ovviamente. C’è anche un quadro di Lucas Cranach che li ritrae impegnati nel loro passatempo. Come è possibile, infatti, resistere all’amore? Ma era tutta una messinscena: Alessandro, avvertito della moglie, aveva assistito, senza essere visto, all’umiliazione del suo maestro. Lo scopo era solo quello. La storia viene ripresa qualche anno dopo, con qualche variante, in un poemetto di Henri d’Andeli, un altro canonico medioevale. Da quel momento in poi il povero Aristotele è stato rappresentato un po’ ovunque in quella posizione: lui a quattro zampe, e sopra la sua amante”.

Lui mi fissò come se stesse cercando di cogliere un qualche tipo di verità non evidente, nella mia storia. Dopo un po’ scosse il capo.

“Cosa c’entra Aristotele con me?” mi ha chiesto fissandomi negli occhi.

“La storia l’ha punito. La storia l’ha punito con l’amore. Ogni volta che qualcuno prova a negare la nostra vera natura, finisce a quattro zampe. Non è quello che è successo anche a te? Se ci provano così tanto gusto, adesso, è perché hai passato la tua vita a condannare tutto quello che andava fuori dal recinto della famiglia, delle regole sociali – tutto ciò che c’era di animale, e vero, in noi. Ti ricordi le povere anime dell’inferno costrette a subire la pena del contrappasso? A te hanno anticipato la pena, ti sta succedendo in vita e questa è una cosa veramente dolorosa. Ti sono vicino, da questo punto di vista. La tua privacy è stata violata. Ma era quello che molti speravano che prima o poi accadesse: che tu inciampassi. Chi è l’Alessandro Magno che si è vendicato su di te?”

Lui spostò lo sguardo oltre il vetro del locale, verso la strada dove ragazzi e ragazze camminavano a braccetto, o in piccoli gruppetti compatti. Li indicò con un dito.

“Sai meglio di me” mi disse “che tipo di irruenza… di irruenza sessuale riempa le vite dei ragazzi di quell’età. I loro corpi sono belli senza che questo richieda alcuno sforzo. Possono fare l’amore tutte le volte che vogliono. Hanno una fantasia sfrenata – non credi che sia così? Non si tirano indietro di fronte a nessun esperimento sessuale”. Pensai che quella lezione non gli fosse servita a nulla, che fosse rimasto il moralista che avevo conosciuto; ma lui intuì e mi fermò ancora prima che potessi farglielo notare: “Non mi interessa condannarli per quello che fanno. Sono adulti. Sbagliano ma sono affari loro. Il problema è: perché ridono di me? Tu dici che si vogliono vendicare. Io invece credo che ridano di me perché sono vecchio. Non importa il fatto che io sia il professore più temuto della facoltà: ridono di me perché secondo loro io non avrei lo stesso diritto di esprimere, sì, esprimere la mia sensualità, in una qualsiasi delle sue forme. Ridono di me perché sono ridicolo, e sono ridicolo perché non dovrei lasciarmi infiammare dall’amore a questa età”.

Scossi il capo. “Amore?”

“Cosa sai delle foto?”

“Quello che ho letto sui giornali. Le corde, la frusta, tu nudo”. Era molto imbarazzante, tutto questo.

“Be’, ti confesso una cosa”. Si avvicinò a me, appoggiando i gomiti sopra il tavolo; da vicino sembrava ancora più vecchio, e più moribondo. “Quelle che sono uscite sono solo la punta dell’iceberg. C’è stato di più. Molto di più. Capisci cosa intendo? Eppure, io ti dico che anche questo è amore. Il desiderio che ho sentito è amore, la voglia di vederla è amore. Mettere il mio corpo nelle sue mani perché ne faccia quello che vuole? Stringere il suo tra le mie? È amore. Il sudore, la foga inarrestabile, l’ansimare selvaggio, le porcherie… È amore, non è nient’altro che amore. Perché non lo ammettono anche loro che ogni amore è ridicolo, se lo guardi da fuori? E quindi sì, è ridicolo anche il mio; nondimeno, è amore. La mia famiglia è distrutta, mia moglie vuole chiedere il divorzio, i miei figli non mi parlano, all’Università non posso più entrare in un’aula… Eppure non mi rimprovero nulla. Quanti anni ci ho messo per capirlo? Non mi importa. Alla fine ci sono arrivato. Ciò che conta è solo questo. L’amore”.

Avrei voluto rispondergli che non c’era alcunché di esclusivo, nell’amore che stava provando: in qualche modo, più o meno ci eravamo passati tutti, una volta nella vita; solo che lui aveva scelto il momento sbagliato, e questo era il primo problema, e aveva una famiglia alle spalle, e e questo era il secondo, e non era stato abbastanza accorto nel coprire quello che aveva fatto, e questo non era neppure l’ultimo dei suoi problemi. E poi c’era la morale, e anche qualcosa che aveva a che fare con l’etica del padre di famiglia, il suo Dio e perfino la legge dello Stato, che regolava i rapporti tra coniugi in modo abbastanza chiaro; ma guardandolo mentre con gli occhi umidi di pianto seguiva i movimenti dei ragazzi in strada, rimasi zitto: non avevo niente da dire. Quarantacinque anni prima, nella grande biblioteca del collegio, avevamo sperimentato il piacere di confrontare le nostre idee come se non avessero nessun peso, nessuna rilevanza; poi, diventati adulti, abbiamo lottato come se fossero davvero importanti, parti costitutive delle nostre vite. Ora, a quel tavolino, lui era arrivato a parlarmi da essere umano a essere umano, senza nascondersi dietro a nulla, e io non potevo fingere di non aver ascoltato quel suo invito a essere, per la prima volta, me e basta.

Nelle settimane successive lo chiamai spesso – temevo che prima o poi avrebbe preso la terribile decisione di suicidarsi – e gli feci coraggio. Mi raccontava le piccole cose che gli succedevano durante il giorno con una tenerezza quasi femminile. Non volle mai dirmi se la storia d’amore con l’amazzone stava andando avanti, ma quando, pochi mesi dopo, finì, io lo capii immediatamente, perché ci fu come uno schianto. Uscimmo insieme, una sera, ed era prostrato. La moglie lo aveva riaccolto in casa, ma gli aveva imposto condizioni terribili. Non riuscivo a immaginare quanto sarebbe sopravvissuto; e tuttavia, piegato dal dolore, sfigurato dall’umiliazione del proprio ritorno, mi disse, stringendomi le mani, che non era pentito. All’approssimarsi della morte, che ormai entrambi avvertivamo vicina, seppure non così imminente, aveva avuto un’ultima possibilità di sperimentare la forza travolgente dell’amore, e come Aristotele, si era lasciato cavalcare dalla passione. Non si era tirato indietro: sarebbe morto senza rimpianti. Lo ripetei anche al suo funerale, cinque mesi dopo. Le persone possono scegliere di seguire le regole per tutta la vita, ma arriverà sempre il momento nel quale devono fare i conti con la passione vitale. Lui, dissi indicando la bara di mogano scuro al centro della navata, era un uomo pieno di passione che però aveva scelto di rinnegarla. Per quanto la sua scelta ci abbia feriti (e qui guardai la moglie, ora vedova, distrutta, ma forse sollevata per la fine di quella pena), dobbiamo riconoscere che ci ha insegnato qualcosa su di noi: sulle nostre debolezze e sulla nostra forza. Nessuno dei presenti sarebbe stato disposto ad ammetterlo; eppure, era proprio così. La sera, quando sono tornato a casa, mi sono ritirato nel mio studio – avevo bisogno di silenzio. Ho ripensato allo sguardo folle e felice della foto in cui lui si faceva frustare da una sua studentessa. In effetti, era proprio amore.

 

Inedito, per gentile concessione dell’autore. LogoCC

Lucas_Cranach_d.Ä._-_Phyllis_und_Aristotle_(1530)

 

images-10Paolo Zardi è nato a Padova nel 1970. Ingegnere, ha esordito nel 2008 con un racconto nell’antologia Giovani cosmetici (Sartorio). Successivamente ha pubblicato le raccolte di racconti Antropometria (Neo 2010) e Il giorno che diventammo umani (Neo 2013), il romanzo La felicità esiste (Alet 2012) e il romanzo breve Il Signor Bovary (Intermezzi 2014). I suoi racconti sono stati pubblicati su “Primo Amore”, “Cattedrale”, “Rivista Inutile” e “Nuovi Argomenti”. È il primo autore italiano ad essere stato tradotto e pubblicato sulla rivista “Lunch Ticket” dell’Università di Antioch (Los Angeles). Cura il blog grafemi.wordpress.com.

 

 

 

Immagine del quadro di Lucas Cranach da Wikimedia Commons.

Foto dell’autore a cura di Paolo Zardi.

Immagine in evidenza, foto di Tracy Allen.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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