Rilanciamo altri due capitoli dalla tesi di Italianistica di Samuele Rizzoli. Potete trovare alcuni capitoli precedenti della tesi nel numero zero del contenitore al seguente link http://www.lamacchinasognante.com/lettura-delle-migrazioni-attraverso-i-testi-poetici/
3.2.6 I lager dei migranti
Sono quattro i componimenti presenti in Maremarmo nei quali la poetessa F. Ferraresso si sofferma a raccontare i luoghi in cui il migrante viene a trovarsi, fermo e rinchiuso, una volta sbarcato: Frontiera Nord, Cortile di notte, Campo profughi, Cancello nord. Relativamente ai luoghi destinati alla permanenza, all’identificazione e all’espulsione dei migranti che raggiungono il territorio europeo[1], il verso con cui la poetessa introduce la prima delle poesie è forte ed esplicito: «I lager non sono mai scomparsi»[2](concetto già incontrato nella letteratura di Federica Sossi[3]).
È attraverso un linguaggio scabro e violento che la poetessa delinea la disumanità di questi luoghi che, come «carceri», raccolgono gli immigrati i quali, benchè «reduci del relitto», sono trattati come merce. Continuo è il riferimento ai migranti come schiavi[4], stipati e ammassati, «ingabbiati come bestie», le cui esistenze rispondono a «un tempo atomico che taccheggia ogni cosa, dilania i corpi». Persino all’interno del campo profughi, il tempo è «nera cronaca di giorni senza speranza o ritorno», nessuna protezione è concessa ai migranti, in un mondo in cui rifugiato non è nessuno.
[…] in ogni campo sono cinquemila
tutti con lo stesso pensiero
vogliono scappare
e stanno stipati come sassi dentro capannoni
niente servizi
l’igiene non è clausola la permanenza al campo
è solo temporanea anche se il tempo può essere mesi
che si accumulano ad altri
e le cure mediche non sono parola d’ordine
in quel caldo dei corpi che libera odori di urina
insopportabile il tanfo di malattie che piagano il respiro
gli immigrati sono solo clandestini
illegale portare medicine portarli all’ospedale
gli immigrati sono per definizione illegali contro
la legale volontà
di tenerli legati in un buco a crepare
e non servono distinzioni di casi
rifugiato qui non è che nessuno.[5]
Similmente una poesia di Alborghetti offre una descrizione del posto in cui vengono confinati i migranti, come luogo di pace illusoria, dove si perpetua lo scontro fra opposti: il «lezzo di vita persa» davanti all’immobilismo dei soldati dell’Onu, che osservano.
Margini, confini che non sono da ignorare
ancora: è lo spazio del campo concesso per il tratto di pace.
Alcuni incolumi chiedevano
all’infermiera e mostravano le foto. Altri
sotto i teli. I lezzo di vita persa è uguale in ogni posto.
Dio qui non ha tempo pare
Di mettere fine agli opposti. E arrivi e tende e veli
stesi sopra i visi e soldati
in casco blu a osservare
quanto assente è il pudore, e la vita persegue…[6]
Sono due i componimenti dello scrittore italosomalo Antar Mohamed Marincola[7] che efficacemente raccontano l’esperienza del migrante nel momento in cui il suo andare giunge a destinazione sul suolo europeo. Nel Druido di Dublino[8], questo momento coincide con la deportazione in uno spazio «legalizzato», deputato a una serie di procedure di riconoscimento. Pur venendo da lontano, da un «paese crivellato», «una capitale in fiamme che ha perduto lo stato»; pur essendo riuscito a soppravvive al viaggio in mare, «nonostante la barca ballasse tra le onde, i corpi gonfi hanno fatto la mia salvezza»; al migrante vengono «divorate le impronte», gli è impedito di proseguire. L’autore fa riferimento alle norme del regolamento di Dublino, le quali dispongono che lo straniero intenzionato a presentare domanda di asilo debba essere sempre sottoposto a rilievi foto dattiloscopici e segnaletici, che lo vincoleranno a chiedere rifugio nel paese di sbarco.[9]
È come se, insieme alle impronte, il «druido» rubasse anche l’identità con una politica disumana, cancellando le singole storie. La fuga dal «paese crivellato» termina così in una «fossa nera», luogo che richiama le fattezze di una tomba, come a presagire la morte. L’unica possibilità che resta di proseguire il viaggio è infatti tentare il suicidio.
[…] Un giorno di tanti anni fa, fuggi dalla mia terra che beve sangue invece che acqua.
Ho dimorato galere di tante città diverse, tutte sporche e abitate da pidocchi.
Ho camminato nella sabbia rovente dei deserti, pensavo alla morte ma la vita mi voleva con sé.
Vengo da lontano per trovarmi al mare senza saper nuotare, vengo da lontano, nonostante la barca ballasse tra le onde, i corpi gonfi hanno fatto la mia salvezza.
Vengo da lontano ma mi hanno mangiato le impronte, hanno detto che è stato il druido di Dublino che ha fame di impronte.
Dicono che il mio viaggio è già finito!
Ora sono gettato in una fossa, nera, dove neanche i miei denti luccicano più, vengo da lontano e ho capito che dovrò restare in questa fossa.
Vedo solo che in questa fossa c’è una sbarra in alto, dove a volte fanno calare qualcosa.
Nonostante venga da lontano il druido di Dublino ha deciso che il mio viaggio è già finito!
Vengo da lontano per finire in questa fossa.
Solo questa barra in alto che sentinella la mia fossa buia!
Allora fratello regalami una corda che provo a farmi una cravatta per riprendere il mio viaggio.
Nella poesia-prosa La carta[10], è rievocato uno spazio altrettanto claustrofobico, nel quale i migranti sono «rinchiusi come animali». La voce narrante del prigioniero invoca aiuto, affinchè venga aperta «la gabbia» e sia data loro la possibilità di tornare liberi pur non avendo «la carta». Un’invocazione che diventa denuncia verso «coloro di cotanta civiltà», dimentichi che «solo ieri erano smarriti in terre straniere» e personalmente colpevoli di averli rinchiusi. Ma lo stesso urlo disperato è anche rivolto al lettore: «Dove siete umanità? Vi stiamo aspettando. […] Per favore, venite a prenderci prima che faccia buio».
Abbiamo perso la carta, e, ora ci tengono in gabbia, ma non siamo leoni, siamo persone, ci tengono in gabbia perchè abbiamo perso la carta.
Ma noi non siamo carta.
Ma per loro siamo carta e numero.
Perchè tenere persone in gabbia, almeno la apriranno questa gabbia per pulirla?
Non sanno dove mandarci, il nostro paese è morto da tanto tempo, ma noi siamo ancora vivi!
Stiamo qua ma per quanto? Diventiamo matti a stare in questa gabbia come leoni, noi persone, certamente povere, ma persone.
Ci tengono qua perchè dicono che non abbiamo un cognome, ma solo nomi.
Invece no, no, no, abbiamo nome e non solo uno, mi chiamo ali, mio padre temur, mio nonno sultan…cosa importa un cognome quando si hanno così tanti nomi?
Loro lo sanno che il nostro eldorado è stato raso al suolo,e noi diventiamo matti a stare in gabbia come leoni.
Salim, lo hanno fatto uscire, era contento rideva, tanto tanto rideva, come un bambino era felice andava in francia, diceva che la moglie lo aspettava ma la foto che aveva con sè era vecchia di vent’anni.
Per favore aprite questa gabbia, sapete che non siamo leoni ma come facciamo a non diventarlo così rinchiusi come animali?
Asha, asha, asha, aveva fame tanta fame, ha mangiato tre chiodi ed è finita all’ospedale, peccato..peccato, con quattro chiodi ciascuno poteva farsi la sua croce.
Venite, venite voi che conoscete questa gente e parlate la loro lingua, dite a loro di cotanta civiltà che noi non siamo animali, ma che forse lo son loro a tenerci così rinchiusi come animali.
Khordad,lo hanno mandato a casa, piangeva, tanto piangeva, khordad lacrimava, era disperato e piangeva tanto…beato khordad che ha una casa dove fare ritorno.
Questa gabbia non può stare chiusa in eterno, noi siamo persone e non leoni, ma se non usciamo come leoni prima o poi ce li mangiamo, ma se non usciamo come leoni prima o poi ce li mangiamo….
Riportate la memoria a questa gente, e diteli che anche loro solo ieri eran smarriti in terre straniere.
Per favore diteci il nome di codesta civiltà che tiene rinchiuse le persone come animali.
Dove siete umanità? Vi stiamo aspettando!
Mi hanno detto mettiti una giacca come quando si va al matrimonio e una camicia bianca, così ti si vede e sembri anche più pulito, ho fatto tutto ma loro non so dove siano.
Per favore, per favore, venite a prenderci prima che faccia buio.
3.2.7 Il Doppio naufragio
Il naufragio e la morte in mare sono i temi più ricorrenti nella poetica dei viaggi della speranza, assumendo significati metaforici diversi quali la fine del viaggio, l’infrangersi del sogno e il mare come cimitero. In parallelo a ciò, il sentimento che permea i versi è lo smarrimento, l’angoscia e il senso di naufragio interiore del poeta stesso. Dall’empatia e solidarietà, come ingredienti che animano il gesto poetico, traspare infatti la consapevolezza di dover dar voce al dolore personale di fronte a ciò che è avvertito come affondamento collettivo. Dalla perdita di valori e umanità delle politiche inique e mortifere, dal senso di colpa fino alla profezia di una nemesi storica, emerge il concetto di doppio naufragio a indicare come ai naufragi nel mare corrisponda una perdita di direzione della civiltà occidentale, presagio di un affondamento morale delle coscienze.
Prospettiva espressa da Alda Merini in Coloro che arrivano qui[11], dove l’io lirico riconosce come la speranza che cercano i migranti sia la stessa ormai perduta in coloro che dovrebbero offrirla. Un «noi» tormentato, di un Occidente malato e solo, la cui speranza è già stata condannata.
Coloro che arrivano qui
sulle nostre sponde
già tormentate dal freddo
già malate e già sole
non sanno che in noi
le finestre di grande speranza
sono ormai chiuse.
Il mare diviene dunque simbolo della coscienza dolente di cui il poeta si fa portavoce, della vergogna per un’umanità che assiste disinteressata. I versi portano l’obbligo di esprimere un giudizio morale, così è per Gassid Mohammed che riconosce come «le nostre coscienze sono le rive di Lampedusa» in cui «scorgiamo i tratti dell’ultimo respiro della nostra umanità».
Sulle rive di Lampedusa
sono sdraiati i resti delle nostre coscienze gonfie.
Le rive di Lampedusa
sono il viso sfigurato, gonfio e mutilato della nostra umanità
oggi![12]
Un’umanità colpevole per la quale l’empatia si tramuta in senso di colpa esistenziale, come nella poesia di Patricia Quezada Sulla Spiaggia[13] , dove non si conosce consolazione o si intravede alcun senso logico. Scaturisce un doloroso disincanto che rivela l’assurdità di un destino cieco nel quale il poeta riconosce la tragedia altrui come propria:
[…] Non esiste consolazione
non esiste scusa
per che io continui a vivere e tu no.
Non una ragione
Non una causa che possa avere fondamenta.
Soltanto l’assurdo, disincantato
destino cieco che ti ha donato la morte,
senza darti un paradiso.
Nulla di bello o di umano resta […]
Senso di colpa similmente espresso da Cristina Bove in Mea Culpa[14], dove l’autrice è invasa da un turbamento che la porta ad accusarsi, sentirsi complice e colpevole, solo temporaneamente in salvo dal naufragio che inevitabilmente colpirà la noncuranza.
[…] che non posso saperlo quel tormento
delle carni bruciate
o quanta acqua salata nei polmoni
prima di essere morti
ma so dell’inquiedutine che vivo a mio discapito
[…] ed io mi accusoma con la noncuranza di chi sa
d’esserlo_ almeno momentaneamente_
in salvo.
Parallelo al senso di colpa, si delinea dunque uno stato d’animo di sgomento e di impotenza. La presa di coscienza che al benessere del mondo occidentale corrisponda la morte di coloro che ne sono esclusi, fa sì che il poeta non trovi pace. E dell’impotenza che lo invade, lasciandolo immobile di fronte al perpetuarsi della tragedia, Annamaria Giannini scrive «Mi sento cadere di foglie e parole svendute / inutile, come un verso che non dice poesia».[15]
I versi diventano antidoto per combattere l’indifferenza che si manifesta nel «passeggero sdegno collettivo», nel «cordoglio apparente», nel «retorico lutto nazionale»[16], di un popolo italiano pronto a porgere «sentite condoglianze» solamente a tragedia avvenuta, mentre ipocritamente i respingimenti, i rimpatri, i naufragi, continuano a rappresentare eventi «speciali che sconvolgono i palinsesti».[17] La poesia tenta una reazione, esprimendo la partecipazione emotiva di chi scrive, «affinché non si abissi la pietra dello scandalo».[18]
[…] Queste morti ci chiedono di urlare
salvare altre vite, perché non sono
morti solo per il fuoco divampato
o l’onda del mare li ha inghiottiti.
Sono morti anche perché siamo indifferenti alla morte,
sono morti per scuotere le nostre coscienze.
Così, volendo restituire umanità, la scrittura si schiera contro quella concezione per cui, come si è visto, l’esistenza del migranti è ridotta a nuda vita biologica.[19] È contro la disumanità dei calcoli statistici, dei discorsi economici, delle strategie politiche che si contrappongono i versi di Selam Kidane, Numero 92.[20]L’autrice, dedicando la poesia a un’ipotetica giovane vittima del mare, vuole sapere il suo nome, il suo vero nome, per la necessità di rompere la catena razionale di numeri, delle conte, dei dati che parlano di uomini morti. «Mia luce», «mio eroe», «vittoria», «speranza» sono i nomi che la poetessa attribuisce, in contrasto al nome che gli è stato dato: numero 92.
[…] Forse ti ha chiamato col nome della terra in cui eri diretto.
Dimmi piccolo qual è il nome che tua mamma ti ha dato…
Perché io non posso sopportare che tu venga chiamato numero 92.
La poesia tesse l’esistenza del migrante e ricostruisce la sua storia per portare la testimonianza della morte non raccontata, in un disperato tentativo di restituire dignità ai corpi sommersi, di combattere l’indifferenza che porta all’oblio. Indifferenza che De Luca definisce «un torto contro il creato»[21] perchè essere indifferenti significa calpestare la morte, legittimare l’oblio e per cui l’espressione poetica diventa simbolo del «formato di combattimento e di resistenza delle letterature».[22]
Bietelihem Berhane intitola Indifferenza[23] i versi nei quali riconosce come il senso di indifferenza sia un male persino peggiore rispetto al dolore provato per i naufragi. Curarsi dall’indifferenza diventa un dovere ancora più urgente della compassione.
Ho il cuore lacerato dal dolore
il male devasta la mia anima
ho il dovere di curarmi dall’indifferenza.
Dopo aver assistito una tragedia sulla tragedia
non posso più stare a guardare
non ho più giustificazioni.
La poesia «parla dal silenzio e dal segreto per dare voce a chi non ne ha, e può farlo con la pronuncia precisa di chi si è senza strepito schierato dalla parte delle vittime, definitivamente».[24] Di fronte al silenzio come macabro strumento con cui si trasmette l’indifferenza, il poeta sceglie di non essere complice, la sua voce calpesta l’oblio perchè come nota Pusterla, «nelle parole risuonano o tacciono la coscienza e la storia»: esse parlano «del loro silenzio, del loro intollerabile e non innocente silenzio».[25] È il «silenzio del gorgo che si richiude sopra l’assassinio compiuto», quello dei «bambini scomparsi», delle «lingue ammutolite» , degli «ignoti ed insepolti».[26] È il silenzio che diviene un «grumo di mestizia».
Da una ulteriore prospettiva però i migranti divengono invincibili, con le parole di Erri De Luca: «non benchè morti, ma proprio perché morti»[27], essi divengono strumenti che sconvolgono le coscienze. Sangue sacrificale, quello dei migranti non versato invano, perché la loro storia «è il grande tema del contemporaneo, il racconto che strania e assorbe, l’evento irreparabile che in qualche modo va pur rammendato, il conflitto che va convertito in creazione, un trasbordo che deve divenire trasformo e trasformazione».[28]
Quei resti, di «uomini e sogni / nei sacchi di plastica»[29], sono recuperati dai versi poetici per far sì che il «gregge silenzioso dei respinti senza nome», quelli che Fabio Pusterla definisce «popolazione di involontari eroi»[30], seppur sconfitti, appaia tanto più grande e dignitoso dei suoi meschini respingitori. La poesia dunque è il transito poetico e, scavalcando l’ostacolo che il mare rappresenta, costituisce un passo per sentirsi uniti nella stessa riva.
[1] Centro di permanenza termporanea (Cpt) o centro di identificazione di espulsione (Cie), secondo le denominazioni ufficiali usate rispettivamente dal 1998 al 2008 e dal 2008 al 2012.
[2] Fernanda Ferraresso, Cortile di notte in ead, Maremarmo, p. 14.
[3] Federica Sossi, Autobiografie negate, Immigrati nei lager del presente, Milano, Manifesto Libri, 2002.
[4] Fabrizio Gatti, Il mio viaggio clandestino nel mercato dei nuovi schiavi, Milano, Garzanti, 2007.
[5] Fernanda Ferraresso, Campo profughi in ead, Maremarmo, p. 16.
[6] F. Alborghetti, Margini, confini che non sono da ignorare in id, L’Opposta Riva, p. 19.
[7] Nato a Mogadiscio, vive in Italia dal 1983, dove ha studiato, scritto, recitato, mediato conflitti, tradotto e insegnato. Ha pubblicato con Wu Ming 2 Timira. Romanzo meticcio, Bologna, Einaudi, 2012.
[8] Antar Mohamed Marincola, Druido di Dublino,in Sotto il cielo di Lampedusa, pp. 32-33.
[9] Si fa riferimento al seguente articolo, relativo al regolamento di Dublino: Alessandro Fiorini, Stella Gianfreda, Silvia Zarella, Associazione asilo in Europa, Solidarietà ed equità nella politica europea in materia di asilo. Quali le possibili risposte a una non-emergenza, «Africa e Mediterraneo, Cultura e Società», 2014, 80, pp. 5-9.
[10] Antar Mohamed Marincola, La carta, in Sotto il cielo di Lampedusa, pp. 118-119.
[11] Alda Merini, Coloro che arrivano qui in Clandestini, p. 33, (Inedita, Milano, 25 febbraio, 2003).
[12] Gassid Mohammed, Sotto il cielo di Lampedusa, p. 23.
[13] Patricia V. Quezeda, Sulla Spiaggia, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 54.
[14] Cristina Bove, Mea Culpa, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 26.
[15]Annamaria Giannini, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 76.
[16] Francesco Sassetto, Ai respinti di Lampedusa il popolo italiano porge sentite condoglianze, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 128.
[17] Riccardo Paradoz, Gli speciali che scoinvolgono i palinsesti, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 37.
[18] Pina Piccolo, Chi Sommersa chi salvato.
[19] G. Agamben, Homo Sacer, Il potere sovrano e la nuda vita, cit., p. 75.
[20] Selam Kidane, Numero 92, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 100.
[21] Erri De Luca, Alzaia, p. 59.
[22] Erri De Luca, Chisciotte e gli invincibili, p. 46.
[23] Bietelihem Berhane , Indifferenza,in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 70.
[24] Donato Di Poce, Clandestini, nota di lettura.
[25] Fabio Pusterla, prefazione Con Walter, davanti al mare, in Respingimenti.
[26] Walter Cremonte, Portopalo in id, Respingimenti, p. 28.
[27] Isabella Maria Zoppi, Da questa parte del Mare. Gianmaria Testa ed Erri De Luca nel secolo delle migrazioni, «Altre Modernità – Rivista di studi culturali e letterari», cit., p. 43.
[28] Intervista a Erri De Luca, Rai News 24, 30 giugno 2009, <www.rainews24.it/ran24/rubriche/incontri/autori/deluca.asp>
[29] Claudia Zironi, Il civile sbarco a Lampedusa del 3 ottobre 2013, in Sotto il cielo di Lampedusa, p. 55.
[30] Fabio Pusterla, prefazione Con Walter, davanti al mare, in Respingimenti.
Capitoli dalla tesi di laurea inedita, “Una chiglia fradicia di sogni – naufragi mediterranei e poesia”.
Samuele Rizzoli, nato nel 1992, cresce in provincia di Bologna ma la musica, la letteratura e i viaggi lo portano spesso lontano (da casa). Ricercatore spirituale, ogni aspetto della vita è riconducibile all’amore per Dio, il fine ultimo dell’esistenza, ed è proprio questa indagine estatica a mantenerlo impegnato tra le Lettere e la Musica. In contemporanea allo studio della meditazione Bhakti yoga e a quello delle Musica Elettronica presso il Conservatorio di Bologna, nella stessa città si laurea in Lettere Moderne con una tesi in Sociologia della Letteratura riguardante i contemporanei viaggi della speranza nel Mediterraneo. Al momento iscritto alla facoltà di laurea magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche, sogna di riuscire un giorno a porre la propria vita interamente al servizio d’ideali di pace, giustizia sociale e amore.
Foto in evidenza di Simbala Desilles.
Foto dell’autore a cura di Samuele Rizzoli.