Legalizzazione, narcoguerra messicana e il patto d’impunità (Fabrizio Lorusso)

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Estratto dal libro NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga di Fabrizio Lorusso, Ed. Odoya, 2015.

 

Nel panorama della guerra alle droghe messicana, un’offensiva militarizzata contro i narco-cartelli che dura da quasi 9 anni e ha provocato oltre 100mila morti e 26mila desaparecidos, forse qualcosa si muove, anche se molto in lontananza. Gli stati del Colorado, dell’Alaska e di Washington, come pure, più a sud, l’Uruguay, hanno regolato e legalizzato l’uso “ricreativo” della marijuana, sostanza leader nei consumi globali di stupefacenti. Infatti, la cannabis provocherebbe meno danni e meno dipendenza del tabacco o degli alcolici. Gli esperimenti di depenalizzazione e legalizzazione anche a livello di produzione e consumo ricreativo, una novità nelle Americhe, sono promissori, ma sono solo una tappa nel lungo cammino contro la “cultura” e la prassi della guerra alle droghe condotta con mano dura. Decenni di politiche in questo senso non aiutano a trovare alternative “soft”.

 

A Città del Messico la legalizzazione delle droghe leggere (produzione, possesso, consumo, vendita) si sarebbe dovuta concretizzare già da tempo, ma lunghi dibattiti e veti incrociati, dentro e fuori il partito di centrosinistra che amministra la capitale, il PRD (Partido Revolución Democratica), hanno fatto arenare l’iniziativa. Inoltre le discussioni sulla regolazione del consumo di alcune sostanze stupefacenti stanno lasciando fuori le altre droghe, quelle pesanti e soprattutto la bianca coca. Proprio perché è più dannosa e anelata, meriterebbe un quadro normativo che superi la criminalizzazione tout court. Nel Paese è possibile portare legalmente per consumo personale fino a 5 grammi di marijuana, 2 d’oppio e 0,5 di cocaina e si è sottoposti a trattamenti sanitari coatti dopo il terzo arresto. Sono quantità piuttosto basse e quindi una strada percorribile gradualmente verso la depenalizzazione totale può passare dal loro incremento.

 

Gli argomenti contrari alla depenalizzazione immediata del consumo e alla legalizzazione di produzione e vendita, tra cui spiccano quelli del professor Edgardo Buscaglia, uno dei massimi esperti internazionali in materia di sicurezza e narcotraffico, sostengono che in un contesto d’ingovernabilità e di gravi deficienze istituzionali i rischi potrebbero essere troppi. Oltre ai classici motivi ideologici di stampo proibizionista, promossi da attori trasversali allo spettro politico nazionale e internazionale e da settori conservatori della società civile, esistono in Messico ragioni più pratiche e locali per ridimensionare l’entusiasmo verso la legalizzazione. Con le loro legislazioni più aperte sull’uso, e in certi casi sulla produzione e vendita, di sostanze stupefacenti i Paesi Bassi, la Germania, la Spagna, l’Uruguay e il Portogallo si presentano come esempi di approcci pragmatici e differenti nelle politiche antidroga, ma sono molto lontani geograficamente, culturalmente e a livello istituzionale.

 

In terra azteca oltre la metà dei guadagni delle mafie proviene ormai da altri business, diversi dal traffico di narcotici, e quindi la legalizzazione per se le priverebbe solo di una fetta della torta criminale. Sarebbe un duro colpo, non c’è dubbio, e probabilmente compenserebbe eventuali svantaggi e comincerebbe a spezzare il circolo vizioso politico-mafioso. Se, però, la decomposizione sociale ed economica, la cattura delle istituzioni e la permeabilità dello stato e del diritto alle pressioni delinquenziali, seppur ridotte in caso che il business delle droghe passasse sotto il controllo statale, restassero robuste, a causa delle debolezze e della corruzione strutturale degli apparati pubblici e del settore privato, allora il quadro criminale interno non cambierebbe radicalmente. Per funzionare la regolazione del consumo delle droghe dovrebbe andare di pari passo con un piano di consolidamento istituzionale, con l’attacco ai patrimoni e ai business legali e illegali dei narco-cartelli, con la rottura dei patti d’impunità e della corruzione politica a tutti i livelli, con la cooperazione internazionale, soprattutto con i mercati di sbocco di droghe e capitali come l’Europa e gli Stati Uniti, e con adeguate strategie di prevenzione e riduzione del danno. Il problema è ormai globale, la sua risoluzione non può essere responsabilità di un solo Paese.

 

In Messico l’applicazione integrale di un piano di questo tipo significherebbe andare contro una struttura di potere che è sottintesa nell’accordo d’impunità e copertura tra i settori dominanti delle élite economiche e politiche, di cui è partecipe e s’avvantaggia la malavita messicana. La corruzione e i guadagni facili, l’evasione fiscale e la negoziazione della legge, spietata con i deboli e flessibile con i forti, sono fenomeni che hanno portato benefici ai tradizionali gruppi di potere, compresa la criminalità organizzata. In fondo è conveniente mantenere lo status quo: criminalizzare in toto le droghe e simultaneamente le altre forme di “dissidenza” o “deviazione” sociale, servendosi del medesimo impianto legale, è più facile che spezzare il consensus politico interno e quello internazionale sulla war on drugs and terrorism.

 

La porosità del confine tra malavita e stato, tra illegalità e legalità, s’evidenzia nella crescente confusione tra polizia e criminalità. Negli anni Settanta lo scrittore Jorge Ibargüengoitia, nei suoi articoli raccolti nel libro Instrucciones para vivir en México (Istruzioni per vivere in Messico), già affermava: «In caso ci siano problemi, non chiamare la polizia, per non avere un altro problema». Il patto di potere e impunità potrà rompersi quando i costi del suo mantenimento si saranno fatti troppo alti, quando la narcoviolenza e l’instabilità economico-sociale colpiranno le classi privilegiate, barricate in quartieri protetti e autosufficienti nelle grandi città, e non soltanto, come accaduto finora, le fasce più vulnerabili della popolazione.

 

Sul fronte finanziario s’è fatto poco per attaccare il cuore pulsante delle narco-finanze: in Messico mancano misure serie, e anche istituzioni adeguate per la loro applicazione, contro il riciclaggio del denaro sporco e dei proventi del narcotraffico. E così fioriscono le relazioni tra le mafie e il sistema bancario e finanziario statunitense. Nonostante gli scandali e la crisi dei mutui subprime del 2007 e la depressione del 2008-2009, il sistema s’è mantenuto a galla anche grazie alla presenza massiccia di capitali di dubbia provenienza. I narco-patrimoni sono stimati in circa il 40% del PIL annuale messicano e i narcos, cittadini di un Paese storicamente bistrattato dalla vicina superpotenza, potrebbero averla salvata proprio coi loro capitali, rimessi in circolo nel sistema o trasformati in asset di imprese legali.

 

All’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 venne implementata un’operazione imponente contro gli attivi finanziari di Al-Qaeda, concertata ed effettuata dagli usa e dai suoi alleati. Non è successa ancora la stessa cosa per i capitali riciclati della droga, reinvestiti in banche e migliaia di imprese legali non solo in America del Nord, ma in almeno altri 50 paesi. Il narcotraffico e la sua economia, che beneficia enormemente intermediari, grossi dealers e piccola distribuzione ma molto meno i produttori e coltivatori, paiono blindati, nonostante le droghe siano passate già vari decenni or sono a essere un problema di “sicurezza nazionale” e non solo una questione di “salute pubblica”. In molti paesi delle Americhe, ma il ragionamento vale anche per l’Unione Europea e gli Usa, alle altisonanti dichiarazioni di guerra e mano dura dei capi di stato e di governo non sono corrisposti risultati equiparabili. Gli sforzi d’intelligence e di costruzione istituzionale in Messico sono insufficienti e la strategia militare non ha reso i frutti sperati, ma ha prodotto enormi catastrofi umanitarie. Nel frattempo non sono diminuiti i flussi illeciti in uscita e i reinvestimenti delle immense narco-ricchezze generate.

 

La malattia della violenza ammorba la società: tra il 1992 e il 2007 il tasso d’omicidi per 100.000 abitanti era sceso costantemente da 22 a 8, ma poi è tornato a crescere, toccando quota 24 nel 2011. Nel 2012 e 2013 c’è stata una lieve diminuzione con tassi a 22 e 20, cioè 26.000 e 23.000 morti rispettiva- mente. Buona parte di questi sono connessi, secondo i dati delle procure e altre istituzioni pubbliche, alla criminalità organizzata.

 

Con l’avvento dell’alternanza democratica nel 2000, non è stato smantellato, ma solo frammentato e rinnovato, il regime di connivenza e corruzione, basato sul patto tra apparati dello stato (polizia, procure, governi locali, forze federali, politici di tutti i livelli), élite economiche e narcos che vigeva negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Il principale interlocutore nel Nord-Ovest era senza dubbio l’organizzazione di Guadalajara o Federación, progenitrice dell’attuale cartello di Sinaloa, referente del sistema politico e burocratico imperniato sul partito di governo che comandò in Messico per 71 anni: il PRI (Partido Revolucionario Institucional).

 

Nel 2000 il candidato priista Francisco Labastida fu sconfitto alle presidenziali dal candidato del partito conservatore pan (Partido Acción Nacional), Vicente Fox. Il vincitore perseverò nell’applicazione dell’agenda liberalizzatrice e aperturista dei suoi predecessori, ma applicò il laissez faire anche al mondo della criminalità organizzata che proliferò in un libero mercato criminale.

 

Il secondo presidente proveniente dalle file del PAN, Felipe Calderón, tra la fine del 2006 e il 2012 getta benzina sul fuoco e lancia una serie di operazioni militari dell’esercito e della marina nelle regioni più calde. Il 1° dicembre 2006 Calderón aveva formalizzato il suo insediamento nel mezzo di furiose polemiche. La crisi di legittimità si era fatta pesante per le accuse di brogli elettorali rivoltegli dall’opposizione di sinistra del PRD (Partido de la Revolución Democrática) e dal suo candidato, Andrés Manuel López Obrador (AMLO). Sconfitto alle elezioni del 2 luglio con uno scarto di solo mezzo punto percentuale sul totale, AMLO, forte del sostegno di centinaia di migliaia di cittadini indignati, paralizza il centro di Città del Messico, l’elegante Avenida Reforma e la turistica Plaza de la Constitución. Il blocco dura vari mesi, è un grande momento di convivenza e resistenza civile, unico nella storia messicana. “Voto por voto, casilla por casilla” (“Voto per voto, seggio per seggio”) è il grido del suo movimento che pretende un nuovo conteggio delle schede che, però, sarà effettuato solo parzialmente. Calderón giura come presidente, ma metà Messico lo taccia di “spurio” e non lo riconosce.

 

Nel primo giorno di governo aumenta lo stipendio ai membri delle forze armate e della polizia federale. L’11 dicembre il presidente invia l’esercito contro i narcos nel suo stato natale, il Michoacán. È l’inizio della guerra al narcotraffico o narcoguerra. Il conflitto dura ancora oggi e nei primi sei anni ha fatto almeno 83.000 morti e tra i 22.000 e i 27.000 desaparecidos: sono cifre da guerra civile o da dittatura, l’eredità lugubre del secondo presidente del PAN.

 

Tra il 2006 e il 2008, 50.000 militari vengono schierati in vari stati della Repubblica messicana e la cifra sale a 130.000 nel 2009. Affianco ai soldati s’impiegano 20.000 poliziotti federali che aumentano a 35.000 nel 2011. In dieci anni, tra il 2004 e il 2013, l’organizzazione Reporter senza Frontiere conta 88 decessi e 17 desaparecidos tra i giornalisti messicani. Esternalità negative dell’autoritarismo e del conflitto armato. Alcuni giornali tendono a minimizzare e a nascondere i dati veri per paura di rappresaglie da parte delle autorità e dei narcotrafficanti. O di entrambi, in combutta. Il fenomeno del bavaglio e della censura, basato su ammazzamenti, minacce e sequestri, s’è acutizzato. Durante il primo anno di governo di Peña Nieto ci sono stati quattro morti e due desaparecidos tra i professionisti della comunicazione. Anche per questo è importante raccontare. Ci provo con reportage e storie che tentano di aprire scorci e parentesi di senso su questi anni convulsi di un Paese bellissimo e turbolento come il Messico. Con l’auspicio, forse scontato ma sincero, che la guerra e le sue ipocrisie finiscano.

 

Breve descrizione di NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei cartelli della droga di Fabrizio Lorusso – Prologo di Pino Cacucci – Odoya Edizioni (Bologna, 2015), pp. 412

 

NarcoGuerra è un testo giornalistico e narrativo sul Messico e sulla guerra ai cartelli della droga, dichiarata nel 2006 dall’allora presidente Felipe Calderón. Il bilancio ad oggi è di 100.000 morti, 26.000 desaparecidos, 281.000 rifugiati. A tre anni dall’insediamento di Enrique Peña Nieto la situazione non è sostanzialmente cambiata, ma il discorso ufficiale ha provato a nascondere la violenza, i vuoti di potere e la strategia di militarizzazione del territorio. Ma l’uso della forza occulta debolezza, non dà i risultati sperati.

La notte del 26 settembre 2014, a Iguala, nello stato del Guerrero, quarantatré studenti della scuola normale di Ayotzinapa vengono sequestrati dalla polizia, controllata dal sindaco e dai narco-boss locali, e poi consegnati a dei narcotrafficanti. Desaparecidos. Polizia e narcos collusi: la norma in tante città messicane. La notizia rimbalza, l’indignazione è globale. La piazza grida: “Giustizia!” Che lo stato ammetta le sue responsabilità. La investigazioni e le versioni offerte dalla procura sono piene di contraddizioni, si vuole circoscrivere la strage degli studenti a un contesto locale. Si riaccendono i riflettori sulla NarcoGuerra, sulle violazioni ai diritti umani, sulla guerra alle droghe come strumento di controllo sociale e delle risorse. La malavita rimane capace di gestire patti e infiltrazioni con la politica e la sua forza sono i mercati internazionali di marijuana, oppiacei, cocaina, droghe sintetiche, armi e persone.

Per capire questa situazione, manifestazione locale di fenomeni globali, il libro esplora la storia e l’attualità dei cartelli, dei boss e del narcotraffico, la war on drugs statunitense, gli elementi della narco-cultura come il culto alla Santa Muerte, i narco-blog e la musica dei narcocorridos, i meccanismi della “fabbrica dei colpevoli”, coi casi e le ingiustizie contro la francese Florence Cassez e il prof. indigeno Alberto Patishtán, e l’evoluzione dei movimenti sociali: quello per la Pace con Giustizia e Dignità del poeta Javier Sicilia, la “primavera messicana” del YoSoy132, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Ayotzinapa, Atenco, Oaxaca, e le autodefensas armate. I pezzi di questo puzzle messicano sono reportage, interviste, cronache e analisi con una visione critica di quanto vissuto negli ultimi anni in Messico e in altri paesi latinoamericani. Un narco-glossario finale e una serie di mappe esplicative accompagnano il lettore nel viaggio.

Le grida del Messico riecheggiano. Dal ¡Ya basta! zapatista del primo gennaio 1994, ai fragori di Atenco e Oaxaca, dal ¡Basta sangre! del 2010 al ¡Estamos hasta la madre! di Javier Sicilia, dal silenzio delle carovane per i migranti centroamericani, che il Messico inghiottisce per sempre, al rumore delle vittime del conflitto, dal ¡Vivos se los llevaron, vivos los queremos! al ¡Fue el Estado! dei genitori e del movimento di Ayotzinapa. Le ribellioni di questi anni nel contesto della militarizzazione della guerra alle droghe, della repressione sociale e della globalizzazione tessono un filo rosso che lega i capitoli di NarcoGuerra.

Estratto dal libro NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga di Fabrizio Lorusso, Ed. Odoya, 2015, per gentile concessione dell’autore.

 

 

Fabrizio Lorusso

Fabrizio Lorusso è giornalista freelance, traduttore e professore di geopolitica dell’America Latina all’università UNAM di Città del Messico, dove vive da 14 anni. Ha pubblicato i saggi-reportage: La fame di Haiti (con Romina Vinci, END, 2015) e Santa Muerte. Patrona dell’Umanità (Stampa Alternativa, 2013), i racconti per le collettanee: Nessuna più. 40 scrittori contro il femminicidio (Elliot, 2013), Re/search Milano. Mappa di una città a pezzi (Agenzia X, 2015), Pan del Alma (2014) e Sorci Verdi. Storie di ordinario leghismo (Alegre, 2011). Collabora con vari media tra cui il quotidiano messicano La Jornada e la rivista Variopinto, Il Reportage, Radio Popolare, Global Project. E’ blogger di Huffington Post, redattore della web-zine Carmilla On Line e il suo sito è LamericaLatina.Net.

 

Foto in evidenza di Melina Piccolo.

Foto dell’autore a cura di Fabrizio Lorusso.

Riguardo il macchinista

Pina Piccolo

Pina Piccolo è una traduttrice, scrittrice e promotrice culturale che per la sua storia personale di emigrazioni e di lunghi periodi trascorsi in California e in Italia scrive sia in inglese che in italiano. Suoi lavori sono presenti in entrambe le lingue sia in riviste digitali che cartacee e in antologie. La sua raccolta di poesie “I canti dell’Interregno” è stata pubblicata nel 2018 da Lebeg. È direttrice della rivista digitale transnazionale The Dreaming Machine e una delle co-fondatrici e redattrici de La Macchina Sognante, per la quale è la cosiddetta macchinista -madre con funzioni di coordinamento. Potete trovare il suo blog personale digitando http://www.pinapiccolosblog.com

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