Lina è un angioletto con il naso arrossato e gli occhi azzurri segnati dal pianto. La porto fuori dall’aula, verso la coppia definita dal giudice “le persone che ti hanno accompagnato qui”, e da lei “papà e mamma”. Nel corridoio si butta fra le braccia di sua madre, la seconda che la vita le abbia concesso. Suo padre, l’unico che Lina abbia mai conosciuto, abbraccia la bambina singhiozzante. La psicologa osserva, attenta, dove vanno le loro mani. Il papà che accarezza le lunghe ciocche bionde, la mamma che stringe un po’ il culetto. Gesti affettuosi o illeciti?
Che ci fosse qualcosa di strano in questa storia, l’avevo intuito quando al telefono il cancelliere aveva annunciato con una certa enfasi: “è una rogatoria internazionale, si tratta di una minore”. Meglio delle solite direttissime! Mi presento all’ora stabilita. Gli interessati sono già lì, seduti sulla panca in silenzio: una bambina sui dieci anni, silenziosa, in mezzo a due adulti agitati; in disparte una psicologa con la messa in piega impeccabile. Nessun carabiniere in vista, nessun arrestato dall’aria avvilita. La bambina ha lo stesso naso dritto e gli occhi chiari del padre, solo se metti a fuoco noti le differenze: il suo viso da icona russa è illuminato da una luce diversa.
Presentandomi, riesco a strapparle un sorriso: i nostri nomi si somigliano, così passiamo a parlare dei nomi e cognomi italiani strani. Trasformati dalla sua pronuncia russa, diventano davvero buffi. Gradualmente la bambina si rilassa, e la madre, orgogliosa, si vanta:
– La nostra Lina ha troppo talento, le piace studiare e vorrebbe fare teatro, è un’attrice nata! Ti piace andare a scuola, vero?
– Sì, faccio la quinta elementare, vorrei essere in classe oggi, invece di venire qui.
– Cosa ti piace fare a scuola?
– Raccontare storie, disegnare…
– Soprattutto le storie delle fate. Fai vedere la maglia! L’ha scelta Lina!
La bambina sorride e mostra la maglietta bianca decorata con delle fate volanti. Siamo così rilassati, sembra di essere in attesa dal medico di famiglia o dal parrucchiere, in una circostanza noiosamente pacifica. Cosa sta succedendo? Quando la bambina si allontana per andare in bagno, domando al padre:
– Allora, qual è il problema, cosa dovremo fare?
– Farete quel che dovrete fare, – risponde, elusivo.
– C’è forse qualche problema con l’adozione? – suppongo cautamente.
– In un certo senso, – e si chiude nel silenzio, con un sorriso imbarazzato.
Non ci fanno aspettare molto. I genitori restano fuori. Lina, io, e la psicologa infantile entriamo. La bambina, ospite rara in un’aula del Tribunale, esile e pallida, sprofonda nella poltrona di pelle nera. Il giudice la guarda intenerito, mani appoggiate su un voluminoso incartamento. Sorride e la rassicura, verificando se parla l’italiano. La parola passa alla psicologa. Comincia la danza di avvicinamento istituzionale, una cauta conquista della fiducia.
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– Lina, adesso parleremo e mi dirai solo la verità. Sai la differenza fra la verità e la bugia? Se dicessi che sei arrivata fin qui in un aereo, cosa direi?
– Una bugia, – sorride Lina, immaginando un aereo speciale per arrivare da San Crispino in città.
– E se ti dico che la tua maglia è bianca, cosa dico? – La verità.
Sta misurando le reazioni di Lina quando mente. Però nessuno nota che la maglia non è tutta bianca: ci sono anche le fate, e a rigore di logica avrebbe dovuto dire “non è una verità perché è in parte bianca, in parte colorata”.
Seguono le domande di rito: come ti chiami, dove abiti, che scuola fai, con chi vivi. “Con papà mamma nonna sorella fratello cane gatto e pesce” – risponde in una tirata Lina. Risposta toccante: studiata o spontanea?
Lei non ha bisogno di traduzione: se la cava benissimo in italiano, seria, concentrata. Risponde senza esitare con dei secchi sì e no, o, all’occorrenza, dando risposte articolate e guardando la psicologa negli occhi. Solo una volta non riesce a spiegarsi in italiano. Le hanno chiesto se papà abbia toccato le sue parti intime. Lei non capisce questa espressione e devo tradurre in russo, inventando in fretta e furia “quella parte del corpo sulla quale metti le mutandine”, una descrizione precisa e neutra. Ogni parola di troppo può diventare un’insinuazione o un avvertimento. In questa storia dal fragile confine fra la verità e la bugia, la realtà e il ricordo, l’affetto e l’abuso, bisogna camminare in punta dei piedi.
Lina racconta di Katia, l’altra bambina russa ospitata d’estate a casa loro. Passavano il tempo giocando a rincorrersi e a nascondino, andavano a Gardaland, al ristorante a mangiare pizza e pasta. Hanno fatto le vacanze in Spagna, solo lei, Katia e papà, la mamma doveva lavorare. Storie di famiglia, semplici fatti personali che diventano di dominio pubblico, acquistando significati sinistri. Raccontando sotto lo sguardo vigile della psicologa, Lina si tormenta le dita lunghe, indice e anulare incrociati e piegati. Passa con l’unghia sopra il pollice, lasciando una sottile righetta rosa. Passa e ripassa, le dita si stringono e si attorcigliano, mentre la voce limpida risponde e gli occhi azzurri fissano l’interlocutrice. La situazione è complicata dal fatto che Lina chiama “mamma” sia la madre naturale, in prigione per omicidio, sia la madre adottiva. Addossa tutte le colpe a Katia: girava in casa in mutande, la spingeva ad entrare nella doccia mentre papà si lavava, faceva qualcosa di notte sotto la coperta. Katia andava a frugare fra le videocassette alla ricerca di film strani, e papà aveva sgridato solo lei quando le ha beccate a guardarne uno.
Invece papà, lui non le aveva fatto male. Non l’aveva guardata nuda. Non l’aveva toccato in modo sporco. Non ha fotografato lei e Katia nella doccia. Non le ha fatto bere vino, anzi, era contrario anche alla coca-cola perché fa male alla pancia. Se la aiutava a lavarsi, toccava solo la schiena e le braccia. A Lina andava bene così, era avvezza perché prima (concetto vago in cui nascondeva oscure parole Russia e orfanotrofio) nessuno si
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lavava da solo. I bambini si mettevano in fila, nudi, in uno stanzone con le docce e aspettavano che passasse l’inserviente – ecco un’altra parola che non sapeva come dire, – a insaponarli uno a uno. Papà invece no, lui le ha solo fatto del bene. Katia parla male di lui perché è cattiva. Lei aveva qualche anno più di Lina, si vantava di avere già le tette, di essere bella, di sapere fare cose che piacciono a papà. Lina non le dava retta: Katia era solo un’ospite che all’orfanotrofio, dopo le belle vacanze, non voleva tornare. Per questo diceva cattiverie. Se aveva parlato agli insegnanti, e loro si erano rivolti ai giudici russi che avevano fatto tutto questo casino, arrivando fin in Italia, tutto ciò per Lina era una storia da dimenticare. Non contava nulla in confronto all’amore che provava per il papà, per la mamma, fratello, sorella, nonna, cane, gatto e pesce.
Esaurita la lista delle domande, concluse le registrazioni, firmato il protocollo, in una pausa di silenzio la psicologa prende la mano di Lina e domanda con la voce soave: – Sai, tu non mi conosci, ma sono un’amica per te. Tutti noi siamo qui per difendere i bambini. Se hai in mente qualcosa che ti fa star male, puoi dirlo!
Lina diventa rossa, le lacrime agli occhi.
– Che hai?
– Niente.
– Perché queste lacrime, allora?
Lei guarda altrove, girata verso la porta dietro la quale la aspettano i suoi. Il giudice si schiarisce la gola:
– Vado a prenderti una caramella.
– Non voglio i dolci, – risponde Lina, – papà dice che fanno male ai denti. Il giudice esce lo stesso.
– Di cosa hai paura? – riprende la psicologa, – C’è qualcosa che vuoi dire?
– Ho paura che mi mandate via. Io come prima non voglio vivere. Per favore, non mandatemi via!
– No, no, stai tranquilla! Ti vogliamo aiutare, farti vivere in una famiglia giusta per te.
– Ho già una famiglia! – dice Lina, asciugando le lacrime con la manica del maglione bianco.
Ci alziamo in piedi. Le tengo la mano, anche se vorrei prenderla in braccio come un gattino, e chiederle, di modo che nessun altro possa sentire: che tipo di verità aveva raccontato? Davvero è stata Katia a inventare tutto, o Lina ha seguito le istruzioni di papà con le risposte preparate a casa? Se mentiva, l’ha fatto senza capirne la ragione o sapeva bene che papà era colpevole? E se sì, lo protegge per paura, o perché accetta tutto da uno che le ha cambiato la vita, regalandole una famiglia, un passaporto, una cameretta, i vestiti, le bambole, i colori per disegnare, la possibilità di andare a scuola, al mare, a Gardaland e in pizzeria, che la circonda di cure e di attenzioni anche se passa ogni tanto la mano sulle parti intime? O tutta questa storia è soltanto un incubo d’invidia che invade l’equilibrio fragile di una famiglia atipica che vorrebbe sentirsi normale, sovrana nei propri riti di tenerezza e conflitto, autonoma nell’inventare legami nuovi, sognati dai grandi e piccoli che per anni sono rimasti soli, di qua e di là della frontiera?
Tratto da M. Sorina, Storie dal pianeta Veronetta, Tra le righe, Lucca, 2018.
Segue intervista con l’autrice