L’INEVITABILE ANDRÉS CAICEDO – Un racconto di Adriana Villamizar Ceballos (Colombia)

54228786_1937721549673608_5425480800877412352_n

L’INEVITABILE ANDRÉS CAICEDO

Adriana Villamizar Ceballos

Traduzione di Lucia Cupertino

A Rosario Caicedo e, naturalmente, a mia madre, presente in ogni suo ricordo.

L’inevitabile inizia a Cali nel 1977, ho tredici anni e ho appena finito il terzo anno delle superiori. Sono stata ammaestrata, o così crede Ofelia, che supervisiona la buona condotta e cammina lungo i saloni vigilandoci, allo scopo di farci diventare una delle tante api che sottoposte a “tensione e ritmo”, come recita l’insigne scudo della nostra scuola, si sentono nella migliore scuola di Cali rivolta a ragazze perbene, dove si “educano” le più decenti, le più intelligenti, le più carine, le più, sempre, le più.

Provo rabbia, perchè sì, perchè no, per tutto. E come non arrabbiarsi quando si sta per compiere quattordici anni. Mia madre ha deciso di punirmi ogni fine settimana, non mi sopporta più. Nessuno sopporta la mia ribellione precoce, il passaggio dal terzo al quarto e la scoperta di verità, finora per me velate.

In uno di quei castighi, diventati troppo frequenti, ho iniziato a fumare, e anche a scrivere. Avevo già scritto prima, ma in questa transizione dai tredici ai quattordici è giunto l’inevitabile, la convinzione, l’illuminazione, o come vogliate definire quell’incolume sentenza di voler dedicare la vita ad imbastire storie.

Molto piccina, non so, avrò avuto otto o nove anni forse, conservavo con tanta premura “i miei romanzi”, mia madre mi ha riferito che li chiamavo così. Ma non riesco nemmeno a ricordare di cosa trattassero, il poco che mi viene in mente sono i quaderni coi fogli a quadretti della scuola, la stanza nel minuscolo appartamento in cui vivevamo noi cinque, e io, di nascosto dai miei genitori a scrivere. Ricordo un riquadro che disegnavo nella parte superiore, certo, ora lo so, e dove riportavo tratti o la figura di chissà quale sgorbio che stavo cercando di disegnare. Sotto il disegno, la storia, si trattava di un tentativo di graphic novel? O peggio, e perché no, un’imitazione dei fotoromanzi che mia zia leggeva così insistentemente e mi propinava affinché non interrompessi l’incontro col suo fidanzato di turno?

Continuo a non ricordare di cosa trattassero quelle storie. Quella delle vacanze del ‘77 la ricordo bene, ce l’ho ancora, anche se non so come sia sopravvissuta di fronte a tanti cambiamenti di casa e ai miei eterni traslochi. Quell’ultimo rimprovero di mia madre lo soffrì come una condanna, ma davvero fu molto particolare, non solo per quella sigaretta dopo l’altra che le rubavo dal portafoglio per vendicarmi degli innumerevoli giorni rinchiusa in casa. “Non puoi andare neppure da Marcela”, mi disse, al che mi piantai alla finestra e gridai furiosamente alla mia amica che non potevamo giocare ad essere Sophia Loren e Brigitte Bardot. La signora Clara, la madre della mia amica, era forse l’unica ad avere un senso di tregua e il tempo di nascondere gli abiti da festa e le poche scarpe col tacco che non avevamo fatto fuori io e Marcela.

Una domenica sera mia madre viene e si siede di fronte al mio letto: hai iniziato a fumare, vero? Sì, certo, dico piena di me. Sono abbastanza grande per decidere se fumare o meno. In quel frangente, e con la stessa serietà, prende la mia merenda settimanale dalla sua borsa e me la dà. Inutile dirti di non fumare, visto che anch’io fumo, ma se fumi da così giovane età, fammi il favore e vedi di spesarti il tuo vizio, non finanzierò le sigarette che ti metterai nei polmoni. La sua argomentazione mi sembra più che giusta, ma alla fine non si degna di riparlare del togliermi il castigo.

Nell’anno scolastico che sta finendo ho seguito le regole imposte, fino a sentirmi di tanto in tanto la più a modo di tutte, ma sono cominciate anche le passeggiate al centro commerciale nord, appaiono i ragazzi con le loro Susuki, Yamaha e Kawasaki. Tuttavia, mio padre mi racconta qualcosa che assomiglia a un film horror, al pronto soccorso dell’Hospital Departamental hanno messo alcuni pazienti nella sala che prima chiamavano Kawasaki, e poi hanno soprannominato “Kaspasaki”, ribattezzato così perché lì ci va a finire una caterva di morti e feriti per andare in moto.

Pochi giorni fa sono morti tre amici. Fa molto male perchè è la prima volta che un amico muore. Erano su una moto tutti e tre all’alba, drogati, ubriachi, così si dice. Si risvegliano allora la rabbia, il desiderio di andare contro tutte le regole che ci vogliono imporre. Perché loro? Perché, se li vedevo tutti i giorni, camminando per il nostro isolato senza dare fastidio a nessuno?

E allora comincio a scrivere, non sapendo se sarà un romanzo, un racconto o chissà che diavolo. Con rabbia mi chiedo cosa c’è oltre la morte, esiste qualcosa? Qualcuno che possa rispondere alle mie domande o alle domande che tutti ci facciamo? Per l’avvenuto c’è molto dolore. Oggi è lo stesso, la tristezza di sapere che non vedrai più la persona che ami, che è scomparsa e basta. E poi la rabbia ritorna, monta ancora di più perché hanno separato il nostro gruppetto dalla scuola, spaccato in due, quelle che sono riuscite a passare due materie, come me ad esempio, e quelle che invece sono state bocciate in tre o più.

Le più vicine andranno a finire in scuole di dubbia categoria, quelle di cui non pronunciamo nemmeno il nome nei corridoi, perché dire di andar lì significa essere considerata la più sfalzina, la cannata, artista o attaccabrighe. Mi sento la più loser, una parola che non esisteva per noi in quel momento, ma di questo scrivo carica di rabbia, perché voglio capire, trovare una risposta alla morte dei miei tre vicini. Uno di loro era il fratello di Tere, il mio amichetto del gruppo, un altro era il figlio di alcuni amici dei miei genitori, ci conoscevamo da bambini, lo chiamavano “l’Osito1“, rideva sempre, “peace and love“, trascorreva tutto il giorno frastornato a furia di tanta marijuana o in viaggio coi funghetti del fiume Pance.

I miei genitori si lamentano per i tanti cannati nel quartiere. Cazzo, non fanno nient’altro nel parco, e con la chiesa di fronte, neppure questo rispettano! Ma loro non facevano male a nessuno, penso. Ci hanno persino protetti, ricordo una volta in cui qualcuno che non mi conosceva mi mise marijuana tra le mani per aiutarlo a sminuzzarla, l’Osito me la tolse immediatamente e disse al giovane di no, che eravamo bambine e non fumavano quella roba.

I tre avevano lasciato una gran festa all’alba e montavano sulla moto di Fernando, il fratello di Tere. Chissà chi dei tre fosse il più matto, ma tutti e tre sono morti. L’Osito viaggiava dietro, ci rimase secco sul colpo, quello nel mezzo non lo conosco bene, e pare che se ne andò al creatore mentre raggiungevano l’ospedale. Fernando rimase circa quindici giorni in coma e anche lui ci ha lasciati.

Finalmente quei tristi giorni finiscono e arrivano le vacanze, per il quarto anno ho scelto di rimanere nella “B”, perché in questo modo “Pola”, la mia professoressa di matematica, potrà fare i suoi migliori sforzi per farmi capire la materia, a me che sono un’assoluta zotica. Ma non solo, senza dubbio ciò che mi piace di più sono le scienze umane, le scienze esatte non sono il mio forte e non lo saranno mai. Voglio leggere e scrivere, anche se non permetto a nessuno di vedere ciò che scrivo. Ho anche dei diari, li tengo chiusi a chiave e li nascondo. Con mia zia mi apro, molte volte parliamo come se fossimo delle amiche coetanee, anche se lei è alcuni anni più grande.

A casa nessuno sa come gestire i miei nuovi amici, “i grandi dell’isolato”, perché fumano marijuana e vanno ogni fine settimana a “La Bilbo” la discoteca da cui non vogliamo andarcene mai, anche se toccherebbe alzarci presto il giorno dopo. Adoro ballare fino all’alba, solo ballare, non bevo neppure alcolici, se non ogni tanto. Ma quello di cui ho bisogno è ballare, imparare i passi del ballo e della coreografia. Dopo li provo con Carlitos o Gabo, che sono i miei complici di danza, nient’altro.

Mia zia chiede a mia madre se possiamo andare insieme alla fattoria di alcune sue amiche a Timba. È vicina, a poche ore e così manterrai a bada il “terremoto”. Mia madre dice di sì, pochi giorni in campagna mi faranno bene, così magari cominci più calma il quarto anno delle superiori. La sua grande idea è annunciare che viaggeremo in treno, in treno? E invece il mio piano bucolico era guidare una moto o una jeep e cantare stonata i Queen e i Rolling Stones. Finalmente mia zia e io pianifichiamo alcuni giorni in quel paesino dimenticato dove l’unica cosa che è arrivata è il treno, che palle, che bella scampagnata mi ha architettato mia madre. Credo che sia il suo modo di insistere coi suoi castighi, ma non è così.

Le cose non vanno come spero. Il viaggio è meraviglioso, per la prima volta su un treno, un vecchio treno con sedili in pelle di cuoio rosso. Mia zia mi guarda e dice: a lei piacerà il libro che mi ha dato il mio ragazzo, è di moda perché il tipo che l’ha scritto si è suicidato il giorno in cui ricevette i primi esemplari nel marzo di quest’anno. E sulle mie gambe, sul treno di andata alla fattoria delle sue amiche, deposita Qué viva la música, romanzo di Andrés Caicedo.

Appena inizio a leggerlo, la notte diventa blu turchese, come dice lui, Andrés Caicedo. E non è mai più lo stesso. La vita da quel viaggio che non volevo fare non è più la stessa, smetto d’essere quella che alla scuola si aspettavano io fossi. Chi era quel ragazzo che parlava delle mie strade?, delle combriccole, che nominava la guaiava coronilla e diceva che l’aria scassava la vegetazione della sua nuca, dicendo nelle sue pagine inevitabile, impacciato, bamboccione e alluvionato, e inoltre parlava di una cosa strana chiamata cinesifiloderma, e mi sembrava una malattia per il cinema, quella lì, che mi aveva già contagiato.2

E allora chi altro se non Andrés Caicedo, recentemente scomparso, che si era suicidato con la somma assurda di sessanta Seconal3, che già non esiste più nelle ricette mediche, o sì, ma con un altro nome. E lui, Andrés Caicedo Estela, se fosse poca cosa, mi ha fatto una grande rivelazione attraverso le pagine che ho divorato quel fine settimana, citava il collegio, quello delle ragazze decenti, quello che ho odiato così ferocemente per aver sfaldato il gruppo delle stranucce, quelle ragazze non perbene che ci rifiutavamo d’essere.

E senza ulteriori indugi, Ricardito il miserabile raccontava che sarebbe andato a guardare le partite di ragazze della mia scuola e di altre che hanno studiato con suore devote e pesanti, che le squadre si facevano in quattro giocando a basket. Ma svelava anche, alla fine del romanzo, quella domanda che non ha mai abbandonato la mia mente: come avrebbe potuto unex studentessa del Liceo Benalcázar diventare puttana. Sì, puttana.

E lì c’era Troia, ma questa volta ero io che la stava assemblando. Quello, il mio gruppetto, delle non comprese, naturalmente. Quelle che l’anno successivo siamo diventate il ​​gruppo Travolta, perché ci è toccato travestirci per far sì che potessimo entrare al cinema per vedere la Febbre del sabato sera.

Il problema era che non eravamo insieme nè a scuola né nella stessa aula, Cuqui e Pato mi mancavano tremendamente ed ero preoccupata. Entrambi parlavano già di amore, obblighi e fidanzati che alla fine hanno cambiato completamente le loro vite.

Ma eravamo ancora quelle che s’infilavano nello stanzino proibito della biblioteca, quelle che leggevano in segreto nel “campeggio”, da parte di altre compagne così era stato ribattezzato in modo dispregiativo il nostro luogo di incontro. Eravamo, senza dubbio, molto diverse. Oggi, ormai cinquantenni e senza nessun tipo di gruppo, ridiamo della copiosa spazzatura che hanno voluto iniettarci, come se fosse apitoxina. Pur facendo il massimo sforzo, non potremo mai negare il posto da cui veniamo, emergerà sempre nelle nostre interiorità qualche angolo dove, anno dopo anno, ci siamo trasformate nelle donne che siamo oggi.

Alla fine della vacanza giunsi al “campeggio” con il libro camuffato: vi porto la verità, dissi a ciò che restava del grupetto di stranucce, qui c’è la prova, qui oltre alle più intelligenti, alle più carine e più perbene di Cali, ci sono anche puttane, ex-alunne puttane, lo dice Andrés Caicedo, e io gli credo. Se è nel suo libro, deve essere vero.

Per me è stata la verità, perché il romanzo era così vicino al nostro vagabondare quotidiano, che era impossibile pensare fosse una menzogna. Se lui poteva scrivere, potevo farlo anch’io, magari sempre segretamente come avevo fatto fino a quel momento. Alle mie amiche, alla grande maggioranza, ha fatto un po’ di paura. Eravamo ancora in una sorta di iscrizione condizionale, mi avevano consigliato di non riportare il libro che già era stato vietato nella biblioteca e nei corridoi della scuola, nonostante le sorelle Andrés Caicedo avessero studiato qui.

Rischiavamo d’essere bollate come pazze, facili ad innamorarsi, anche cannate per essere nel “campeggio”, ma puttane era troppo, neppure avevamo perso la verginità, immaginarsi essere puttane. Non sto dicendo di diventare puttane, dicevo, ma se ci pensate un attimo, se da qui è venuta fuori una ragazza diventata puttana, perché mai dovremmo pretendere d’essere le più quadrate del mondo, non pensate che sia troppa disciplina, abbiamo appena quattordici anni?

Commentarono poco o nulla, motivo per cui non volli insistere oltre e rilessi il romanzo di Andrés, perché anche da morto continuava a chiaccherare con me, ancora lo fa quando penso alle poche persone a Cali che hanno avuto il coraggio di parlare di puttane, ragazze perbene, rock’n’roll, salsa ventiada, branchi e droghe, molte droghe che davano allucinazioni e facevano smarrire in mondi di magia e psichedelia. Poi lo misi da parte, e rimane protetto ovunque io vada come il più grande dei miei beni preziosi, con la sua copertina bianca e il gufo viola, con ogni pagina sottolineata fino alla nausea, fino ad oggi, che sono passati più di quarant’anni e continuo a farmi le stesse domande sui vicini di casa se si avvicinano o no, sulle loro storie d’amore e di rabbia, sulle loro morti, quella degli altri e, naturalmente, la mia.

_________________________________________________________________________

Adriana VillamizarAdriana Villamizar Ceballos

Nata a Cali, in Colombia nel 1964. Laureata in Scienze della Comunicazione all’Universidad del Valle, master in scrittura creativa presso l’Universidad Nacional de Colombia e di creazione letteraria presso l’Escuela de Escritores de la Sociedad General de Escritores de México. Recentemente ha pubblicato il libro di racconti Yoga para colibríes, con l’editoriale Unimagdalena. La caja de los Pisahuevos e Qué nombre le vamos a poner? fanno parte delle migliori storie di Antología Relata, 2014 e l’Antología Relata Nodo Sur, 2014. È sceneggiatrice ed esperta nel montaggio di programmi audiovisivi per film e televisione, con vasta esperienza nell’ambito della regia, sceneggiatura di film e per la televisione, montaggio e assistenza alla gestione. Ha ottenuto la borsa di studio offerta da Ibermedia per il master iberoamericano in sceneggiatura cinematografica a Valencia, in Spagna. Le sue sceneggiature Entre V Susanas y V Rodrigos, V Teresas Enrevesadas, Una Luna para Málaga sono state selezionate nel concorso di sceneggiature inedite del Festival Internazionale del nuovo cinema latinoamericano dell’Avana. Nel 1997 è stata premiata col premio India Catalina per Hombres, di R.C.N. Televisione. Dal 1996 è insegnante in diverse università nei settori della scrittura narrativa, sceneggiatura, generi audiovisivi, montaggio, regia, realizzazione audiovisiva. Attualmente è docente presso l’Universidad del Magdalena.

Foto di Adriana Villamizar Ceballos, a cura dell’autrice.

_________

1 Orsetto in spagnolo.

2 In questa parte del racconto, vengono citate paroli gergali del Valle del Cauca (Colombia) che Caicedo, nativo di Cali, introduce in modo nuovo nella letteratura colombiana. Ad esempio acuscambado, aggettivo derivato da un verbo spagnolo molto particolare, “acuscambar”, a sua volta tratto dal quechua “kusquipáyayche indicava l’affaticamento provato da chi veniva sottoposto ad un interrogatorio zelante. Nel sud-ovest della Colombia fu probabilmente usato ampiamente fino al 1960. Acuscambado sopravvisse nello spagnolo della Valle del Cauca e si riferisce all’effetto di scomodità prodotto da chi riceve troppe domande, ma con l’opera di Andrés Caicedo si tinge anche di certa dosi di malinconia e difficoltà corporale nell’esprimersi. Fonte: http://bloglenguaencolombia.blogspot.com

3 Un tipo di barbiturico.

 Immagine in evidenza: Dipinto della artista albanese Dafinë Vitija, dalla sua pagina Facebook  Dafinë Artwork:

Riguardo il macchinista

Lucia Cupertino

LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid) con tesi sulla traduzione di fonti letterarie nahuatl. Vive da tempo tra America latina e Italia, con soggiorni più brevi in Australia, Germania e Spagna, legati a progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa - No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, in italiano e spagnolo, Premio comunitarismo di Versante Ripido); il libro-origami Cinco poemas de Lucia Cupertino (Los ablucionistas, Città del Messico, 2017). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengali e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016) e Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018). Membro della giuria del Premio Trilce 2018, Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes. Cofondatrice della web di scritture dal mondo www.lamacchinasognante.com, con la quale promuove iniziative letterarie e culturali in Italia e all’estero.

Pagina archivio del macchinista