L’Impietratrice, di Vittorio Imbriani

ridotto 5

L’IMPIETRATRICE

di Vittorio Imbriani

Di Cesare Borgia, secondogenito e braccio armato di papa Alessandro VI, si sa che dovette recedere dalla pretesa 74882993_562988257783321_6013017633887092736_ndi unificare il centro d’Italia sotto il proprio dominio e che, osteggiato dal nuovo pontefice Giulio II, venne rinchiuso nella rocca di Medina del Campo, da cui presto fuggì. Si ignora, di converso, quel che realmente accadde in seguito. Il Borgia non riparò in Navarra dal cognato, come tramandano le cronache; non cadde nella battaglia di Mendavia; non ebbe sepoltura a Pamplona. No. La verità storica, infine svelata, conduce altrove, molto più lontano. Di là dall’oceano.

 

Pare d’obbligo, quando se ne parla (e forse ad ammenda del parlarne poco), citare l’autorevole Gianfranco Contini, che alla pagina 223 del suo Letteratura dell’Italia unita: 1861-1968 credeva «l’ora dell’Imbriani […] non ancora esser giunta». Al tempo, gli anni dalla morte del “misantropo napolitano”, come egli stesso volle talvolta nominarsi, erano già più di ottanta. Oggi, raggiunti i centotrentaquattro, Imbriani resta un po’ negletto, tanto che il romanzo qui raccomandato ― o panzana, avverte il sottotitolo ― in libreria quasi non si trova: sola ristampa recente quella CreateSpace, lodevole benché miserina. Sovviene al difetto lo spaccio remainder-bancarellistico, dov’è reperibile alquanto facilmente l’edizione Serra e Riva del 1983: conforme, tolti i refusi, al testo pubblicato nel 1875, e di certo impreziosita dal saggio in appendice di Giovanni Pacchiano. Con modico esborso e ragionevole fortuna, potreste anche guadagnarne “copia in ottimo stato”. Auguri.

La storia dell’Impietratrice venne dunque raccontata nel 1875, sulla rivista “L’Illustrazione Universale” (in undici puntate: dal 2 maggio al 5 settembre). Deve ritenersi, tuttavia, che Imbriani l’avesse concepita con intento non primariamente narrativo e che anzi volesse farne lo spunto d’invenzione per un pamphlet politico-burlesco, contro il brutto andazzo postunitario della cosa pubblica (o tempora, o mores ecc. ecc.). Di fatto, l’encomio ai Borgia che apre la novella («Il Machiavelli li approvava e riconobbe in Cesare Borgia l’unico principe capace di fare quel ch’e’ vagheggiava; il suo principe; l’eroe che vive pe’ propri disegni…») ha lo stesso tono di polemica paradossale di quest’altro panegirico, contenuto in una lettera, non di molto posteriore, all’amico Felice Tocco: «Ah non mi posso proprio mai dar pace degli sforzi falliti de’ buoni Borgia! Che Italia bella sarebbe stata quella, che avesse avuto a capo un Cesare Borgia, per ministri de’ Machiavelli, de’ Guicciardini, de’ Pontano, per generali de’ Bartolomeo d’Alviano, de’ Piero Strozzi, de’ Renzo da Ceri, de’ Fabrizio Maramaldo, per capo dell’istruzion pubblica un Bembo, per poeti aulici Ariosto, Trissino, Tasso… Ahimè invece… ma che cosa mi ha fatto questo povero foglio di carta per contaminarlo co’ nomi de’ nostri contemporanei?».

Sull’empito passatista prevalse comunque la panzana, e il progetto di libello si risolse in meglio, cioè a dire nel mirabolante ghiribizzo ― «fondato sui modi della fiaba e, insieme, su tanti, molteplici frammenti di realtà» (Giovanni Pacchiano) ― che adesso presentiamo.

È il 1505. Evaso dal Castillo de La Mota con l’aiuto di un frate girolamino, Cesare Borgia si rifugia nel convento di Nostra Signora di Guadalupe, meditando vendetta sui propri nemici. Un giorno, nell’infermeria del monastero, ha modo di parlare con un vecchio timoniere, reduce dal terzo viaggio di Colombo nelle Indie, e da questi apprende che nella grande città azteca di Tezcuco, in Anahuac, vive Chalchiuhnenetzin, figlia del re Nezahualpilli, giovane bella e virtuosa, ma condannata, per via di un sortilegio, a rendere di pietra chiunque le capiti allo sguardo. Cesare crede al marinaio («in que’ tempi c’era più fede nelle meraviglie») e salpa alla volta del Nuovo Mondo, deciso a far ritorno nel Vecchio assieme alla principessa. «Quella donna fatale, gli sarebbe poi stato mezzo per riacquistare il perduto, e concretare gli antichi disegni ed audaci. […] Si sarebbe presentato innanzi a Giulio II ed a’ cardinali che lo avean tradito, per convertirli in duri scogli su’ loro seggi».

Viceversa, le cose non fileranno lisce…

Scrive Imbriani che la vicenda di Chalchiuhnenetzin (napoletanizzata in Ciaciunena, erede di Nezagualpiglio ― nomi che subito immaginiamo in una farsa di Scarpetta o in un film con Totò) ha fonte precisa: la Storia cicimeca di Fernando de Alva Ichtilcocitlo, «mio principale autore in questa narrazione». E non mente affatto, perché la Historia de la nación chichimeca di quell’Ixtlilxochitl esiste davvero. Sebbene, al capitolo d’interesse, Chalchiuhnenetzin (bella sì, ma di poca virtù; e sposa di re Nezahualpilli, piuttosto che figliola) non abbia facoltà di Medusa, ma sia solita guarnire le stanze assegnatele con le effigi statuarie dei suoi molti amanti, fatti uccidere dopo l’amplesso.

Né finge, Imbriani, là dove assicura di riprodurre le parole esatte di un altro, curioso reperto bibliografico, dal titolo Della artificiale riduzione a solidità lapidea e inalterabilità degli animali, scoperta da Girolamo Segato, ugualmente nei cataloghi: stampato a Firenze, per Vincenzo Batelli e Figli, nel 1835. «Libretto che non può leggersi senza provare un doppio rincrescimento; primo, che la scoperta dello illustre vedanese siasi perduta, secondo, che s’abbia a dir Segàto, piano, non Ségato, sdrucciolo: Se in vece di Segàto / E’ si dicesse: Ségato; / Ecco bell’e trovato / Un’altra rima a fégato».

All’opposto, sembrerebbero inautentici (se non preborgesiani) gli aurei saggi di Blödsinning, Tropfio e Jrrlehrer sui poteri delle fate, pure addotti nella panzana; e così l’articolo di tal dottore e professor Träumer sulla “Rivista per gli studi di geografia e statistica utopistica”, edita a Tubinga.

Non si pensi, però, a uno scherzo, a un frivolo esercizio da erudito. Nel dedalo antiquariale in cui ci spinge e confonde ― di nome in nome, di libro in libro, celando il plot fra mille rimandi, non sempre ravvisabili e talvolta irriguardosi: «Et voilà justement comme on écrit l’histoire. [Verso del Voltaire divenuto proverbiale e che di continuo si cita anche da chi non ha mai letto l’opericiattola in cui si truova. Mi faccia il culto lettore questo favore e mi dica se sa, su due piedi, indicar qual è]» ― Imbriani configura un narrare nuovissimo, febbrile, rapsodico, dirompente i canoni formali ottocenteschi e, per colmo, tuttora d’avanguardia.

 

P.S. Il verso di Voltaire è nel dramma del 1767 Charlot ou La Comtesse de Givry.

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73482870_2440200226303554_4208052581156519936_nVittorio Imbriani è nato a Napoli il 27 ottobre del 1840 e morto a Pomigliano d’Arco il 1° gennaio del 1886.

Altre opere: Merope IV (1867), La bella bionda (1869), La novellaja fiorentina (1871), Auscultazione (1873), Mastr’Impicca (1874), Il gran Basile: studio biografico e bibliografico (1875), Dio ne scampi dagli Orsenigo (1876), Fame usurpate (1877), La novella del vivicomburio (1877), La novellaja milanese (1877), Il vero motivo delle dimissioni volontarie del capitano Cuzzocrea (1877), Studi danteschi (edizione postuma: 1891).

 

Immagine in evidenza: Opera grafica di Irene De Matteis.

 

Riguardo il macchinista

Maria Rossi

Sono dottore di ricerca in Culture dei Paesi di Lingue Iberiche e Iberoamericane, ho conseguito il titolo nel 2009 presso L’Università degli Studi di Napoli l’Orientale. Le migrazioni internazionali latinoamericane sono state, per lungo tempo, l’asse centrale della mia ricerca. Sul tema ho scritto vari articoli comparsi in riviste nazionali e internazionali e il libro Napoli barrio latino del 2011. Al taglio sociologico della ricerca ho affiancato quello culturale e letterario, approfondendo gli studi sulla produzione di autori latinoamericani che vivono “altrove”, ovvero gli Sconfinanti, come noi macchinisti li definiamo. Studio l’America latina, le sue culture, le sue identità e i suoi scrittori, con particolare interesse per l’Ecuador, il paese della metà del mondo.

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